martedì 30 marzo 2021

Aikido, liberi di respirare



Nello sguardo poetico di Martino Frova si colgono tanti aspetti inerenti all'Aikido, "un'arte di unirsi e separarsi" (musunde hanatsu). 

Movimento, respiro, spontaneità, sorrisi, maturità, giovinezza, assenza di competizione, gioia di esserci...

https://www.youtube.com/watch?v=PIBJuNFGnEI


venerdì 26 marzo 2021

Un nuovo Dojo

 



Un nuovo Dojo, la ripartenza

Cari amici di Akeleinaa Dojo, vi scrivo per comunicarvi in breve i cambiamenti che introdurrò nel funzionamento e nella concezione del Dojo a partire dal mese di settembre 2020.

Sono lieto di comunicarvi la decisione a cui finalmente sono giunto: essa è il frutto di una riflessione non soltanto dei mesi appena trascorsi ma di un periodo più lungo, più o meno riferibile agli ultimi due anni che ho sentito più complicati dei precedenti. In sostanza, avverto la necessità di un cambiamento di rotta, personale e collettivo, affinché la pratica che condividiamo ritorni ad essere vivace e possibilmente allegra come è stata in altri periodi e non perduri una fase che definirei di ristagno nella quale si rischia di perdere di vista aspetti che ritengo essenziali quali la libertà, il piacere, la spontaneità, l’entusiasmo, il desiderio, l’impegno.

In questa lettera, vorrei motivare almeno in parte le variazioni di carattere pratico che intendo proporre, affinché non siate troppo sorpresi quando riprenderanno le attività dopo la pausa estiva. Rinvio ogni approfondimento a quando ci ritroveremo insieme. Certo, parlare del Dojo e del suo funzionamento è un tema che mi appassiona e su cui potrei soffermarmi senza stancarmi (in fondo gli ho dedicato quarant’anni della mia vita) ma sono perfettamente consapevole che ciascuno di noi ha il proprio vissuto e priorità diverse perciò non intendo dilungarmi.

La direzione che ho deciso di intraprendere quando ho fondato Akeleinaa nel 2005 era un tentativo di dare una risposta a una domanda non scontata: può davvero esistere un Dojo libero, flessibile e aperto (non troppo strutturato e direttivo) oppure si tratta solo di un ideale astratto?

Quindici anni dopo non ho ancora risposte né certezze ma la direzione interiore rimane invariata. Credo tuttavia che sia man mano maturata in me una concezione di Dojo fondamentalmente diversa da quella che avevo allora.

Il mio percorso, in estrema sintesi, è stato questo:
Per due anni (dal 1982 al 1984) ho vissuto l’appassionante scoperta della pratica del Katsugen undo e dell’Aikido.
Per vent’anni (dal 1984 al 2004) ho praticato con un maestro e il suo gruppo (microcosmo) di allievi.
Per quindici anni (dal 2005 al 2020) ho praticato, senza esserne abbastanza consapevole, in reazione a quel maestro. Ho creato un Dojo personale, ho cercato e trovato la mia strada, il mio stile e la mia parola per comunicare ciò che avevo da dire. In tutto questo tempo ho tuttavia continuato a credere e riconoscermi in un’ideale di gruppo e di pratica collettiva che, seppur antitetici e fondati su principi diversi rispetto a quelli vissuti (e subiti) negli anni della mia “formazione”, in realtà ne perpetravano un aspetto fondamentale: l’idea di Dojo inteso come espressione di un gruppo coeso, possibilmente permanente. Ho lavorato moltissimo per dare una struttura “stabile” a una realtà che, ora ne sono convinto, non può che essere mutevole e dunque sostanzialmente instabile. Realizzazione individuale e appartenenza ad un gruppo possono convivere solo per un tempo determinato.

Oggi, in un certo senso sciogliendolo, decido di uscire dall’idea di gruppo/dojo e dalla responsabilità di guidarlo (o di non-guidarlo). Nel farlo, commisurando i fatti alle parole, intendo liberarmi dalle contraddizioni insite in ogni gruppo: gerarchie, ruoli, dipendenza, struttura che tende man mano a irrigidirsi. Anche se nostro malgrado, esse finiscono per instaurarsi e imprigionarci, portando disagio, profondo malessere e conflitto.

Ho finito per convincermi, tuttavia, che l’idea stessa di gruppo, semplice o strutturato che sia, è una causa di sofferenza. Mi sono accorto del rischio che essa diventi un vero e proprio ostacolo a quella libertà interiore a cui aspiro e che considero essenziale nella pratica che mi sono scelto. Non ho più il desiderio di sostenere e perpetuare quest’idea e ne assumo le conseguenze.

Con il cuore più leggero posso finalmente sognare di avventurarmi in un terreno di nuovo aperto e ignoto, seguendo il profumo invitante della libertà incondizionata e di una conoscenza che si rinnova costantemente. Sui tatami del Dojo, ancor più di prima, l’oggi sarà il reale mentre il domani sarà il possibile. In sostanza, quando praticheremo insieme - mi auguro con ritrovato piacere - proveremo forse il desiderio di ripetere altre volte quell’esperienza e ciò accadrà se ce ne saranno le condizioni. Nulla però sarà scontato o dovuto: ci conquisteremo la pratica giorno dopo giorno. Nel comunicarvi questi pensieri, sento un nodo che si scioglie dentro di me e un senso di cammino che ritorna ad essere chiaro. L’orizzonte ritorna ad aprirsi davanti ai miei occhi.

La pratica è generosa ma non è gratuita. Essa ci restituisce in misura di quanto le diamo. Vorrei soffermarmi un attimo sul valore dell’impegno. Esso porta con sé fiori e frutti. Quando invece esso manca, viene meno ogni qualità, ogni dono inatteso, ogni luce. Possiamo interrogarci se questo impegno sia dovuto a qualcuno o qualcosa. Prima di tutto lo dobbiamo a noi stessi e alla vita che ci anima. Impegnarsi con se stessi significa offrirsi una rosa ogni giorno e nobilitare la nostra esistenza. Ci terrei che ciò fosse ben chiaro per chi intende continuare a praticare ad Akeleinaa dojo.

Secondariamente, l’impegno può avere una valenza collettiva, possiamo cioè desiderare che il nostro luogo di pratica possa continuare ad esistere, che possa diventare più accogliente, più vivo, più bello. Ci adoperiamo allora concretamente affinché tutto ciò possa accadere.
Esiste, tuttavia, una forma più insidiosa e complessa d’impegno ed è quella dell’impegno personale reciproco. Una relazione nata per essere spontanea e libera finisce per trasformarsi in un legame, un dovere, un’abitudine. Mi chiedo, per lo specifico contesto di un Dojo e per una sua esistenza sana, se questi siano necessari e auspicabili. La conclusione a cui giungo è che no, essi non lo sono. Allora penso anche che, almeno in questo luogo di pratica autentica, possiamo ridurre i compromessi sociali, abolendo matrimoni e contratti, e lasciare che ogni affetto eventuale si manifesti solo nella sua spontaneità. Mi sento assai più leggero nel rendermi conto che sto uscendo da questa forma di vincolo: mi sto liberando di voi e vi sto liberando di me. Possiamo finalmente cominciare un nuovo cammino insieme, più sincero e semplice, meno carico di aspettative reciproche. Ognuno facendo affidamento sulle proprie gambe e sul proprio slancio vitale.

Perché tenere aperto un Dojo?

La pratica Zensei è la pratica della Vita Integrale. Essa si propone di offrire a ciascuno gli strumenti e le chiavi che consentano di condurre un’esistenza piena e soddisfacente, nel rispetto dell’integrità individuale, delle sensibilità diverse e dell’autonomia personale.
Il Dojo è il luogo sereno e tranquillo che accoglie le pratiche del Non-Fare. Queste pratiche, in sé, non tendono ad alcuno scopo né all’ottenimento di qualsiasi risultato, non poggiano su una conoscenza pregressa né trasformano la vita e le sue manifestazioni in tecnica insegnabile o trasmissibile.

Ad Akeleinaa dojo, lo spirito Zensei si esprime attraverso quattro pratiche, diverse per origine e forma, ma unite da un Ki (spirito vitale) che le attraversa tutte e le armonizza: il Katsugen Undo (movimento rigeneratore), l’Aikido (unione attraverso il respiro), lo Zazen (meditazione zen) e il Gioco del Dipingere (espressione della traccia naturale).

Queste pratiche, ognuna attraverso le proprie specificità, conferiscono valore e nobiltà ad un atto spontaneo che non è dettato dalla ragione ma che sorge incondizionato come risposta dell’organismo ad un bisogno interiore inconscio. Esse risvegliano dunque la vitalità, la sensibilità e la creatività di ogni persona invitando all’ascolto della Vita che scorre in noi e ci anima.

In un Dojo Zensei, guide, maestri e mediatori non sono perciò necessari, soprattutto se favoriscono un fraintendimento controproducente e dannoso: che sia cioè buona cosa seguire qualcuno che ci indichi il sentiero su cui procedere. Come diceva Jiddu Krishnamurti non esiste un sentiero che porti alla verità mentre Itsuo Tsuda, con altre parole, esprimeva lo stesso pensiero: la Via non è un’autostrada verso il paradiso. Il risveglio autentico, l’autonomia e la libertà personale - e tutta la gioia che ne consegue - possono solo essere il frutto di un cammino individuale, a volte anche difficile e tortuoso, orientato verso il dentro, verso il centro del nostro essere.

Se intraprendere o meno questo cammino è una decisione personale. Nessuno può suscitare in noi il desiderio di muoverci e di effettuare il primo passo né quelli successivi. Un’altra persona, ben disposta nei nostri confronti, potrà forse soffiare sulle braci affinché il fuoco non si spenga del tutto ma la responsabilità, il merito, la fierezza e la gioia piena per aver (ri)scoperto che la Luce è dentro ognuno di noi saranno assolutamente nostri, solo nostri.

Non siamo soli in questo mondo, a meno che non ci si sia ritirati in qualche caverna lontana e irraggiungibile. Per le persone come me che hanno deciso di passare, almeno per il momento, la propria esistenza in una grande città dai ritmi spesso innaturali, dai rumori frastornanti e da consuetudini di vita collettiva faticose da sostenere, è gradevole sapere che esiste un Dojo, luogo dove il tempo si ferma o perlomeno rallenta, dove posso ritrovare e rispettare la parte più vera di me stesso. E soprattutto oggi, in cui le forme di condizionamento e di alienazione collettiva diventano sempre più subdole, insidiose e invadenti sono davvero grato a questi spazi vuoti e semplici che ci proteggono e consentono di esprimere l’intimità e la verità di ciascuno. Non più rinchiusi, soli e non-comunicanti fra le quattro mura dei nostri appartamenti, persi di fronte ad un grande o piccolo schermo. Ma uniti dal piacere di sentirsi insieme, di farsi Yuki, di toccare con mano il movimento che esprime la vibrazione del vivente. Un Dojo non è spazio virtuale né immaginario, è terreno in cui può nascere, crescere e rigenerarsi la Vita. Officina di fiducia e di speranza, crogiuolo di respiro libero, esso è uno spazio interiore ma anche fisico che nessuno potrà mai togliermi. Per questo voglio continuare a tenerlo aperto e a proporlo a chi mi circonda, a chi si avvicina, a chi ne è attirato. Un dojo autentico è un’isola preziosa in cui la bio-diversità continuerà ad aver diritto di esistere e di replicarsi. Coltiviamolo senza colonizzarlo, questo è il mio sogno.

Dojo, luogo del dentro

 




Cari iscritti per quest’anno al dojo...

A KE LEI NAA ... GRAZIE!!!


Ricordate che questa parola, A ke lei naa, significa proprio questo?

Grazie, Arigatoo gozaimasu, merci, thanks, gracias amigos...

L’avevo scelta proprio perché volevamo dare ad un dojo neonato un nome che esprimesse la gratitudine, un nome musicale, un nome che avesse una nota femminile.
Dare vita ad un dojo è come cullare un neonato, impossibile farlo senza provare questo sentimento che ci unisce, ci permette di ascoltarci, scioglie le separazioni tra il dentro e il fuori.

Il dojo è il luogo del dentro che ti fa scoprire i giardini del fuori, il sangue infinito rosso che illumina d’immenso la cascata, i muschi, le pietre, i tronchi, le erbe, le foglie... La calma del luogo al riparo che ci insegna a scorrere con la vita spontanea della natura, anche in epoca d’intemperie.

In attesa che questo dojo si realizzi nella pancia di ciascuno, indistruttibile e incorruttibile, ci siamo costruiti quattro muri per accogliere i tatami e una calligrafia. Frequentando questo spazio senza tempo stiamo coltivando il nostro terreno interiore. Lo ariamo, innaffiamo, accarezziamo per lasciar nascere la pianta che siamo.

Non so se sia un segno di rispetto per il passato, una perla del presente o un passo allegro verso il futuro, comunque sia avete scelto di dare linfa a questo piccolo dojo milanese, in fondo ancora giovane. Avete scelto che anche nei mesi a venire, grazie alla vostra generosità, si potrà star seduti dentro al caldo e, aprendo gli occhi tra un movimento e l’altro, lanciare uno sguardo fiducioso ai tanti cieli del fuori.

In trentasei vi siete aggiunti agli undici che eravamo!
Che forza, che vita, che umanità se ci muoviamo tutti insieme...
Se sentirete lo slancio di rituffarvi nelle atmosfere della pratica, non esitate e seguite l’istinto. Il dojo sarà aperto.

Giovanni

Milano, Akeleinaa dojo, 26 dicembre 2020

giovedì 25 marzo 2021

Orta 2021

Uno sguardo semplice, allegro e fluido sulla pratica Zensei che mi accompagna ormai da quarant'anni. L'appuntamento sul Lago d'Orta, quest'anno, è dal 3 al 6 giugno. Non vedo l'ora...




L'incontro con Hirosuke Noguchi

 

L’incontro con Hirosuke Noguchi




Invitato da Yolanda Bandrés Ottavi, scrivo volentieri qualche riga sul mio incontro con Hirosuke Noguchi, Roi sensei, terzo figlio di Haruchika, avvenuto più o meno una decina di anni fa. Incontro di un solo giorno tuttavia per me assai significativo sotto molti punti di vista. Quello che ora di esso posso raccontare sono solo impressioni personali che dunque non hanno in sé molto valore ma possono forse interessare chi ha a cuore la storia della famiglia Noguchi e fornire qualche spunto di riflessione in più ai praticanti del Seitai.

Di Hirosuke sensei avevo sentito parlare molto da Takashi Onizuka e da sua moglie Yoshiko nelle lunghe giornate passate insieme nella loro casa di Narutaki, a Kyt. Di ciò che loro mi hanno raccontato non parlerò molto in questo scritto, un po’ perché si trattava in buona parte d’informazioni confidenziali che non intendo divulgare e un po’ perché vorrei limitarmi al mio vissuto e alle mie sensazioni dirette che mi sento più libero di comunicare.

Tuttavia, per chiarire meglio l’ambito in cui avvenne l’incontro con Hirosuke Noguchi è necessario ricordare che mi trovavo in Giappone, ospite della famiglia Onizuka, per un periodo di pratica e studio con Onizuka Takashi sensei nel djSeitai di Kyt. Questo dj, appartenente al Seitai Kykai e alla famiglia Noguchi, è uno spazio ampio, accogliente e gradevolissimo, di struttura lignea e attorniato da un bel giardino, che durante l’anno - allora come oggi - è dato in gestione al sig. Onizuka che quotidianamente lo raggiunge in bici per praticarci il Katsugen undo, fare il Seitai she insegnare il Seitai.




Il sig. Onizuka fa parte di un gruppo di tre uchideshi di Haruchika Noguchi - lui, il sig. Katada e il sig. Tabusa che credo siano stati gli ultimi allievi “della casa” - e ha trascorso tutti gli anni giovanili abitando con il suo maestro fino al completamento della formazione seitai e l’inizio, intorno ai 27 anni, della sua carriera professionale a Shizuoka. In particolare, in quegli anni come “allievo interno” si è occupato e ha passato molte ore della sua vita con i cinque figli di Haruchika e Akiko quando questi erano bambini ed è stato per loro quasi un fratello maggiore. Li conosce dunque molto bene e quando me ne parla in situazioni informali a volte usa i soprannomi che erano stati loro attribuiti da piccoli: il maggiore Hirochika, Ponchan (da Bonbon); il secondo, Hiroyuki, Danchan (da Dandy); il terzo Hirosuke, Roichan (da Royal); la quarta, e unica femmina, Kino (che non so se avesse un soprannome); il quinto Takafumi, Takachan.

In seguito, tra loro, è rimasto molto legato soprattutto a Hirosuke, trovando probabilmente anche più affinità con lui dal punto di vista della pratica e dell’interpretazione del Seitai.

Ogni anno, nelle occasioni in cui Hirosuke veniva a Kytper i suoi seminari, era consuetudine che lui e Takashi si ritrovassero la sera del suo arrivo per una cena insieme. Il sig. Onizuka mi diceva che Roi amava molto quelle serate tranquille in cui poteva lasciarsi andare a momenti semplici e distesi con una persona con cui si sentiva in piena fiducia. Credo che Roi fosse una persona molto impegnata e sollecitata di continuo. Immagino quindi che momenti di relax di questo tipo non fossero così frequenti per lui e che di conseguenza gli fossero cari.

Lo conobbi appunto in occasione di una delle sue venute a Kyt, ricordo che si trattava di un 9 settembre, anche se ora, mentre scrivo, non ne rammento esattamente l’anno. Come di consueto, il sig. Onizuka uscì la sera del suo arrivo per cenare insieme a lui. Mi disse che l’indomani ero libero di occupare la giornata come meglio credevo perché al djsi sarebbero riuniti molti tecnici seitai (seitai concertants) e non essendo io uno di loro dubitava che potessi partecipare (anche perché non stava a lui decidere in merito). Risposi che capivo benissimo la situazione ma che mi avrebbe fatto molto piacere comunque incontrare Roi sensei, anche solo per stringergli la mano. Onizuka mi rispose che non mi prometteva nulla ma che avrebbe comunicato il mio desiderio a Noguchi. Dopo la mezzanotte, ho ricevuto una sua telefonata nella quale mi diceva di tenermi pronto perché, inaspettatamente, Hirosuke mi invitava a partecipare al seminario della mattina seguente. Stropicciandomi gli occhi, tra l’assonnato e l’eccitato, sono andato a letto con il pensiero portato all’indomani.




Giunto al djcon anticipo, ho assistito all’ingresso di Roi sensei dalla porta principale e mi sono detto che il suo soprannome era davvero azzeccato. C’era davvero qualcosa di regale in lui e in quello che si svolgeva davanti ai miei occhi. Preceduto e seguito da diverse persone, è entrato con passo lento ma allo stesso tempo deciso. Vestito di abiti tradizionali giapponesi di tonalità scura che strisciavano sul suolo di legno liscio mentre egli avanzava quasi scivolando, mi è passato vicino ed io ho potuto salutarlo usando una formula onorifica adeguata che mi ero preparato in precedenza per evitare gaffe linguistiche. Mi ha risposto con un bel sorriso pieno. Con quel suo corpo così alto e una figura maestosa, incedeva leggermente piegato verso l’avanti quasi portasse, è la mia impressione, un notevole fardello sulle spalle. Mi è sembrato fin dal primo sguardo che fosse pervaso da una tristezza gentile, che fosse carico di carisma ma anche di una grande malinconia.

Chi pratica il Katsugen und, il movimento rigeneratore, riconosce a prima vista questo movimento spontaneo in cui il corpo oscilla o ruota dolcemente - o più dinamicamente - intorno al suo asse (bacino e colonna vertebrale) seguendo un ritmo e una forma personali e variabili per ciascuno in ciascun momento. Lo abbiamo sperimentato su noi stessi e lo abbiamo visto tante volte negli altri sui tatami o in luoghi discreti, oppure abbiamo potuto riconoscerlo nei bambini che, meno controllati degli adulti e meno costretti dalle consuetudini di comportamento sociale, si lasciano andare con più facilità a movimenti che rispondono ad un bisogno diretto dell’organismo. Siamo tuttavia meno avvezzi alle situazioni tipo quella che mi sono trovato a vivere quando ho incontrato Hirosuke. In effetti, sia quando camminava sia quando si fermava - per esempio, quando mi ha stretto la mano - egli oscillava e si muoveva costantemente. Era come se lui fosse costantemente nell’atmosfera del Katsugen und, anche nei momenti, diciamo così, extra-pratica ed il risultato era che se desideravi entrare in relazione con lui, non potevi evitare di muoverti pure tu, se non altro per empatia. Con il suo solo modo di essere e il suo ki così particolare ti aspirava letteralmente in quella particolare condizione in cui il movimento fluisce senza apparenti ostacoli e la ragione, almeno in parte, si mette a tacere o in stand-by. Una cosa strana, perché insolita, ma per nulla sgradevole, almeno per me.




La primissima sensazione è stata perciò questa. “Quest’uomo incarna davvero la pratica e la filosofia che propone. È come se ci navigasse dentro giorno e notte senza uscirne mai” ho pensato dentro di me. Poco dopo il suo arrivo, il seminario ha avuto inizio e Hirosuke si è seduto di fronte ad una lavagna posizionata in fondo alla sala e ha cominciato a parlare del soggetto che si era proposto di affrontare quel giorno senza smettere, ça va sans dire, di roteare e dondolare, seguendo con le parole il movimento regolare e tranquillo che nasceva nel suo corpo. Parlava ovviamente in giapponese ed io, che questa lingua la mastico un poco ma che di un discorso complesso capisco sì e no due parole su dieci, non comprendendo molto di quello che diceva, mi sono concentrato piuttosto sulle sensazioni che vivevo in quella situazione interessante e sulla grande concentrazione di ki che avvertivo nel dj. Mi guardavo discretamente intorno e osservavo con attenzione tutti i presenti.

Riuniti sui tatami di paglia del grande seitai djdi Fukuoji (a spanne direi una superficie di pratica di 150 mq circa), quel giorno, c’erano più o meno 90 tecnici seitai che provenivano da diverse parti del Giappone. Tutte persone, alcune di loro anche assai anziane, con anni e anni di esperienza, di studio e di pratica. Mi sentivo un pochino come un pesce fuor d’acqua, unico straniero - ma forse questo era il meno - con scarsa o quasi nessuna competenza tecnica e per giunta incapace di comprendere la lingua. Eppure avevo il mio spazio in quel contesto e stava a me cogliere il senso della mia presenza, se mai ce ne fosse stato uno. Sapevo che, dopo la conferenza - durata circa un’ora e mezza - ci sarebbe stata una seduta di Katsugen unde l’attendevo con impazienza e curiosità.

Innanzitutto il djmi appariva molto diverso da come lo conoscevo. Mi ero innamorato di questo luogo passandoci lunghi momenti anche solitari a leggere, semplicemente sedendo e guardando il giardino al di là delle vetrate o sorseggiando un thé verde preparato da Yoshiko Onizuka che me lo offriva con il suo sorriso radioso. Un’atmosfera calda e familiare, insomma. Ero poi abituato a viverlo durante le sedute del sig. Onizuka, così leggere e liete, frequentate da un numero molto minore di partecipanti, dai 15 ai 25 a seconda delle volte e per la maggior parte donne, mentre ora, così pieno di praticanti esperti e in certo qual modo “importanti” mi sembrava tutto un altro luogo. Il ki era diverso, molto più forte, concentrato e carico ma anche... più formale. Due mondi, due Giapponi, due djdistinti in un medesimo luogo e a distanza di pochissime ore. Sappiamo tutti che uno stesso spazio - nella fattispecie un dj- cambia a seconda delle persone che lo abitano e della qualità della loro presenza e del loro ki. In questo caso ne avevo la riprova evidente. Non vorrei però che ciò che scrivo fosse interpretato come se esprimessi uno scontento o una critica nei confronti dei presenti e del loro modo di essere lì. Era solo una situazione differente da quella che conoscevo, non comparabile con quella che avevo scoperto con gioia venendo la prima volta dall’Europa e che aveva riportato freschezza e leggerezza nella mia pratica.

Con le parole di oggi, direi che nella pratica con il sig. Onizuka avevo sentito e - che sollievo! - ritrovato “l’unità nel piccolo e nel semplice” mentre in quel simposio di personalità rilevanti sentivo una certa frammentazione, tante presenze forti, e forse, nell’insieme, meno unione.




Però... - c’è sempre un però! - nella seduta con Roi sensei ho vissuto qualcosa di straordinario che non dimenticherò facilmente e questo vissuto, questo sentire, è legato direttamente alla sua persona e, più ancora, alla qualità della sua presenza.

Durante il tempo del movimento individuale, che è durato piuttosto a lungo, ho aperto gli occhi perché ero curioso. Le persone in Giappone si muovono molto, sicuramente di più che in Europa: oserei dire che praticano il movimento rigeneratore più liberamente e forse con meno filtri o pensieri che, in fondo, sono il solo e vero grande ostacolo, superabile se lo desideriamo sinceramente. Novanta praticanti insieme erano per me un panorama insolito e non ho resistito alla tentazione di guardarmi un po’ intorno. Ho visto anche che Hirosuke si era alzato dalla sua sedia e girava tra i praticanti. Allora ho richiuso gli occhi e mi sono concentrato sul mio movimento. La pratica era accompagnata dalla musica e in quel momento nella sala risuonava una chitarra spagnola con “Asturias” di Isaac Albeniz, il pezzo preferito di Roi sensei.

Ad un certo punto ho sentito quello che potrei definire solo come... un vento. Una specie di spirale vorticosa che, attraversandomi, ha fatto sì che nel mio corpo scattasse un movimento intenso e libero. Hirosuke era dietro di me - anche se non lo avevo sentito giungere - e le sue mani mi hanno sfiorato appena, senza nemmeno toccarmi davvero. Il vento di cui queste mani erano portatrici, chiaro, intenso, pulito, ha soffiato dentro di me senza trovare alcuna resistenza, anzi sciogliendola. Questo soffio mi ha comunicato una sensazione di grande benessere trasportandomi lontano e al contempo vicino, dentro di me. Sono grato a Roi sensei per avermi fatto sentire quest’aria gentile, questo respiro unificante, che non avevo mai sentito prima. È stato un vissuto talmente limpido che ho l’assoluta certezza che ne serberò sempre un vivo ricordo.




Alla fine della seduta, dopo un breve momento conviviale, Hirosuke sensei si è ritirato nell’antica casa di sua madre adiacente al dj. Questa casa, con il suo delizioso giardino preesisteva al djche fu costruito all’interno della proprietà Noguchi poco più di trent’anni fa. Nei giorni precedenti alla venuta di Hirosuke avevo potuto eccezionalmente visitarla nel suo interno anche perché ho dato una mano per pulirla e prepararla in vista del suo arrivo. È una vera casa tradizionale, con spazi ristretti e piccole stanze con tatami e porte scorrevoli in legno e carta. Facendo scorrere le persiane, essa si apre sul giardino creando quel magico rapporto tra interno ed esterno che forse solo le case giapponesi sanno mettere in luce così bene. In ogni stanza e nei piccoli corridoi ombrosi ci sono calligrafie appese alle pareti, forse di Haruchika, forse di Akiko. Il mobilio è semplice, un po’ demodé, con qualche vecchio apparecchio musicale e altri oggetti simili che riportano indietro agli anni ’60/’70 o giù di lì. Anche la stanza da bagno è sorprendentemente piccola ma graziosa, ricavata nella parte posteriore della casa, vicino alla cucina.

Quando Hirosuke veniva a Kytera qui che abitava e trascorreva il tempo extra lavorativo. Lo passava in quieta solitudine, anche perché, per scelta, non si era mai sposato e, facendosi carico di una gravosa responsabilità, decise di consacrare tutto il suo tempo e le sue energie allo sviluppo del Seitai Kykai, alla diffusione delle pratiche ad esso connesse e alla divulgazione delle opere e del pensiero di suo padre Haruchika.

Hirosuke si trovava dunque nella sua dimora mentre io mi adoperavo insieme agli altri per ripulire il djdopo la pratica (tutto un formicolare laboriosissimo di stimati tecnici seitai alle prese con aspirapolvere, scopette e quant’altro). Sono stato allora raggiunto dal sig. Onizuka che mi ha detto di lasciare ogni cosa perché Roi sensei desiderava parlarmi e mi invitava a bere una tisana nelle sue stanze. Tutti erano assai sorpresi di questa cosa perché a quanto pare accadeva assai raramente che qualcuno ricevesse questo tipo d’invito.

Sono entrato allora nella casa di Akiko Noguchi, passando dal retro, dalle cucine non più vuote ma ora occupate da diverse donne assai indaffarate che preparavano il pranzo. C’era un gran fermento di attività intorno a tavoli e fornelli, un vociare allegro e sguardi incuriositi attraverso i quali sono passato divertito, imboccando gli stretti corridoi che mi avrebbero condotto da Hirosuke sensei. Lo ammetto, mi sembrava quasi di dirigermi verso le stanze dell’imperatore o di un importante daimydell’epoca. Un’atmosfera un poco surreale e allo stesso tempo assai divertente. Di fatto, non mi sentivo affatto intimorito e la cosa non mi sorprendeva nemmeno troppo.




Quieto e sorridente mi sono diretto verso la sala in fondo alla casa - quella che nell’angolo, tirando le persiane di legno, si apre deliziosamente su due lati diversi del giardino - e salutando come conviene fare quando si entra con il dovuto rispetto, mi sono accomodato, in seiza, sui tatami di paglia.

In centro stava un bel tavolo basso di legno. Alla mia sinistra, su l’altro lato del tavolo, il sig. Onizuka. Di fronte a me, dall’altra parte, Hirosuke Noguchi con un sorriso molto affabile.

La situazione - invero assai divertente e “giapponese” - era grosso modo questa. Hirosuke non parlava inglese ed io non parlavo giapponese. Onizuka, che a sua volta non parla inglese, era peraltro presente in qualità di mio interprete! Ho potuto apprezzare fino in fondo quanto il parlare una stessa lingua non sia che uno degli aspetti della comunicazione, e accorgermi di come si possa dialogare insieme per un’ora abbondante pur parlando idiomi diversi. La funzione del sig. Onizuka in quel contesto mi pareva essere quella di un tramite, un ponte; permetteva che il mio ki e la mia voce scorressero senza intoppi verso Roi sensei. Ascoltando le mie parole e comprendendole seppur quasi solo intuitivamente - lui che però mi conosce assai bene - favoriva che anche per Roi la comprensione fosse più facile. Quattro orecchie invece di due, due cuori invece di uno. In quanto a Hirosuke, il modo in cui si rivolgeva a me era assolutamente straordinario e lo ricordo come fosse ora. Mi parlava in giapponese, con parole lente, posate, cadenzate. Con un sorriso sempre presente, un tono dolce e un ritmo che non suscitava in me alcuna resistenza, si rivolgeva a me come se la lingua giapponese fosse assolutamente evidente. E la cosa stupefacente è che... io capivo! Proprio come può avvenire durante il sonno quando si sogna in una lingua che il nostro conscio crede di non sapere.

Di cosa abbiamo parlato? Roi sensei ha voluto sapere del mio percorso e di cosa mi avesse portato in Giappone e ho provato a rispondergli senza saltare troppe tappe. Mi ha chiesto anche se avessi conosciuto il sig. Itsuo Tsuda e gli ho raccontato che no, avevo solo sfiorato l’incontro con lui poco prima che si ammalasse ma che l’avevo conosciuto tramite i suoi allievi, traducendo tutti i suoi libri e sognandolo per tre volte (ho descritto i sogni con dovizia di dettagli). Di Tsuda, gli ho detto anche che ero fiero di riportarlo in Giappone, di farlo conoscere a chi non sapeva chi fosse, dopo che lui aveva attraversato l’oceano per portare a noi europei il Seitai così come lo aveva ricevuto da Haruchika sensei.

Hirosuke poi ha anche parlato di voler venire lui in persona in Europa per diffondere ancor di più il Seitai e il Katsugen undo, di voler coinvolgere il maggior numero di persone possibile, anche i bambini, in queste pratiche. Cercava qualcuno che organizzasse per lui un grande stage europeo, in una grande sala di una grande città... qualcuno che sapesse dare corpo a un evento di forte risonanza. Lo ascoltavo affascinato ma dentro di me mi dicevo: non potrei essere io quella persona, non ne sarei all’altezza e, soprattutto, non avrei lo slancio per farlo. Dentro di me, allora, cullavo il sogno di poter portare Onizuka Takashi sensei in Italia. Infatti, il suo stile combaciava - e combacia tuttora - molto di più con il mio ed ero pronto a farmi in quattro per organizzare la sua venuta. Detto tra noi, ci sono tanti modi di intendere la filosofia Seitai e la sua messa in pratica e, senza necessità di comparazioni e competizioni, trovo importante che ciascuno si avvicini al modo di esprimerla che più sente vicino.

“Vengo solo se posso fare un piccolo stage nel tuo dojo milanese. Vengo per te e per i tuoi amici, non c’è bisogno che tu reclamizzi troppo la cosa. Vengo per aiutarvi a sentirvi più uniti, interi e solidali nella vostra pratica” questo mi diceva il sig. Onizuka.

Gli eventi e la storia non hanno in seguito reso possibile questo suo viaggio europeo, ma provo un’immensa gratitudine verso Takashi sensei per tutto quello che, con discrezione e leggerezza, sta riuscendo a comunicarmi.

Bevendo una tisana alle erbe (Hirosuke ne era appassionato e mi ha chiesto di mandargliene dall’Europa) questo sereno incontro tra tre quasi sconosciuti che sembravano conoscersi bene - incontro invero piuttosto speciale per me - è giunto alla sua fine e così anche la giornata passata insieme a Roi sensei. È stata la prima e l’ultima volta che ho potuto incontrarlo e ringrazio voi che forse avete avuto la pazienza di leggermi fino in fondo perché, per parlarvene, ho dovuto scavare un po’ nei miei ricordi, rinfrescandomi con piacere la memoria.




Milano, 21 agosto 2019

Il mio cammino di Santiago (10)

 

(continuazione e fine...)

5 novembre 2004

Hospital de Orbigo

Ripenso ad alcune chiese viste in questi giorni che voglio ricordare.

La chiesa di S. Juan de Ortega raggiunta dopo una lunga camminata nel vento in mezzo alle colline che un’epoca erano popolate da briganti e predatori. Si appostavano nelle foreste scure che costeggiano la strada bianca: ogni luogo si presta all’agguato e ci si sente visti senza poter vedere. Nella chiesetta le luci sono chiare e c’è molto silenzio. C’è una cripta immersa nel buio più profondo in cui c’è la pietra tombale del santo. C’è solo una piccola candela accesa, si scende dagli scalini e man mano che gli occhi cominciano a cogliere qualcosa si intravede una grande croce sul muro. L’atmosfera incute un certo senso di timore.

C’è poi la Iglesia de Santa Maria la Blanca di Sirga in cui si trova un’incantevole e potente Vergine. Ci sono dei cavalieri templari scavati nella roccia e un sereno San Michele anch’esso di pietra.

Della cattedrale di Léon ricordo le altissime e stupefacenti vetrate: quanti colori, quante luci, quante forme!

Sembra proprio che un cammino come questo sia il terreno più adatto perché paradossi e contrasti possano esprimersi in tutta la loro evidenza. Essi vivono in noi, in me prima di tutti, e li considero con attenzione. Gli idealismi fanno i conti con la realtà, l’euforia e lo sconforto trovano sempre momenti per esprimersi, il calore umano e le solitudini abitano entrambi in noi, la sensazione della forza fisica non cancella i dolori che ci prendono dappertutto.

Riscopro la pulizia semplice e riconosco la sporcizia d’accumulo. Ascolto e prepotenza, dolcezza ricettiva ed egocentrismo arrogante. Ahi, che sentiero contorto è la vita, che animali complessi siamo! Vorremmo che questo cammino non finisse mai e non vediamo l’ora di arrivare in fondo, tutto in noi è cambiato e tutto è come prima, sentiamo l’amore immenso e non possiamo nascondere la nostra limitata grettezza. Sacro e profano danzano insieme. Ricerca e mancanza di rigore. Maturità e adolescenza. Guardiamo avanti e torniamo indietro. Troviamo il nostro ritmo e ne cerchiamo un altro che non ci appartiene. Presenza e assenza si alternano. Lasciamo spazio e parola ai nostri compagni oppure li copriamo con la nostra piccolezza. Sono un uomo intero o un esibizionista? Mi accorgo di quante cose inutili si dicono, si fanno e si pensano.

Qualcuno mi attende più avanti. 
Chi è?
E se fosse già qui?

Un raffreddore potente mi accompagna da qualche giorno.
L’occhio destro non smette di lacrimare fatica.
Ieri camminavo stentando mentre oggi le gambe erano forti ed andavo avanti ad occhi chiusi sotto il sole caldo.


6 novembre


Ho sempre amato i simboli e soprattutto gli oggetti-simbolo.
Davanti alla sua porta di casa, sulla strada, una vecchina ha lasciato delle zucche a seccare.

Sono quelle che i francesi chiamano coloquintes. Sono per i pellegrini che passano. Ne ho presa una. È per J. Devo farla asciugare. Non sapendo dove metterla l’ho portata nella camicia. Incinto di una piccola zucca tonda.

Oggi, poco prima di Astorga, la freccia gialla indicava verso l’alto e mi ha invitato a guardare su e poi a salire!
Un Sicomoro!


                                     Il Sicomoro! Salgo per vedere lontano...


Di fatto non proprio in albero ma una piccola torretta squadrata di cemento con una scaletta di ferro su cui inerpicarsi. Non ci ho pensato due volte. Da lassù si può vedere tutta la vallata con la città di Astorga e la sua cattedrale. C’era un gran sole e ho fotografato la mia ombra che saliva sulla scala fino in cima. Ricordo quello che diceva Jean-Yves Leloup sul sicomoro come simbolo della Pratica e del desiderio come molla necessaria che ti da lo slancio per intraprenderla. Ma quella era la storia di Zaccheo mentre nel mio caso forse dovrò intraprendere la pratica della scrittura visto che stamattina ha cominciato a prender forma in me l’idea di un libro su questo cammino. Un libro con personaggi reali dai nomi biblici o latini.

Dopo aver lasciato la cittadina di Astorga e il palazzo episcopale disegnato e progettato da Gaudì ora mi trovo in campagna in un albergue tranquillo, seduto su una panchina di pietra, in attesa di un tramonto che si annuncia bellissimo. Non ho visitato il palazzo di Gaudì: ero stanco e non sono un turista. Altra cosa è entrare nelle chiese in cerca di raccoglimento e riposo.

L’altro ieri nell’albergue freddo e inumano di Léon - un luogo davvero inospitale - Rebecca Maddalena mi ha fatto un massaggio tanto gradevole da farmi assopire. Le sue mani scorrevano leggerissime sul mio corpo mentre io progressivamente lasciavo la presa e mi abbandonavo a loro. Erano come lunghe carezze di una piuma e la sensazione era quella di una brezza leggera. Esistono molti modi di fare un massaggio e questo non lo conoscevo ancora. Grazie Rebecca, ne avevo bisogno! Nella notte ho pensato che avrei potuto ricambiare con yuki ma non era possibile in quel momento e ormai sono due giorni che ci siamo persi di vista...

Devo parlare almeno un po’ del diavolo svizzero...
C’è anche lui, il diavolo, in questo cammino e prende le sembianze di un signore di circa sessant’anni dai lineamenti duri e dallo sguardo sfuggente.
Lo incontro spesso da diversi giorni.
Mai che lo veda camminare.
La mattina fa finta di partire insieme agli altri, poi “scompare” per poi riapparire molti
chilometri dopo, verso sera. Trasuda soldi da tutti i pori.
Di giorno questo distinto signore svizzero viaggia in taxi, di sera offre da bere alle
giovani ragazze nei bar e beve lui stesso tantissimo whisky, di notte dorme in hotel di lusso.
È “Il Corruttore” in persona... Credo che sia qui tra noi con un ruolo preciso. Io l’ho riconosciuto e lui lo sa. Non lo
giudico moralmente ma lo evito con attenzione e un po’ lo temo.

Anche per domani è previsto un sole splendente come quello di oggi. Salirò alla Cruz de Fierro per portarvi la pietra a forma di pesce che mi accompagna dai Pirenei e la zucca svuotata. Ho almeno quattro importanti preghiere da fare. Mi siederò lì e pregherò in silenzio.

Esiste forse una Guida? 
Sono guidato da qualcuno? 

Per chi e da chi?


7 novembre

Manjarin

Rifugio degli animali. 
L’oca vuole beccarmi.
I cani, i gatti, i cavalli.
Curiosa notte mi attende.

Siamo in altura, dopo una giornata calda e soleggiata. Questo rifugio di Manjarin è molto conosciuto e particolare, abitato da moderni templari un po’ scontrosi con tanto di tunica e croce sul petto... il che è tutto dire.

Pochi km prima di Manjarin mi sono fermato alla Cruz de Fierro. Il lungo palo che sostiene la piccola croce è nuovo e dritto, una delusione. Due anni fa per ben due volte il vecchio palo di legno nodoso e irregolare è stato tagliato da “male persone”. Doveva essere senz’altro migliore di quello attuale. Il luogo è strano e si sente una lunga storia, però è anche pieno di sporcizia e comunica un senso di abbandono. Sono salito sulla pila di sassi che forma una vera e propria collinetta e mi sono seduto a meditare un po’.


                                    La Cruz de Fierro tanto attesa.


Ecco le mie cinque preghiere di oggi che ho rivolto a Santiago, San Giacomo, protettore del nostro cammino.

Prima preghiera : l’Amore, C., la Casa.
Seconda preghiera : l’Amore, C., un Bambino.
Terza preghiera : l’Amore, J., la Coloquinte.
Quarta preghiera : il Cammino, la Scrittura, il Lavoro.

Quinta preghiera : Coloro che non ci sono più, Susi e Tania; Coloro che ci sono ancora; il Mondo intero, il Cuore.

Proprio nel posto dove stavo seduto ho lasciato la pietra a forma di pesce che ho tenuto in mano durante le prime due preghiere. Nella terza, quarta e quinta preghiera avevo in mano la coloquinte (la zucca). Alla fine ho tenuto in mano il cuore di pietra.

“C. ti amo”.

Il cuore di pietra è ora più liscio e morbido. Sta cambiando molto in questi giorni, soprattutto da quando lo tengo con me la notte. Prima di coricarmi lo prendo nello zaino. Il più delle volte è freddo, gelato. Allora lo tengo fra le mani, respiro profondamente e faccio passare yuki. Lui si riscalda piuttosto velocemente e poi rimane caldo tutta la notte, che io lo tocchi o meno. Ogni tanto mi sveglio e lo cerco. Lo poso sul mio ventre che va su e giù con il respiro.



                Cuore, zucca e pesce... Ecco i miei oggetti sacri!


9 novembre


Hospital de Villafranca del Bierzo

Adesso vinciamo le resistenze e le pigrizie serali e scriviamo qualcosa, non so cosa, ma qualcosa... Sono arrivato presto in questo accogliente albergue e ho tempo per scrivere. Intanto una cordiale donna silenziosa mi prepara una cena tutta per me.

Sto vivendo qualche giorno di depressione dopo tanti momenti di entusiasmo. È un calo naturale, accompagnato da una certa fatica, che comincia a farsi sentire dopo più o meno 900 km di cammino ininterrotto. Comunque quando la testa non va, quando esita e dispera, allora mando avanti i piedi, uno dopo l’altro. Chiedo loro di aprire la strada verso una realtà bella e piena. Avverto la solitudine, non tanto quella che vivo qui, quanto quella che troverò laggiù, nei luoghi dove sono solito abitare. Cominciano a richiamarmi. Non voglio allontanarmi troppo e comincio a pensare al ritorno. Prego affinché il cammino possa continuare anche allora, qualunque forma esso prenda.


                Il grande cane pastore guarda il sole che tramonta...


La notte trascorsa a Manjarin è stata in effetti molto particolare. Niente riscaldamento, niente luce elettrica (o quasi), niente bagni, niente acqua. Dopo una vera minestra all’antica dai sapori forti, una sbobba che ti chiedi che cosa ci sia dentro ma la mangi senza troppe domande, dormo in una specie di soffitta legnosa piena di pulci e animaletti.

Mi gratto tutta la notte e la mattina dopo so cosa significa desiderare una doccia. Chi abita in quei luoghi medievali si sente un templare, si veste pure in quel modo e come i templari vuole condurre una vita “in povertà”. Peccato che ho l’impressione che associno troppo la povertà con la mancanza assoluta di pulizia. Negli uomini prevale una certa rudezza e durezza, nell’unica donna presente una dolcezza non priva di tristezza e spirito solitario. Sono però gli animali a rendere Manjarin un luogo simpatico. Sono loro i veri abitanti del luogo, loro i veri guardiani dello spirito e della “regola”. Scorazzano ovunque, dentro e fuori a loro piacimento. Un’oca straordinaria e molto socievole fa sentire la sua presenza. Guarda il sole che tramonta con una straordinaria concentrazione e un’estrema serietà. Immobile, sembra assorta in meditazione e ha lo sguardo acuto che vede lontano di un maestro zen.



                  L’oca zen dallo sguardo imperturbabile.


Prima di concentrarsi sul tramonto mi viene incontro e tra le gambe. A beccate, da cui fuggo lesto, cerca di far conoscenza. Poi ci sono anche i cavalli, quasi selvatici, che nitriscono al vento, quattro o cinque cani che gironzolano dappertutto e molti gatti che sono più discreti. Gli animali fanno scorrere quella vita che sembra ristagnare un poco negli uomini. È forse il freddo che ammutolisce gli animi? Che bello uscire di notte in queste lande solitarie e selvatiche. E pisciare all’aperto accarezzati dall’aria pulita. Il cielo è immenso e tutto un pullulare di stelle invernali. Stelle che non sono abituato a vedere in queste configurazioni. La natura è forte in questi luoghi!

La mattina, lascio di buon ora il “castello dei templari” e cammino nel silenzio delle montagne accompagnato dal sole che sorge. Vedo da lontano animali bruni che lanciano gridi stranissimi. Sono cervi? Un asino solitario mi sbarra la strada e non ha nessuna intenzione di lasciarmi passare. Poco prima di Ponferrada, stormi di storni mi danzano vorticosamente attorno e mi affascinano con le loro acrobazie multiformi.



                  Asino bianco che mi sbarri il cammino, ti chiedo di lasciarmi passare...


L’albergue municipal di Ponferrada come tutti quelli delle grandi città (Puente de la Reina, Burgos, Leon...) è freddo è poco ospitale. In luoghi come quello avverto subito un senso di compressione e ho immediata voglia di uscire. Sono ben riscaldati ma non ho voglia di fermarmi a scrivere. Mi chiedo anche cosa sto facendo lì e perché non torno a casa. Quanto sono diversi dagli Hospital dos peregrinos dove ti senti davvero accolto, compreso e sostenuto!

Ho un grande desiderio che cresce in me giorno dopo giorno ed è quello di vedere l’Oceano di Fisterra. Finis Terrae, la fine del mondo... Farò un piccolo falò e brucerò l’incenso che ho portato con me.

Sono così contento che Stephanie abbia visto la croce ortodossa di pietre e il messaggio che ho lasciato per lei lungo il cammino! In una email mi scrive che aveva quasi deciso di piantarla lì con il cammino e di ritornare in Olanda. È allora che ha visto i segni di incoraggiamento lasciati per lei e questo le ha fatto cambiare idea. Forse è qualcosa di poco conto, forse no: comunque non ha rinunciato e sono felice di averla aiutata in qualche modo!

Domani la lunga salita verso il Monte Cebreiro e poi mi ritroverò in Galizia, la Bretagna spagnola. Non ho nessun timore della salita, le mie gambe la divoreranno! Molti pagano un servizio offerto dagli hospitaleros di Villafranca per farsi portare su in cima la zaino e salire leggeri. Io non ci penso nemmeno. Sette tappe e poi Santiago...

Ho cosparso il mio cuore di pietra con dell’olio di mandorle dolci! 
Ora solo yuki emani calde per farlo vivere e pulsare!

Dove sono tutti i miei compagni di cammino?
Come stanno?
Mi piacerebbe incontrarli tutti, alla fine, e parlare con loro...
Ci siamo, mi sta assalendo una grande nostalgia.

Se arrivo a Santiago il 16 o il 17 di novembre forse potrò rincontrare François e Geneviève!



           Juan El Loco si fa un autoritratto...


Ancora il diavolo svizzero! Ma come fa a finirmi sempre tra i piedi? Faccio una sosta ad un bar e lui è lì, entro in un ristorante ed eccolo arrivare, faccio una passeggiata notturna e sento la sua risata. Se non ci fosse, però, forse mi mancherebbe.

Stanotte, dopo tanto tempo, ho sognato Tania sorridente e bella. Lei è la mia vera guida in questo cammino e quando il sogno è riemerso all’improvviso alla mia coscienza, proprio mentre stavo camminando e molti pensieri bui mi riempivano la mente, qualcosa si è rischiarato e ho provato una forte emozione.

Che Tristezza questa sera...
Il desiderio di abbracciare C. e di sentire il calore del suo corpo è così forte... 
Mi attenderà?


                            Esther ed io attraversiamo un ponte.


10 novembre


Questa mattina, a Villafranca, incontro Jesus Jato, un vero hospitalero.

Il volto segnato dal tempo e forse da una malattia, ma quanta umanità nelle sue poche parole accoglienti! Mentre mi preparava da mangiare ieri sera, la moglie preoccupata attendeva il suo ritorno dall’ospedale. Era lì per fare degli esami? Mi è rimasto impresso l’abbraccio fortissimo che si sono dati quando è arrivato. Amore e tristezza.

Come previsto, salgo sul Cebreiro a balzi. Nessuna fatica nelle mie gambe. Un’allegra telefonata a C. mi carica il morale! È bello sentirla vicina.

Sulla montagna mucche, tempesta e neve.

Poi, rifugiato in un caldo bar, mentre fuori il vento fa sbattere finestre e infissi, faccio nuove amicizie e partecipo a discorsi vivaci.


13 novembre


E dire che non ho l’energia per scrivere di Samos, di Portomarin, della Galizia verdissima e della sua gente chiusa. Ma che importa, se non le parole mi rimarranno le sensazioni... Tutti mi dicono che sono così fortunato! Una settimana senza pioggia come questa, in Galizia non la si vedeva da anni!



                          Alberi


                          e sentieri della Galizia



14 novembre




        Il Monte della Gioia


15 novembre



           Santiago! Sì, ce l’ho fatta...


Sono a Santiago! 
Pomeriggio di emozione
indescrivibile
dopo tanto cammino

Piango
nella piccola Iglesia
di S. Maria l’Antigua de la Corticela
dove ritrovo nel portale romanico
la Virgen con el niño
con cui Tania mi ha indicato il cammino da percorrere.


16 novembre


Vorrei scrivere quanto non ho scritto in questi ultimi giorni e le molte cose che ho da dire. Spero di riuscire a farlo almeno prossimamente.
Una volta entrato in Galizia è esistito solo il cammino.
Né chiese né paesaggi né persone hanno davvero catturato la mia attenzione.
Non perché non fosse bello o pieno di interesse quello che vedevo o incontravo,
anzi...
Alberi secolari, distese verdi e campagne ricche mi circondavano.
Un sole splendente e continuo, rarità assoluta per la Galizia, ha reso allegri e sereni
questi ultimi giorni ma dentro di me ormai parlavano solo i piedi e gli infiniti passi. Seguivo Esther, l’olandese volante con cui sono arrivato a Santiago.
Davanti a me c’erano solo le lunghe gambe di questo angelo dai capelli rossi che
dentro al suo corpo magro porta tanta energia e umanità.



                      Esther, l'olandese volante


Penultima tappa 40 km...
Ultima tappa 48 km!!!

Impossibile, una pazzia, eppure è andata così. 
Un crescendo e uno sforzo intenso e prolungato
che hanno strapazzato la logica e il buon senso
ma che mi hanno preparato davvero
a ricevere Santiago, a esserne ricevuto, con una sensibilità aperta, spalancata.

Durante i momenti infiniti e interminabili di cammino,
mentre avanzavo ad occhi chiusi,
il canto sorgeva in me ed anche una vera preghiera.
Erano parole cantate, una musica sacra.

Sento vivere Dio nella musica.
Ritrovo me stesso nelle armonie di suoni,
nella vibrazione sonora che unisce tutti gli esseri viventi,
che ne rende evidente la relazione insecabile e unitaria.

Nella messa solenne di ieri nella cattedrale di Santiago,
messa di mezzogiorno dedicata ai pellegrini,
ero seduto a fianco della non credente Esther. 
Vivevamo insieme le nostre forti emozioni,
ma ognuno per suo conto, con pudore.
In lei sento ribellione e amore.

Una suora, accompagnata dall’organo,
cantava un canto struggente ed emozionante.
In lei vibravano cose così diverse: austerità, candore, sensualità e rigore.

Nel frattempo gli immensi botafumeiros lasciavano scie d’incenso in tutta la chiesa,
manovrati da otto uomini forti. 
Un vero spettacolo spagnolo e barocco, con un crescendo musicale ed emozionale
davvero sorprendente.



               Botafumeiros nella cattedrale di Santiago


Mi fermerò fino alla prossima messa prima di ripartire per Finisterre.

Voglio ancora sentire questa splendida voce suadente e rivedere gli amici pellegrini che arriveranno in queste ore. Oggi ho ritrovato Andrea, Alessandro, Jennifer, Eric, Carolina, Sonia, Philippe... Con quanta tenerezza e amore ci siamo abbracciati e stretti uno con l’altro! Siamo qui, tutti insieme, uniti per sempre...

Ieri, seguendo tanti altri, sono salito sulla scaletta di legno della Cattedrale che porta dietro all’altare. È così che sono passato proprio dietro alla grande statua di Santiago, apostolo dorato con i suoi occhi lucenti. Tradizione vuole che lo si abbracci da dietro e anch’io l’ho fatto con leggerezza ed emozione, ringraziandolo dal fondo del cuore per avermi guidato fin qui. L’ho toccato con la mano destra e in quel momento respiro e yuki scorrevano intensamente. Poi, sentendo il pianto salire agli occhi, sono sceso velocemente per visitare la sua tomba.

Anche nel Portico della Gloria, all’ingresso della Cattedrale, ho fatto come tutti, toccando con le mani e con la testa quelle figure di pietra che hanno visto passare tanti uomini e donne. L’ho fatto semplicemente e sinceramente, senza credulità o bigottismo. Anch’io piccolo uomo tra gli altri ma oggi con un cuore che sento più aperto e comunque ancora vivo. Grazie ancora!

Ancora due parole sul pomeriggio di ieri e sull’emozione che mi ha investito.

Sono entrato in un negozio di dischi per cercare Chove en Santiago, la bella canzone di Luar Na Lubre che avevo potuto ascoltare nell’albergue di Arres. Gli hospitaleros avevano spento le luci dopo la cena e ci avevano chiesto di ascoltarla con attenzione...

La commessa del negozio ha voluto farmi sentire la stessa canzone e a stento sono riuscito a pagare e ad uscire senza che il pianto mi cogliesse. Fuori però è giunto irrefrenabile e come un fiume. Sollievo? Tristezza? Molto di entrambe. Pensavo semplicemente al cammino che mi aveva portato fin qui, a tutti questi giorni, questi passi... A tutta la fatica e allo sforzo ma anche alle persone incontrate e alle scoperte... A tutto ciò che i miei occhi hanno visto. E le lacrime uscivano e scorrevano mentre il plesso solare contento si liberava man mano dalle fatiche accumulate.


            Le infinite spiagge che portano a Finisterre


18 novembre


In tre tappe sono volato da Santiago alla punta sull’oceano dopo di cui c’è solo il niente.
Finisterre, attorniata dalle sue infinite spiagge e dai gabbiani che gridano nel vento. 
Che dire? Tre giorni bellissimi, distesi, ridenti.
Per me e per tutti gli altri che condividevano la stessa sensazione: missione compiuta! Santiago è alle spalle ormai, finita quella particolare tensione che tutti ci aveva spinto. 
Ora solo una gran distensione senza più nessuna preoccupazione di arrivare: siamo già
arrivati!
80 km alla fine di un lungo cammino non sono veramente nulla, i piedi li bruciano in
un amen, gli occhi si riposano guardando paesaggi solitari ma aperti, insomma tutto è pervaso da una luce tranquilla.


Ho conosciuto diverse persone interessanti in questi giorni.
Racconto un episodio interessante accaduto a una di loro, Florence.
Florence è una donna gioviale e rotonda, l’opposto di una sportiva...
Cammina da due mesi, è partita dal centro della Francia e all’inizio non sapeva
nemmeno se sarebbe riuscita a percorrere 100 km. Ne ha fatti 2000!
Ieri eravamo insieme in un bosco. La sentivo ansimare un po’, qualche metro dietro di me, nella piccola salita che stavamo affrontando.
All’improvviso getta un grido!
“Ahii”!!!
Il suo racconto di quello che le è accaduto è sorprendente, anche se appare quasi
“normale” nell’atmosfera un po’ magica del cammino...
Stava pregando allegramente la Vergine Maria, felice per essere giunta fino in fondo in
quella che per lei è stata una vera e propria impresa. Guardava in alto e non si è accorta di una grande radice che attraversava il suo cammino. Inciampandoci si è quasi sentita svenire dal dolore per il forte strappo preso al piede destro. E poi il miracolo che l’ha fatta piangere di gioia: per due mesi aveva sopportato un dolore fortissimo sotto alla pianta del piede che, in più occasioni, l’aveva quasi fatta desistere dal continuare. Aveva tenuto botta perché ha una gran forza di volontà. E ora, questo doloroso strappo, completamente involontario, che misteriosamente le ha fatto sparire del tutto il dolore. Ho assistito alla vicenda e condiviso la sua gioia. Posso anche garantire della sua sincerità e dell’incredulità che in lei si manifestava.

“Aiutati che Dio t’aiuta”: un bel proverbio che mi pare perfettamente adatto al Cammino di Santiago.

Nel pomeriggio sono solo e da solo arrivo alle bianche spiagge deserte.
Non c’è nessuno qui, solo l’oceano, la sabbia, i gabbiani ed io.
Tolgo le scarpe e cammino con i piedi nell’acqua fresca del mare per tanto tempo. Che piacere sentirmi a piedi nudi ma sempre in cammino.
Provo un senso profondo di libertà, di leggerezza e di infanzia che ritorna.
Il paesaggio è incantevole e le onde tranquille mi accarezzano la pelle.


                           Fuoco che purifica e brucia incensi e fatiche


Sono a Finisterre
fine del Cammino
seduto su uno scoglio
di fronte all’Oceano che mi circonda. Acqua infinita
da tutte le parti.
Ho preparato la legna secca
tra le pietre
pronta ad ardere
non appena l’accenderò.
Non brucerò vestiti vecchi
come chiede la tradizione
ma incenso d’Eritrea,
incenso di J.
Suono di onde
e di barche lontane.
Laggiù
il mare silenzioso
e immenso.


19 novembre




Geneviève e François
Kostas, Peter e Corista
Lourdes, Emmanuel e Antonio
Raquel, Esti e G.
Stéphanie, Andrea, Silvia, Jésus, Sergio
Eric, Dominic e Catherine, Pierre
Maxime e Catherine, Sylvia, Elizabeth,
Marie-Jo, Ana, Sonia e Casimiro,
Angel, Martin, Maurice, Erika,
Philippe, Jean-Pierre
Ben, Padre Alvaro Ignacio, Aniano
Andrea, Alessandro, Michel, José Lluis,
Killian e Daniel,
Silke, Antonio, Roberto
Rebecca Maddalena e Ramo
Tacio, Jennifer, Lluis
Fabian, Véronique, Pili, Paco, Jésus Jato e sua moglie, 
Oscar, Carolina, Juan, Justin, Sergio
Esther, Jorge
Pedro, Alberto e Luisa, Mateo
Robert, Florence, Beatriz, Chiara

e... il diavolo svizzero



22 novembre


Cercavo un’icona 
un’immagine che mi parlasse
mi destasse l’anima
due occhi di luce

Ho incontrato
due occhi d’amore,
una faccia scavata,
una schiena un po’ curva.

Lo sguardo incredulo
che si fissa nel mio e nel silenzio
sembra dirmi “È successo, è vero... 
e tu mi capisci...”

Eccome se ti capisco, 
ti vedo, ora.
Ti vedo
e piango.

Lacrime di gioia
inondano il mio viso,
in esse si riflette
tutta la mia emozione.

Le nostre mani si stringono forte,
Philippe,
non possono lasciarsi,
non si può sfuggire all’amore.

“Volevo scusarmi con te...”
“Anch’io...”.
Le nostre voci lontane
parlano di inutili giustificazioni...

“Lo so, lo so...
ma che importa?”
Gli uomini parlano, laggiù
mentre i cuori si accarezzano.

“Mi è successo qualcosa di travolgente, ieri...
mi sono accorto
che per quarant’anni...
ho preso una falsa strada”.

“Lo so, lo so”
le mie guance sono tutte bagnate...
ti ascolto
e vedo dove vuoi arrivare.

“Per tutti questi anni
ho confuso la chiesa con Gesù...” 
Mi fissi
e mi penetri tutto.

Io so che tu l’hai incontrato
e lo incontro anch’io in te, ora.
Inutile chiederti di più
anche se brucio dal desiderio.

Le nostre barbe ispide si incontrano
in un abbraccio fatto di baci.
Per un attimo vedo le tue labbra
e sento le mie che le sfiorano
                                            [dolcemente attratte]

Contorni indistinti
nella tenue luce della cattedrale.
Lineamenti senza contrasto che si confondono
nell’umidità degli occhi.

Siamo insieme, uomini semplici che si amano. 
Yeshua ci guarda.
“Bonne route, Philippe”.
“Toi aussi...”


Incontro con Philippe 
nella cattedrale di Santiago 
(messa per i pellegrini del 19/11/2004)