martedì 30 novembre 2021

Deliri prima del caffè

 


Volevamo esportare la democrazia nei paesi "arretrati".
E con questo slogan di facciata abbiamo disprezzato e bombardato.
Con buona pace dei nostri antenati ateniesi, dopo qualche secolo, appare tuttavia evidente che della democrazia non conoscevamo la sostanza ma solo il concetto.
Ora il vento sta cambiando e va di moda la tecnocrazia.
Con l'aiuto del G5, del G20, e di fiumi di denaro investito oculatamente dalle grandi famiglie, sembrerebbe meno complesso spalmare su scala globale questo modello aberrante di società del controllo.
Parola chiave, già fin d'ora, non è più libertà ma sicurezza.
Qualcuno però non se ne farà una ragione e continuerà a sperare nell'esistenza di un incivile, insicuro e primitivo villaggio nascosto nel profondo della foresta, tra le montagne, nel deserto o sul fondo del mare. Un villaggio incontaminato dalla tecnologia in cui verranno custoditi, senza che nessuno lo sappia, i semi di un'umanità antica.

venerdì 26 novembre 2021

Un salto nel multiverso futuro


Nel secolo scorso Haruchika Noguchi, morto meno di cinquant’anni fa, proponeva un modo nuovo e originale di concepire la salute degli esseri umani.

Con una calligrafia tutta sua e molto particolare scriveva poesie e aforismi. Li considero tanto preziosi che, nella mia abitazione e nel dojo in cui pratico, ho appeso delle stampe che li riproducono. Li lascio esposti in bella vista in modo che i miei occhi possano impregnarsi di quegli ideogrammi, già in sé molto evocativi, e per rinfrescarmi la memoria ogni giorno che passa.

Egli scriveva per esempio cose di questo tipo: se vuoi condurre una vita sana “sentiti dentro il vento quando esso soffia e sentiti parte della pioggia quando essa cade” oppure “vivi sempre senza pressione e in una gioiosa leggerezza”.

Sorprendentemente, forse per alcuni ma non per me, sosteneva anche che “salute è non occuparsene”.
In sostanza, Noguchi, che non aveva di certo una visione meccanicista dell’essere umano - non lo riteneva perciò una macchina biologica riparabile e modificabile a piacimento - era perfettamente conscio di quanto sia importante l’orientamento della nostra psiche nel mantenimento della nostra salute.

Ciò vale a dire che l’orientamento interiore che adottiamo influenza tutto il nostro organismo e, in vari modi, crea e determina il nostro futuro.

Non vorrei soffermarmi ora sul fatto che una vecchia e superata scienza, ancora ancorata ad una visione materialista, non riconosca la verità di quanto ho appena affermato. Una nuova scienza più aperta allo spirito e ad una conoscenza multiversale - nonché capace di riconoscere l’esistenza di un’anima - non solo lo sostiene bensì si apre e si nutre di una visione più ampia, complessa, interessante della vita e degli organismi viventi (macro e micro, visibili e invisibili) nel loro insieme.
Per inciso, parlare di “nuova” scienza è in sé un modo di dire riduttivo e inappropriato che non può che far sorridere: infatti ad essa sta giungendo - e solo negli ultimi decenni, sebbene esistano illustri precursori - il nostro pensiero occidentale. Il Taoismo e il pensiero cinese antico, tanto per fare un esempio, erano giunti a conoscenze (o non-conoscenze) probabilmente ben più avanzate della nostra già molto prima che Cristo camminasse in terra di Palestina.

Tuttavia, lascerei ora perdere il dibattito su scienza e scientismo (quest’ultimo è un impoverimento della scienza che consiste nel trasformare la sua parte “fissa” in religione) ormai ufficialmente e direi finalmente aperto; non è questo il soggetto di questo mio post.

Ritornerei invece a Haruchika Noguchi e a quando diceva che “gli uomini che credono in un avvenire felice hanno gli occhi che brillano”. Sono parole che non voglio dimenticare e che cerco di far mie nella vita quotidiana.

Anche nei momenti difficili della mia vita personale o in quelli bui e popolati da scenari tenebrosi che sta attraversando la società in cui viviamo, cerco di non perder di vista - e di comunicarlo come posso e dove posso - che siamo noi gli artefici del nostro futuro, noi i seminatori della nostra buona salute, noi i creatori del nostro mondo.

Se la nostra mente è popolata costantemente da visioni apocalittiche - nient’affatto ingiustificate peraltro - finendo per rimanerci invinghiata e se, consapevolmente o inconsapevolmente, ci rinchiudiamo in quei confini asfissianti, finiremo senza dubbio e senza via di salvezza possibile per divenirne schiavi. Non smetto mai di dire che il lockdown peggiore è quello che rischiamo di imporci da soli.

Se, parimenti, la psicosi su scala globale che ci è stata imposta da una politica e da una gestione della società nella migliore delle ipotesi solo miope e ignorante e nella peggiore scientemente dolosa, dovesse continuare ancora a lungo, gli effetti sulle condizioni di salute collettiva non potrebbero che essere drammatici. Su questo, credo siano d’accordo un po’ tutti: psicosi e paura, forse non provocate intenzionalmente ma sicuramente strumentalizzate fino in fondo, non porteranno, negli anni e nei decenni a venire, che ulteriori malattie e sofferenza.

Dobbiamo dunque tirarcene fuori fin da subito, prenderne coscienza e fuggire a gambe levate, disinnescare ciò che le provoca, farlo andare in cortocircuito, sostituirle con altro...

Come dice bene Philippe Guillemant possiamo e dobbiamo oggi sostituire un “fotturo” superato e disumanizzato (ovvero un futuro già fottuto che ci era destinato senza che ne fossimo consapevoli) con un futuro luminoso in fase di creazione e molto più rispettoso del vivente. Il fotturo, infatti, sta forse giocandosi le (ultime?) cartucce che gli sono rimaste e, per cercare di sopravvivere e realizzarsi, combatte aspramente ogni nuova visione possibile.

È una tesi assai ottimistica, quella di Guillemant, che sposo volentieri anch’io. E che ci fa vedere con occhi diversi tutta la pseudo pandemia (che di epidemia seria si sia trattato è fuori di dubbio ma una pandemia è altra cosa).

Forse che, in questa vicenda così tragica per certi versi e così portatrice di cambiamento per altri, il virus non abbia solo un ruolo “negativo” e che ci stia invece dando una mano ad uscire da un vicolo cieco? dice, in sostanza il nostro fisico quantistico francese. Non sarebbe più soltanto il “terribile virus”, nemico numero uno da combattere e sconfiggere a tutti i costi ma un “gentile virus” che sta scombinando tutte le carte in tavola (e anche molti piani qualora ci fossero) e che, nel farci apparire in tutta evidenza quanto orribile possa diventare il fotturo a cui stiamo/stavamo andando rapidamente incontro, in realtà ci costringe ad un risveglio, ci porta a costituire nuove reti esistenziali e a dar corpo a una nuova coscienza. Senza quest’ultima non andremmo da nessuna parte, ne sono profondamente convinto, ma con essa potremo concepire un mondo radicalmente diverso.

Ci vorrà molto tempo? È probabile, così come è probabile che noi ci si trovi attualmente solo nel bel mezzo di una fase di profonda trasformazione dell’umanità di cui per ora siamo in grado di cogliere solo alcuni aspetti. Il tempo, ammesso che esista, ci dirà cosa è giusto.

In fondo, anche Haruchika Noguchi sosteneva che ci sarebbero volute decine di generazioni prima che la cultura Seitai di cui era portatore potesse diventare cultura comune e diffusa.
In quella cultura vita e morte non sono disgiunte e la salute non è vista come sinonimo di assenza di malattia. Ne riparliamo tra qualche anno? O prima, che ne dite?

Quando

 


Quando l’obiettivo da raggiungere permette alle autorità di esercitare tutto il sadismo che sono capaci di concepire.

Quando il sadismo diventa lecito e camuffato da perbenismo e giustificazioni al limite del grottesco.

Quando i fratelli, la comunità in cui si dovrebbe esser “congiunti” godono del sadismo che vedono perpetrare ai loro simili.

Quando riescono a convincersi che si tratti di un godimento necessario e utile alla propria sopravvivenza.

Quando si contorcono, deformano, seppelliscono le proprie convinzioni etiche e comportamentali per riuscire ad avallare ciò che fino a ieri ci sembrava aberrante e che mai avremmo considerato attuabile.

Quando la mente riesce ad accettare tutto ma proprio tutto in nome di una razionalità malata, davvero malata, che sopprime ogni altra voce in noi.

Quando in fondo siamo stanchi di vivere e, infastiditi da fiammelle ancora accese qua e là, le soffochiamo, le calpestiamo con gli stivali lucidi, le uccidiamo con un sorriso spento sulle labbra.

Quando la Vita non è più maestra, regina, dea ma solo disturbante nemica da sacrificare sull’altare dello Scopo.

Quando ti svegli nel cuore della notte e, essendo queste le prime parole che affiorano al tuo conscio, amaramente, non puoi fare a meno di scriverle.

lunedì 8 novembre 2021

Difendersi con gli archi e le frecce


Apro la pagina bianca sul mio computer.
Per me scrivere comincia da qui, da una pagina bianca.
Anche se poi scelgo di pubblicare ciò che scrivo su Facebook o in altri contenitori chiusi e dal format prestabilito, per scrivere, per trovare ciò che ho da dire, ho bisogno di uno spazio vuoto, senza scritte intorno, senza pubblicità, senza input di varia natura. Senza tutto il corollario invasivo e condizionante che troviamo per esempio ogni volta che cerchiamo di leggere qualcosa sul cellulare, che si tratti di articoli di giornale, di pubblicazioni su social o simili.
Svuotare la tazza perché si possa accogliere il thé fresco.
Scrivere e pensare cominciano dentro di me, nascono e si sviluppano in un percorso personale ed emotivo che riguarda solo la mia anima e il rapporto che intrattengo con essa, eventualmente poi diventano anche comunicazione verso altri, solo però se ne intravedo il senso e se ciò nasce da una spinta spontanea che peraltro continuo a ritenere il nocciolo di ogni comunicazione autentica.
Scrivere e pensare - oppure pensare e scrivere, in un ordine ribaltato dagli effetti assai diversi - sono espressioni di un’attività che realizza una parte di me. Pensando e scrivendo, mi collego al mio centro e creo il mio mondo (permettetemi un petit clin d’oeil a Julio Cortázar). Sono nato, siamo nati, per esser creatori. Non lo dimentico, vorrei che non lo dimenticassimo.
A molti di noi - troppi secondo il mio sentire - comunque sia, a molti tra i miei amici virtuali va bene, considerano giusto se non addirittura necessario che un’autorità, una qualsiasi figura, persona o entità altra e in qualche modo superiore possa sostituirsi a noi in azioni, scelte di comportamento, o perfino in decisioni fondamentali come il tipo di vita da condurre o cosa facciamo o non facciamo in tema di salute.
"Tu puoi lavorare, tu non puoi lavorare", "Tu puoi uscire e andare, tu non puoi uscire e andare", "Tu puoi amare, tu non puoi amare", "Tu devi curarti e devi farlo così e così..." Ecc.
Questi amici, in troppi appunto, scelgono di avallare, utilizzare e sostenere il pass sanitario, per esempio, approvano - accidenti! - senza molto fiatare che esso venga imposto a tutti, anche a chi è contrario, e si arrabbiano molto quando viene messa in dubbio la loro scelta consapevole, ragionata, di partecipazione ecc. ecc. Io credo di capirli, almeno in parte, come capisco come chiunque in buona fede cerca di difendere le proprie scelte e ciò di cui è convinto. Però...
Però proprio non accetto e non credo potrò mai accettare un modello di vita e di società che vuole espropriarmi della mia capacità di decidere, di assumere delle responsabilità personali, di condurre la vita secondo i valori e il sentire che appartiene a me solo. Faccio parte di coloro che ritengono che l’adottare e l’avallare a livello collettivo l’esistenza del pass sanitario sia un passo pericoloso che, diminuendo drasticamente la libertà individuale, ci porterà diritto verso quel modello, con tutte le varianti transumane e tecnologiche del caso.
Se la mia preoccupazione sia infondata o esagerata lo dirà il tempo - non di certo i media, questo lo sappiamo - intanto però esercito, finché mi sarà consentito, il diritto di non voler percorrere un sentiero tracciato verso un futuro in cui non mi riconosco affatto.
Nonché mi tengo stretto, difendo con gli archi e le frecce - come gli indigeni "primitivi" della foresta che si battevano con ogni forza contro l'arrivo del "progresso" tecnologico e civilizzato - il diritto e il piacere di creare oggi, nel mio ventre, un futuro personale e collettivo basato su valori, sensibilità e comportamenti diversi, molto diversi, da quelli che a forza vorrebbero farci inghiottire.

giovedì 14 ottobre 2021

Lavoro e nobiltà dell'esistenza



Senza alcun motivo razionale, morale, etico, sanitario e giuridico che lo giustifichi.
Senza logica (se non perversa) né buonsenso e nemmeno nell’interesse comune.
Senza amore, rispetto altrui, empatia...
Io perdo il mio lavoro.
Così almeno sembra.
Infatti non mi è più concesso svolgerlo né proporlo nelle modalità che mi corrispondono.
Non rientrerebbe in parametri che peraltro non posso riconoscere.
Questa situazione di privazione, di sottrazione indebita, di quello che è un mio diritto costituzionalmente riconosciuto perdura ormai da un anno e mezzo e sarà ancor più vera e tangibile da domani, giorno infelice nella storia italiana.
Eppure...
Stiamo parlando del lavoro per cui mi sono formato, per cui ho studiato, per cui ho sudato.
Del lavoro che mi ha appassionato e che mi coinvolge fino al midollo.
Del lavoro che amo e che nobilita la mia esistenza.
Ho sempre considerato questo lavoro come la possibilità concreta di realizzazione della mia persona.
Sono poi giunto anche alla consapevolezza - me la sono conquistata - che quest’attività, piccola o grande che sia, non solo ha fatto di me una persona migliore e perfino utile alla collettività ma contribuisce - e spero contribuirà - alla crescita, al benessere e finalmente al bene di molte altre persone.
Nutre le loro vite come la mia.
È un lavoro che, cosa che non si può sentire ai nostri giorni, non ha lo scopo di esser produttivo, non farà crescere il Pil nazionale se non in modo insignificante ma che tuttavia, in modo quasi incomprensibile, risulta prezioso sia per me sia per altri.
Perciò, anche se non potrò svolgerlo come sarebbe mio diritto insindacabile fare (in uno stato di diritto, certo) continuerò a coltivarlo, ad approfondirlo, a mantenerlo vivo per giorni migliori di questo. È un impegno personale che devo in primis a me stesso.
Non mi aspetto nulla dallo stato e dalla res publica verso il quale la mia fiducia è ormai ridotta al lumicino. Nemmeno voglio sostegni pubblici e ipocriti.
Dal punto di vista collettivo spererei solo in un risveglio di coscienze, in una presa di responsabilità, nel ritorno di una cultura dell’ascolto e del rispetto.
Resisterò comunque e lo farò anche da solo sulla base delle mie forze, delle mie convinzioni, del mio amore per la vita. Resisterò senza adeguarmi a ciò che non considero giusto. Non so se ciò significhi essere incapace di resilienza ma in fondo non la capisco molto questa parola che mi sa molto di accondiscendente quieto vivere. Anch’io nel mio profondo coltivo la non-resistenza di cui parlava Morihei Ueshiba, ma non-resistenza significa comunque agire, agire con consapevolezza, e ad agire siamo tutti chiamati soprattutto in momenti come quello che attraversiamo.
Più di tutto però sarà una gioia abbracciare, condividere e camminare insieme a compagni, amici e fratelli che - uniti a me - terranno accesa la fiammella della vita libera.

sabato 28 agosto 2021

Quale libertà?

 


Ho scritto poco fa in un commento che il green pass è solo un’idea sbagliata e ingiusta e come tale bisogna trattarlo. 

Un’idea di un mondo che rifiutiamo senza esitazione, un’idea marcia fin dalla nascita. 

Mentre scrivevo ho ripensato a una bella storia che ora vi racconto.


Il signor Gu Mei Sheng visse rinchiuso in una celletta di un carcere maoista per molto tempo.

Un carcere maoista: un’”idea” molto ma molto... concreta.

Non so se mi spiego: non i nostri appartamenti confortevoli, non le nostre dimore di vacanza, non le nostre case climatizzate.

Una celletta angusta, fredda e umida, dove passò lunghi mesi in isolamento, non so bene perché - forse perché dissentiva? Si ribellava? Diceva quello che pensava? - fatto sta che senza poter uscire, senza poter vedere la luce del sole, senza poter abbracciare i suoi amati, fu costretto, obbligato, forzato a cercare la libertà altrove.

Per sopravvivere. 

Per vivere.


Gu Mei Sheng aveva un compagno fedele, il Taiji Quan ed insieme a lui camminò avanti e indietro, per chilometri e chilometri, sulle sporche mattonelle che lastricavano i pavimenti della sua prigione. Trasformandole in sentieri senza fine e dalle molteplici sorprese.

Pian piano si aprirono ai suoi occhi insospettati paesaggi e, nelle infinite forme che esplorava ora dopo ora in compagnia dell’amico Taiji, si fece luce, prese corpo, crebbe in lui un’altra meravigliosa creatura a cui Gu diede il nome di “Uomo di Ch’i”. 


Gu e l’Uomo di Ch’i diventarono grandi insieme, scambiandosi i ruoli e nutrendosi l’un l’altro. In certi momenti l’Uomo di Ch’i usciva dal corpo di Gu e se ne andava in giro da solo; Gu lo poteva seguire con lo sguardo e con lo spirito, poteva godere della sua libertà infinita, apprezzare le sue forme mutevoli e senza confini apparenti.


Arrivò, dopo anni, anche il giorno in cui fu detto a Gu Mei Sheng, al suo fedele compagno Taiji quan e al suo conquistato amante Uomo di Ch’i, che potevano lasciare la loro prigione, potevano ritornare ad essere “liberi” : Gu rispose con un sorriso che la libertà, l’umanità e l’amore li aveva già ritrovati da tempo. 

Che nessuno, proprio nessuno, avrebbe mai più potuto privarlo di loro.  



giovedì 26 agosto 2021

Ohayō gozaimasu e poi mi siedo

 


È arrivata la mattina del rientro dopo quasi un mese di pausa.

Ritrovo i tatami del dojo e la sua quiete.

Riprendere l’Aikidō significa sveglia il mattino presto.

Uscire di casa quando le vie sono ancora semi deserte.

E i rumori di una città che ancora dorme sono quasi inesistenti.

L’effetto che mi fa è sempre lo stesso, un effetto immediato:

varco un po' assonnato il portoncino di legno e, una volta in strada,

è come se mi tuffassi nella vita, mi risveglio a me stesso.

Suoni, luci, colori e movimenti cambiano di natura.


Giungere al dojo per primo non è solo girare la chiave di una serratura.

Apro la tenda all’ingresso e nasce spontaneo un inchino verso il vuoto pieno.

Ohayō gozaimasu ! È un buongiorno dal cuore quello che mi sale alle labbra.

Saluto il signor Onizuka, Tsuda, Noguchi, Ueshiba, Sotigui...

i miei cari, i miei maestri, che stanno nei quadri, che girano nell’aria,

che abitano invisibili tra le quattro mura di questi spazi.

A volte ne saluto uno di loro in particolare, a volte li abbraccio tutti insieme.

Con Takashi Onizuka e Sotigui Kouyaté, la sensazione è speciale,

non c’è solo la vicinanza spirituale, ma anche una parte affettiva e una vibrazione fisica:

li ho conosciuti, li ho toccati, abbiamo riso e praticato insieme, 

sento il suono della loro voce, c’è qualcosa di caldo e di semplicemente umano che ci lega.

Quando li guardo, riecheggiano in me i momenti indimenticabili passati insieme.


Aprire la porta di un dojo non è un’azione che si fa per se stessi.

È un inizio che si ripete ogni giorno, una preparazione, un’accoglienza.

Entriamo sui tatami con abiti puliti, con i piedi nudi, con il cuore aperto.

Quando il clima è caldo come in questo periodo, non esito ad aprire tutte le finestre:

per far girare l’aria, per creare brezze e correnti, per rinfrescare l’ambiente.

Chi arriverà dopo di me potrà trovare un luogo gradevole e già in movimento.

Poi dispongo il foglio delle presenze all’ingresso, preparo la campana, accendo la candela, 

tocco il bokken o il che mi accompagneranno di fronte alla calligrafia

 e finalmente scendo giù e mi siedo.


Sedersi in terra, per trovare il proprio posto sui tatami.

Sedersi vuoti in uno spazio calmo e pulito.

Sedersi nel silenzio di un silenzio che si protrarrà per minuti infiniti e densi.

Sedersi e sentirsi: sentire la propria schiena, la propria base, le proprie gambe.

Sedersi e respirare dentro e fuori, cogliendo la vita incessante che scorre.

Sedersi e rinnovare, istante per istante, la consapevolezza che la Vita è.

Sedersi e rigenerare, istante per istante, la consapevolezza che il Sé ci respira e ci trascende.

Sedersi e ascoltare i passi di chi giunge e ti raggiunge.

Sedersi in un immobile movimento e gioire per qualcuno che si siede attento al tuo fianco.


Nulla di più bello, nulla di più semplice, nulla di più prezioso!

È la dimensione spirituale, quella sacra e pura, di quel tesoro che è l'Aikidō.

Senza di essa non c’è un dopo, non c’è una prospettiva, non c’è uno sviluppo.

Chi conosce, nel solo sedersi, il piacere di ritrovare la terra e la vita 

quando giungerà il momento di alzarsi e di camminare, 

quando risuoneranno i dolci rintocchi della campana, 

saprà incarnare e comunicare l’entusiasmo dell’incontrarsi e del praticare insieme. 



lunedì 16 agosto 2021

L'urlo della Grigna




Qui non è difficile.

Sia alzarsi la mattina, sia praticare, sia trovare un centro.


La montagna ti chiama, gli alberi ti abbracciano, il silenzio ti lava l’anima.

Come poco fa anche altre mattine di questo agosto caldo.

Scendo sul prato e non penso a niente.

Poi le gambe prendono posizione e i piedi sentono la terra.

L’aria fresca ti riempie il viso e i polmoni che è un piacere.

Il cielo con le sue nuvole quiete ti cura gli occhi e ti rigenera la vista.


Qui non è difficile.

Basta respirare e lasciare.

Lasciare tutto, lasciare se stessi, lasciare le forme.

Il movimento sorge da sé, guidato dal desiderio di sentire la vita.

Lo chiamano Aikido, Taiji, Qi qong, Katsugen, rumba guaguanco...

Io qui, sotto la Grigna maestosa, non li chiamo affatto:

la vita che si muove non ha bisogno di nome che la definisca.

Questi movimenti li vivo soltanto, fluttuando da uno all’altro.

In piena libertà, spontaneamente.


Qui non è difficile.

Anche perché sono vecchio ed è bello esser vecchi.

La maturità ti consente di andare all’essenziale velocemente.

Senza filtri, senza perdita di tempo prezioso.

Al di là delle forme, oltre al risultato, dimenticando l’imitazione.

La riuscita importa forse a qualcuno?

La Grigna ride silenziosa delle ansie della gioventù.

La Grigna sorride quando intravedi la permanenza del Sé.


Qui non è difficile.

Perché il nocciolo della vita è semplice.

E la natura non fa che ripeterlo.

Dietro tutta la complessità, dentro, sotto...

Il nucleo è semplice e leggero.

Scorre, fluttua come il vento, ti accarezza come il Ki.

La Grigna te lo urla.

Devi esser proprio sordo per non sentirlo.

Decrescita felice e natura





Io sono per lasciar fare alla natura e alla sua saggezza.
Per ridurre i consumi, ridurre gli inquinamenti, ridurre gli interventi.
Insomma sposo un modello di decrescita felice e rispettosa che consenta un equilibrio che nasce dalla natura che si autoregola piuttosto che dall’operato umano.

Invece, giunti ormai al punto di non ritorno, le uniche soluzioni che ci proporranno come possibili per salvare il pianeta saranno interventi tecnologici che poco avranno a che fare con l’equilibrio naturale.

Finiremo per sconvolgere definitivamente l’ecosistema aggiungendo complicazioni, aggiungendo problemi, aggiungendo “ingiustizia” nei confronti di tutte le specie viventi che si troveranno a soffrire della nostra ignoranza e della nostra incapacità di rispettare ciò che è già in essere.

Ugualmente, e stoltamente direi, pensiamo che per difendere la nostra “salute” dobbiamo ingoiare pillole, preparati chimici e sostanze velenose.
Accordiamo tutta la nostra fiducia alla tecnica e tecnologia, immettendo nel nostro organismo elementi a lui del tutto estranei che dovrebbero consentirgli di “sopravvivere”.

E soprattutto dimenticando che se nasciamo, cresciamo ed evolviamo, se da una cellula ci trasformiamo nei miliardi di cellule che pulsano nel nostro corpo, se ci manteniamo in un equilibrio fluttuante ma costante, è grazie alla Vita e non alla tecnologia.

Questo “Grazie” non sappiamo sentirlo, non sappiamo pensarlo, non sappiamo pronunciarlo.
Non sappiamo trasformarlo nell’unica azione concreta e rivoluzionaria che potrebbe salvare il pianeta e noi stessi.

Preferiamo accumulare merda nei nostri corpi e nell’ambiente in cui viviamo, per finire poi per affogarci in questa merda, invece di lasciare almeno un poco la presa, ridurre il nostro egoismo sfrenato e lasciar fare all’unica vera saggezza che dovremmo imparare ad amare, quella della natura.

sabato 24 luglio 2021

Una nuova "normalità"



Non mi riconosco in alcuno dei partiti politici attuali né tantomeno in chi li rappresenta. Non voterò per nessuno di loro. Eppure attribuisco un carattere pienamente politico alla manifestazione alla quale parteciperò tra poche ore.

Vorrei partecipare, oggi e in futuro, ad un’altra politica e ad un altra gestione/visione della vita collettiva. Una visione nella quale ciò che si auspica non è solo un ritorno a ciò che era prima, alla “normalità” che conoscevamo.
Quale normalità, poi? Quella della diseguaglianza sociale ed economica, quella dei paesi ricchi che proliferano sullo sfruttamento di quelli poveri o quella dei molteplici inquinamenti che disintegrano il pianeta?
Oppure alla “normalità” di una società del “divertimento”, dove divertimento - da consumare ad alti dosaggi - diventa sinonimo di de-responsabilizzazione, disimpegno e vacanza?
Ci ubriacano di divertimenti per farci sopportare lo squallore di un sistema di vita che francamente non regge più.
Allora cambiamolo questo sistema e creiamone uno nuovo, con nuovi valori, nuovi parametri, nuove reti di comunicazione: abbiamo la forza per farlo se ne siamo convinti!
Il divertimento collettivo: ci minacciano di togliercelo, niente più feste, balli, spettacoli, attività ludiche in luoghi pubblici. Quello televisivo e mediatico, no quello no - non sia mai! - il rimbecillimento beota, quello che “vende” e si consuma in solitudine davanti agli schermi, non verrà mai sospeso, anzi lo si incentiverà sempre di più.
Siamo di fronte ad un vigliacco ricatto che colpisce soprattutto i giovani: fai quello che ti dico oppure ti privo di ciò che ti ho fatto credere essere l’unica ragione di vita ovvero la possibilità di divertirsi. Ai giovani non si parla di lavoro che realizza la persona, d’impegno creativo, di una possibile decrescita felice, di rispetto per la vita in tutte le sue forme come valore fondante.
E, soprattutto, non si parla di piacere... sì di piacere.
Perché il divertimento è lo zuccherino proposto mentre il piacere rimane il tabù di questa società del consumo. Il piacere che è risveglio, ribellione e vita: è pericoloso perché sfugge al controllo.
Quando danzo o ballo, da solo o con decine di altre persone “non mi diverto” - non mi dimentico, non mi annullo, non mi perdo - ma trovo un piacere immenso nella presenza, nella condivisione e nell’ascolto dell’altro con cui mi unisco.
Ma se li tengano i loro contenitori/gabbie di lavoro inumano e stressante! Se li tengano i loro contenitori di divertimento ubriacante: veramente vogliamo tornarci dentro?
Io mi batto, con i pochi mezzi che ho, perché si possano creare luoghi di lavoro, di vita condivisa e di incontro tra viventi nei quali il piacere, l’impegno, l’autonomia e la consapevolezza possano andare di pari passo.
Cosa c’entra tutto questo con la pandemia e con le manifestazioni di oggi? Vedete un po’ voi.
Stiamo galoppando verso una catastrofe imminente dal punto di vista climatico, verso una correlata catastrofe economica di scala planetaria e verso il tempo della “singularity” nel quale la crescita tecnologica sarà tale che l’essere umano non sarà più in grado di controllare le macchine a cui incautamente avrà conferito tutto il potere.
Le epoche di crisi profonda a cui andiamo incontro saranno gestite dalla tecnologia o dalla coscienza umana (un umano che sa ascoltare la natura nelle sue molteplici espressioni)? Questa è la domanda che possiamo porci, questa è la domanda che mi accompagna in strada oggi. Sento che il tempo di agire sia ora e non sono affatto sicuro che esisterà un domani nei termini che abbiamo sempre concepito.
Inventiamoci una nuova “normalità”, senza tornare indietro, o non avremo purtroppo scampo.

mercoledì 21 luglio 2021

La complessità splendente





                                                                    

In materia di dialogo, recentemente ho sottolineato quanto ve ne sia il bisogno e quanto invece esso venga a mancare soprattutto in contenitori chiusi e dualisti, deputati allo scontro, dei quali Facebook è un rappresentante senza pari.

Ricordavo allora anche uno degli insegnamenti principali ricevuti da Sotigui Kouyaté che mi ripeteva insistentemente quanto il discutere “per aver ragione” non abbia nessun senso.

“Bene, anche se alla fine avrò avuto ragione, cosa me ne farò della mia ragione?”. 

Discutere, secondo lui, aveva un senso solo se ci portava a conoscere meglio l’altro, a comprenderlo.


Queste parole così semplici difficilmente sembrano risuonare in coloro che “non sanno di non sapere”, in coloro che parlano in nome della Verità, nei giustizialisti che sparano a vista sul diverso, sull’eretico, su colui che individuano come il nemico.

Sono però parole facilmente condivisibili da un numero consistente di persone che, per cultura o sensibilità personale, per solidarismo etico o religioso, per capacità di empatia, tendono a preferire l’inclusione del diverso piuttosto che la sua esclusione, a cercare il dialogo piuttosto che lo scontro, a non sentirsi cellule autosufficienti ma parte di un organismo pulsante che per vivere si coordina, si armonizza, respira insieme.


Capacità di ascoltare e di ascoltarsi, apertura intellettuale e sensibile, intelligenza olistica... Ci troviamo in un terreno condivisibile e auspicabile, non è vero? Questo consenso però rimane tale se circoscriviamo l’ambito del dialogo possibile ad un dialogo tra intelligenze umane, mediante logiche e linguaggi “comprensibili”.


La questione si fa più complessa, e il consenso comincia a traballare, se affermiamo che sia possibile un dialogo autentico con un bebè che non parla, con un albero, con il mare o con la natura “tout court”. Dialogando con la natura nelle sue parti visibili e a volte invisibili, ci addentriamo nel misterioso, nel non quantificabile, nel non dimostrabile. Eppure questo dialogo non solo può avvenire ma può avere anche effetti ben concreti. È in questo terreno aperto, nel quale la ragione perde la sua supremazia mentre la sensibilità diventa il linguaggio per eccellenza, che possono nascere poesia, arte, spiritualità e consapevolezza di un ego limitato di fronte ad un Sè che lo trascende.   


Insomma, a parte gli ottusi, siamo tutti d’accordo sull’importanza del dialogo e dell’incontro piuttosto dello scontro: lo cerchiamo e raggiungiamo nei nostri quotidiani quando si tratta di incontrarsi con chi parla la nostra “lingua”, facciamo un po’ più di fatica con chi ne parla “una” diversa o non parla affatto, ma ci sembra un discorso proprio assurdo quello di intavolare un dialogo “amoroso” con parti di noi che vediamo come nemiche e pericolose (ci hanno insegnato a considerarle così).


Tiziano Terzani, alla fine di un bel percorso di vita si è detto e ha detto a noi: “Perché dovrei combattere il cancro? Siamo cresciuti insieme!”. Queste parole si sposano molto bene con la mia filosofia.


Per questo mi piace poter dire che i virus non sono miei nemici (ancor meno uno solo di loro), osservare che i batteri sono l’espressione dei miliardi di forme che la vita prende in me e comprendere che le malattie sono il costante e infinito lavoro di riequilibrio del mio terreno vivente: perché combatterli? Il vivente, noi stessi, siamo un terreno di una complessità splendente, insondabile, non misurabile, non comprensibile.


Questa coscienza che si è fatta strada in me, pian piano e negli anni, ha sviluppato il desiderio di dialogo tra me e questo terreno pulsante popolato da infinite creature (dialogo tra il me della mia piccola mente e il me della mia infinita natura). Un dialogo che non porta a spiegazioni razionali ma che conferisce densità, pienezza e nobiltà alla mia vita. Un dialogo che scioglie le paure, in primis quella di morire.  









lunedì 24 maggio 2021

Accesso libero

 


Ad Akeleinaa Dojo e nel Closlieu Tracce Naturali, nei luoghi di pratica che ho creato, 
non ci sarà mai bisogno di un green pass per entrare, partecipare alle attività, incontrarsi.

Perché apprezziamo la privacy, perché rispettiamo profondamente tutte le scelte individuali in materia di salute, perché troviamo detestabile l’inarrestabile ascesa di una cultura del controllo sociale.

Non siamo un luogo pubblico ma saremo aperti e accoglienti verso tutte le persone libere, consapevoli e desiderose di incontrarci. Questa è sempre stata e rimarrà la nostra filosofia, anche se dovremo batterci per difenderla.

Verrete a conoscerci senza doverne render conto a nessuno e senza dipendere da alcun lasciapassare di sapore dittatoriale.