giovedì 30 gennaio 2014

Vita selvaggia


  
Sai che le tigri non vivono sole?
Sole cacciano e si avventurano silenziose
nel mistero di foreste fitte e inesplorate,
sole si immergono nelle acque limpide
e immote della sorgente cristallina,
sole scrutano il sole che tramonta
dietro quegli alberi immersi nel cielo infuocato.
Ma poi rientrano nella loro tana di tigre,
si stirano, sbadigliano,
e selvaggiamente quiete,
leccano i tigrotti e fanno l’amore.


Milano, 17 agosto 2005

Aikido a Kyoto (5)

(continua..)


La seconda lezione con Yoko Ookamoto a cui ho potuto assistere si è svolta, sempre di mattina, in un dojo di Fushimi (in un centro per l’azione giovanile, Youth Action Center, nome appropriato per la maestra!). Fushimi è a pochi minuti di treno da Kyoto. Di fatto però l’agglomerato urbano non subisce interruzioni e se non lo avessi saputo in precedenza avrei creduto di trovarmi ancora in Kyoto. Scendo dal treno con Paul, un giovane colombiano alto e magro che vive qui con sua moglie, anch’essa praticante di aikido. Lui pratica da una decina di anni e mi accompagna gentilmente alla lezione. Arriviamo con un leggero ritardo… sudamericano. A dire il vero io lo ho atteso a lungo nel luogo dell’appuntamento e ad un certo punto credevo che non venisse più. La lezione sta iniziando e ho giusto il tempo di cambiarmi rapidamente. I ritardi non mi piacciono molto. Quando posso faccio in modo di avere sempre un certo margine di anticipo su tutto quello che faccio. E’ una questione di respirazione. Mi piace entrare nelle cose con un ritmo calmo senza sentirmi pressato dagli eventi. Questo mi consente anche di apprezzarli con maggiore pienezza. Ovviamente ciò comporta delle scelte e, a volte, si tratta di rinunciare a qualcosa per poter vivere a fondo qualcos’altro.
Come in questa occasione però, può succedere che le circostanze siano diverse da come si vorrebbe e bisogna saper agire in fretta. Senza peraltro perdere per strada la respirazione tranquilla…
Il dojo è più piccolo della sala del Budo Center e siamo in tanti. Molti di più dell’altra volta. Probabilmente perché oggi è sabato e le persone sono più libere dagli impegni lavorativi. Anche in questo caso, a occhio e croce, il numero di europei corrisponde al numero dei giapponesi. Ci sono però molte più ragazze giapponesi rispetto alla prima lezione.
Proprio in rapporto alla nazionalità dei presenti avviene un fenomeno curioso. Avevo avuto la stessa impressione durante la prima lezione. E’ come se gli europei cercassero di divenire e atteggiarsi in modo più giapponese dei giapponesi. Senza voler mettere in dubbio il sincero trasporto e la serietà di intenti che li motiva, ciò che ne risulta è un atteggiamento piuttosto ridicolo e a volte grottesco. E quasi sempre lontano da una spontanea naturalezza. Sembra quasi che la serietà sia considerare come sinonimo di un rigore austero e rispettoso. Eppure Yoko più di una volta ride e quando fa una battuta spiritosa solo una giovane giapponese si mette a ridere (mi confesserà in seguito di essersi zittita subito essendosi sentita l’unica a farlo…). C’è anche una giovane occidentale serissima che gode certamente della stima e dell’appoggio della maestra. E’ tutta compresa nel suo ruolo di ottima e responsabile allieva, osserva gli altri con un certo distacco, a volte da fuori, come un’assistente della maestra incaricata di una missione importantissima. Rido. Anch’io sono stato così! Almeno per un po’… Ma oggi so che non è necessario passare per di lì. In ogni caso non per tutti.
Ho praticato con lei una delle tecniche che ci sono state proposte. Non ha mai sorriso… Neanche una volta! “E ridi!” mi dicevo e facevo di tutto per strapparle un po’ di emozione. Niente, nulla che trasparisse, nessuna faglia, nessuna vulnerabilità. Solo, ogni tanto, qualche sospiro intrattenibile e una leggera agitazione respiratoria la tradivano vigliaccamente.
Perché? Perché ci incanaliamo in sentieri che ci fanno perdere tanto tempo prezioso?
Ho lasciato cadere ogni ulteriore tentativo di sciogliere quel grazioso ghiacciolo con cintura nera dicendomi che ognuno di noi deve comunque fare i conti con i propri limiti e le proprie durezze. E che, se non li ascoltiamo, gli altri che ci stanno attorno possono ben poco. Sebbene, con costanza, ci bombardino di informazioni e indicazioni interessanti. Tuttavia, ne sono convinto, il cambiamento è possibile per tutti e a qualunque età. Questione di apertura e di desiderio… E di speranza.
Non tutti gli occidentali presenti erano altrettanto ingabbiati in un’etichetta “nipponically correct”. Con alcuni di loro ho avuto scambi e contatti anche piuttosto calorosi e nell’insieme mi è piaciuto partecipare ad una classe così eterogenea e mista. Mi ha riportato indietro ai tempi dell’infanzia, a quando andavo all’ International school of Milan. Lingue diverse che si incrociano, corpi e volti dai tratti e dalla storia geograficamente lontana. E’ bello in queste situazioni perché ci si sente un po’ unici, rappresentanti di un paese, di una cultura, di una lingua. Eppure, siamo unici, anche se spesso lo dimentichiamo. Un contesto culturalmente variegato, dove ogni cosa ha il sapore della diversità, ci ricorda questa unicità e ci invita a coltivarla. E’ il bello dei viaggi non troppo organizzati, nei quali si corre il rischio dello spaesamento e ci si espone al cambiamento. Paradossalmente, proprio in queste occasioni, abbiamo l’occasione di riappropriarci o almeno di riavvicinarci alle nostre radici. Di ritrovare la nostra casa e di amarla.
E i giapponesi in questo contesto che fanno? Si comportano in modo molto diverso dagli altri giapponesi che avevo incontrato nelle lezioni precedenti (quelle di Higuchi e di Takahashi). Lì, dopo avermi osservato e “misurato”, si erano tutti dimostrati aperti e curiosi rispetto al mio aikido, in un certo qual modo desiderosi di apprendere del nuovo e dell’esotico. Qui invece… si difendono. Difendono la loro unicità nipponica, sembra che si sentano tenuti a farlo, a dimostrare che loro sì sono veri giapponesi e non questa massa invadente di gaigin, di cittadini stranieri. Praticano quindi silenziosamente e ostentando sicurezza. A volte anche con una certa durezza. Riflettono l’immagine di colui che crede di detenere una conoscenza e un “know how” irraggiungibile per lo straniero. L’immagine classica del giovane budoka giapponese a volte un po’ rigido e presuntuoso. L’immagine che Itsuo Tsuda ha messo in discussione e ribaltato, con il suo lavoro e i suoi scritti che tanto ci hanno parlato di una cultura e di una pratica accessibile per tutti (anche per noi occidentali, sì, ma prima di tutto uomini). In questo, Itsuo Tsuda è stato un grande precursore ed ha aperto una strada che pochi altri giapponesi hanno saputo percorrere finora.
Per le giapponesi il discorso è diverso. Ah, donne, quanto siete, come sempre, più aperte, più curiose, più vive, più sensibili, più simpatiche! Con le praticanti che ho incontrato qui a Fushimi il ki passa molto di più che con gli uomini. In alcuni casi “bevono a grandi sorsi” il mio aikido così diverso da quello a cui sono abituate. Lo fanno con semplicità e allegria. Sento che ne hanno sete e mi piacerebbe avere il tempo di insegnare loro qualcosa. Ma anche il poco che può passare in questi brevi frangenti di pratica forse lascerà qualche traccia viva e avrà un senso nel loro percorso e nelle loro ricerche.

Sulla lezione di Yoko Ookamoto non ho molto altro da aggiungere. Si svolge un po’ come la prima a cui ho partecipato, con lo stesso slancio, la stessa metodicità, lo stesso impegno. Siamo in molti per cui, in certi frangenti, ci divide in due gruppi. Bisogna saper padroneggiare bene le cadute e i tempi perché gli spazi sono piccoli e non c’è molto tempo per riflettere. Ad un certo punto, mentre la metà del gruppo sta praticando kokyu nage (tecnica che prevede una caduta in avanti) lei prende ad uno ad uno tutti quelli che stanno seduti in fila ad assistere e li proietta a destra e sinistra, in uno spazio esiguo. Quattro cadute per ciascuno, energiche ma rilassate, senza esitazione possibile. Perché sprecare tempo in un’attesa inutile? C’è fluidità nel suo movimento ed è un piacere vederla. Lo farò anch’io, prima o poi. Quando saremo in tanti.
Alla fine del corso mi fermo a parlare con un francese e perdo di vista Yoko Ookamoto. Quando la cerco è troppo tardi e lei se ne è già andata. Non ho quindi avuto il tempo di salutarla. Chiedo a Paul di farmi la cortesia di ringraziarla da parte mia, di farle avere i 1000 yen (circa 6 euro, quota prevista per i praticanti in visita) che le devo e di farle sapere che quando tornerò a Kyoto in agosto intendo praticare ancora con lei.



Milano, 18 e 19 gennaio 2008                                                                 (continua…)

mercoledì 29 gennaio 2014

Movimento rigeneratore, forme che cambiano



lettera a una praticante francese

Grazie Y.,
la tua lettera mi ha fatto veramente piacere.
Mi dici tante cose e vorrei rispondere ad alcune di esse.
Si aprono molti interrogativi e sono contento di condividerli con voi.
Senza averne la risposta...

Trovo molto interessante l’ultima considerazione di A. che ti ha detto di "aver apprezzato molto le forme di ‘punteggiatura’ introdotte nella seduta, con le respirazioni coordinate e i cambiamenti di forma. Trova che questo le consenta di ricentrarsi e le impedisca di cadere in una specie di sonnolenza". Tutto ciò va di pari passo con la sensazione di leggerezza che provavo alla fine delle sedute a Kyoto. Sebbene fossero un po’ più lunghe di quelle a cui ero abituato, esse mi sembravano più brevi. Pienamente soddisfacenti ma leggere. Ho riflettuto molto su questo e ho capito molte cose. La seduta stessa, così come il movimento rigeneratore, non può irrigidirsi in una forma immutabile. Se ciò avviene e si cade nell’abitudine (dei ritmi, dei gesti, dei suoni, delle parole, dei tempi, delle idee ecc.) il ki muore e... si sprofonda in qualcosa (nella sonnolenza, nella noia, nei pensieri, nell’eccesso di coscienza, nell’eccesso di sensibilità, nella fatica che non riesce a dissiparsi ecc.).

Il ritmo e la forma nella quale si svolge la seduta mi sembrano essenziali e colui che l’anima ha un ruolo determinante. Credo, ne sono certo, che il Signor Tsuda abbia fatto delle scelte sulla forma da adottare in Francia. Ha scelto di praticare certe cose e di non praticarne altre. Ne ha poi introdotte altre ancora che riteneva necessarie. Sulla base delle persone, del paese, della situazione reale e viva in quel preciso momento e non sulla base di idee preconcette. Credo anche che se egli fosse ancora vivo oggi questa ‘forma’ si sarebbe certamente evoluta, come è normale che sia perché lui stesso sarebbe nel contempo evoluto. L’ho detto chiaramente durante lo stage, il movimento rigeneratore in sé non cambia (seppur cambiando ad ogni istante...) ma le forme (delle sedute, dei dojo ecc.) possono e... devono cambiare per restare vive e aderenti alle realtà particolari.

La forma nella quale abbiamo praticato per 25 anni, fedelmente, senza cambiare neppure un briciolo rispetto a ciò che ci è stato mostrato, ci ha certamente permesso di non sbandare, di non trasformare la pratica del movimento rigeneratore in un’altra cosa, di non spezzare un filo che ci lega al sig. Tsuda, di poter presentare il movimento a nuove persone appoggiandoci su qualcosa di ‘solido’, di sperimentato, di vissuto e non sulla base di improvvisazioni dell’ultima ora. Questo è stato molto importante. Quando, a Kyoto, ho mostrato al Signor Onizuka la forma delle nostre sedute, ha sorriso e mi ha detto: “Va bene! La conosco. È una delle forme (con qualche elemento particolare introdotto da Tsuda) che noi praticavamo trent’anni fa! Nel frattempo sono passati... per l’appunto trent’anni... Il che non ha impedito che il giorno seguente, nel dojo di Onizuka, abbiamo tutti praticato in questa vecchia forma di trent’anni fa perché lui voleva che la provassimo tutti. Apprezzo molto questa condizione di spirito e questa disponibilità, questa voglia di testare, di provare, di fare (prima del non-fare vale la pena di cominciare a fare...).

Uno spirito infantile e gioioso. Dunque si tratta per me di accettare il cambiamento e soprattutto non aver ‘paura’ di cambiare. Perché la paura ci ostacola, ci blocca e blocca tutta la nostra spontaneità e il nostro movimento rigeneratore. Per anni ho avuto paura del cambiamento, me ne rendo conto, perché c’era ‘il rischio di deviare dall’autentica Via del Movimento’. C’era ‘il rischio di allontanarsi dalla Verità’. Era solo ideologia. Il risultato: la mia pratica del movimento, strumento vivo di cui tutti disponiamo, era arrugginita e stagnante. La bella idea ‘resisteva’ e scaldava ancora la mia mente ma la mia capacità di trarre profitto dal movimento involontario - e dalla distensione, dalla flessibilità e dal benessere che ne derivano - era ormai molto ridotta. Ho dovuto andare fino in Giappone per ritrovare il piacere (!) della pratica. Il piacere del corpo e non dell’idea. Il piacere del corpo che si muove senza preoccupazioni. Il piacere semplice di essere ‘Uno’ con la vita che si manifesta nel nostro movimento.

Ma ritorniamo indietro. Accettare il cambiamento senza inutili timori, ed averne voglia, è forse oggi un punto di partenza e, a mio avviso, una necessità.
Tuttavia questo pone problemi, domande e difficoltà.
Come ogni cosa che si muove e che vive.
Ad ogni praticante, ad ogni dojo, sta la responsabilità di assumerne le conseguenze.
Da viversi - è possibile! - gioiosamente e semplicemente.

Credo che il Signor Tsuda abbia scelto intenzionalmente una forma di base, semplice e costante, per lo svolgimento delle sedute.
Credo che abbia fatto un po’ la stessa cosa anche per la Pratica Respiratoria nell’Aikido.
Insisteva sulla serenità, la semplicità, il Cuore di Cielo Puro di colui che conduceva le sedute.
Queste rimangono per me condizioni fondamentali.
Una forma semplice che non varia permette a qualsiasi praticante con un minimo di esperienza, capace di svuotarsi la testa e con un po’ di respirazione, di condurre e animare una seduta.
A casa propria, in un gruppo, in un dojo.
Introdurre varianti nelle sedute avrebbe complicato un po’ le cose e Tsuda forse non ha voluto stimolare troppo la facilità e la tendenza degli occidentali alla complicazione...

Per quanto mi riguarda, ritengo che sebbene sia vero e una buona cosa che ogni praticante possa esser capace di animare una seduta di movimento rigeneratore in tutta semplicità e senza preoccupazioni di tipo tecnico, è altrettanto vero che un praticante esperto possa affinare la propria capacità di condurre ed introdurre così delle ‘varianti’ (nei tempi, nei ritmi, negli esercizi ecc.).
Tutto questo senza allontanarsi dallo spirito ‘Tenshin’ (Cuore di cielo puro) e cadere nel tecnicismo.
E soprattutto senza lanciarsi in ricerche e improvvisazioni troppo personali.
Ecco perché oggi sono molto contento. Posso appoggiarmi sull’esperienza, la conoscenza e la maestria del Signor Onizuka che con grande generosità mi mostra e mi dice molte cose.
Non improvviso nulla ma...

Tengo a dirvi che il Signor Onizuka spera di poter venire un giorno a Milano (quando?) non tanto per fare il ‘proprio’ stage, non per mostrare ‘come si pratica il movimento’, non per dirci quale sia ‘il modo buono o giusto di fare le cose’ ma piuttosto per ‘vedere quale sia il nostro stile di pratica’, per conoscere qualcosa di ‘nuovo’ e semplicemente per aiutarci ad ‘unificare un po’ di più il ki del gruppo’... Detto da parte di un uchideshi (allievo interno) di Haruchika Noguchi... Ma questo non mostra soltanto la sua modestia e la sua calorosa semplicità. Questa è anche una condizione di spirito molto legata alla pratica e alla filosofia del katsugen undo (movimento rigeneratore) ed io mi ci ritrovo pienamente.

Dunque io, qui a Milano, non applico quello che ho appreso a Kyoto. Sarebbe forse la cosa più facile da fare, ma non porterebbe da nessuna parte.
Sulla base della situazione, delle ‘risposte’ e delle ‘domande’, scelgo, introduco, adatto, faccio, non faccio... Mi sento vicino a Tsuda in questo, ho l’impressione di pormi delle domande che lui stesso si è posto...
Mi sento libero e ne sono felice. Se mi sbaglio o se mi perdo non sono comunque solo... che sollievo!
Però cammino sulle mie gambe in piena autonomia e assumo completamente la responsabilità delle mie scelte. In questo non ho alcun sostegno ‘ufficiale’.
Mi sento abbastanza maturo, sereno e motivato per lanciarmi in un cammino di questo tipo. Mi fa bene. Non ho ambizioni.
Ogni praticante di lunga data si porrà più o meno le stesse domande cercando dentro di sé le risposte.
Lo stesso vale per ogni dojo, con tutte le complicazioni che comportano la vita collettiva e di gruppo.
Rispetto a questo, c’è un bel detto africano:
“Se qualcuno viene da te alla ricerca di un frutto e tu mangi tutta la polpa offrendogli solo il guscio, non riuscirai mai a venderlo”...
A ciascuno di trovare la propria risposta!
 
Milano, 11 novembre 2009

Dakar, diario di un'immersione (1)

 


Primo impatto

Si apre il portellone ed esco dal Boeing Tunisair.
Africa per la prima volta! Un vero e proprio tuffo. Mi trovo immerso in un’aria liquida, densa, avvolgente. Nulla di sgradevole, anzi. In quest’umidità calda mi sento dentro da subito. Niente più incertezze o immaginazioni cariche di dubbi. Ci siamo, ora, nuoto già scendendo dalla scaletta dell’aereo. Per non affogare.
Il presente, con tutta la forza di cui può essere capace, ti sbatte contro e ti scuote. Finito il tempo del prima e del dopo, l’Europa è già lontana anni luce, adesso nuoto per sopravvivere, o per vivere?
Adesso. Se non sai nuotare, qui devi imparare in fretta. Ma tutto te lo insegna, la gente, il clima, gli odori, i suoni, tutto.
Già lo capisco dopo i primi passi dentro quell’aeroporto così insolito. Sembra un mercato. Ogni cosa si muove, ogni essere. Rumorosamente.
Mi lascio trasportare con animo leggero. Sono qui per questo. Voci, voci forti e non contenute, esplodono qua e la. Discussioni, risate, gridi.
Bagagli e persone passano disordinatamente attraverso scanner e controlli, l’impressione è che può passare di tutto. Un anziano europeo viene bloccato da un funzionario che vuole dimostrarsi severo. Senza certificato di vaccinazione contro la febbre gialla non si entra in Senegal! Il turista protesta come può, si giustifica. Il funzionario è inflessibile. Coda ferma per dieci minuti, siamo accalcati e sudati. Poi l’impasse si sblocca, apparentemente senza motivo, tutti passano, anziano turista compreso. A me non chiedono nemmeno il certificato.
Dalla piscina all’interno dell’aeroporto passi in un battibaleno a quella che sta fuori. Trasportato dalla marea umana che cerca sfogo all’esterno. Tutti sembrano attenderti, lì in strada, dietro alle transenne. Taxisti, aiutanti improvvisati, amici di amici. Voci ti chiamano a destra e a sinistra, vuoi cambiare soldi, vuoi andare a Dakar, vuoi mangiare?
Mi siedo sulla valigia rigida, con il muro alle spalle. Guardo affascinato la folla umana che si muove davanti ai miei occhi. Massa dai contorni indefiniti in continuo rimescolamento. Ragazze che vendono banane che portano sul capo, bambini che ti propongono piccoli sacchetti di acqua fresca. Mordi via l’angolino in basso e succhi. Come un seno di plastica.
Scambio qualche parola e qualche sorriso con un giovane francese appena arrivato come me. Entrambi attendiamo qualcuno. Siamo entrati nel regno dell’attesa. Meglio mettersi il cuore in pace.

Arrivo a Guele Tapée

Nel taxi i finestrini sono spalancati. Il vento tiepido che ci accarezza sa di mare perché la strada si snoda parallelamente alla costa. Viaggio con due amici che sono venuti a prendermi, Amadou e Mbarick. È gradevole questo percorso notturno tra Yoff e Dakar, mi posso rilassare e annusare forte gli odori intensi del sud. Poco alla volta, la densità urbana aumenta. Non le luci pubbliche, però, che sembrano scarseggiare (mi dicono che ci sono grandi lavori stradali in corso sulla corniche e che questo causa continui black-out elettrici).
Cresce invece il numero di persone presenti in strada. Le vedi e non le vedi, nella penombra, a volte illuminate dai fari delle auto. Camminano, si muovono o stanno semplicemente ferme sul ciglio della strada. Molti vendono i loro prodotti, spesso frutta o cibarie. E siamo nel pieno della notte. Si capisce subito che qui la vita notturna è intensa.
Impressiona un po’ l’intuire tutta questa vita che si svolge senza però riuscire a vederla chiaramente. Non sono abituato al buio cittadino. Si avverte come un senso di promiscuità e di mistero che all’inizio mi inquieta un po’. Tuttavia mi ci abituerò presto e altrettanto presto sarò consapevole di non correre alcun pericolo. Nell’atmosfera di questi quartieri popolari sembra non esserci tensione o rischio di violenza. Non è cosa da poco.
Il taxi ci lascia di fronte al mercato di Soumbédioune, rue 55 angle 60. Qui sono poche le strade con un nome, e si trovano soprattutto nel centre ville. A Guele Tapée, come a Medina o in altri quartieri popolari le vie hanno solo un numero: quando si indica il proprio indirizzo si comunica l’incrocio delle due strade più prossime alla nostra abitazione. In questo caso la 55 e la 60.
Scendendo dall’auto non puoi non sentirti osservato. Sei un tubaab, un bianco, e in questi quartieri ne girano ancora relativamente pochi. Scoprirò nei giorni seguenti che anche se apparentemente nessuno ti guarda sei comunque sempre visto. In ogni situazione, più occhi interessati ti scrutano e seguono la tua storia. Il quartiere ti accoglie e ti concede uno spazio. Allo stesso tempo ti fa suo e ti mangia. Integrazione inevitabile. Nessuno qui può rimanere osservatore estraneo e oggettivo. Non puoi che far parte di questa realtà, buttarti nella mischia.
Entro in un cortile, passando da un cancelletto di ferro. E’ buio anche qui. E nel buio, sdraiate su delle stuoie, dormono fuori per il gran caldo diverse persone. Incontro Yama finalmente, un grande abbraccio affettuoso mi fa sentire la gioia sincera che prova nell’incontrarmi. Anch’io sono felice, sono venuto fin qui per lei e per la fiducia che mi ispira.
Yama mi porta subito a conoscere le persone che popolano il cortile. Tutte donne. Stringo molte mani, nell’oscurità, saluto anziane signore di cui non vedo il volto e che mi parlano in wolof.
Nan ga def? Come va? Mangi fi rekk! Sono qui! 


Agosto 2007                                                                                                                   ... continua
 

martedì 28 gennaio 2014

Aikido a Kyoto (4)

(segue)




Ero giunto da poco, qui a Kyoto, e mi avventuravo nella montagna dietro al Nanzenji alla ricerca di Oku no in, un luogo sacro piccolo e appartato, meno visitato del tempio centrale. Sapevo che vi avrei trovato una piccola cascata di acqua gelata dove a volte si recano pellegrini e ricercatori per bagnarsi e purificarsi. Avevo seguito le indicazioni della guida, camminato a lungo parallelamente all’antico acquedotto che porta a Kyoto l’acqua del lago Biwa e poi seguito il sentiero che saliva verso il monte. Ma mi ero perso.
  La cosa non mi dispiaceva. Camminando tra questi fitti boschi, i miei occhi non si stancavano di guardare con stupore le altissime e silenziose criptomerie che si mischiavano sorprendentemente con schiere di immensi bamboo. Personaggi vivissimi di una commedia naturale.
Un santuario shinto era spuntato dal nulla, come un po’ abbandonato in questo paesaggio mattinale. Non c’era nessuno in giro e ho potuto godermi appieno la calma di quel momento e anche fare qualche foto di quelle dimore di legno con tetti di paglia in cui i kami amano soffermarsi.
Ad un certo punto ho incontrato una coppia di giovani. Lei giapponese e molto carina. Lui un occidentale dalla faccia vivace e simpatica. Ho chiesto indicazioni su dove ci trovavamo e la ragazza è stata molto gentile. Ha cercato in tutti i modi di darmi informazioni utili. Lui rimaneva piuttosto silenzioso e sorridente. Il pensiero che potesse praticare l’aikido mi ha sfiorato per un attimo.
Andando via mi sono detto che mi ero allontanato troppo in fretta. Avrei potuto fare amicizia con loro. Ero appena giunto a Kyoto e non conoscevo nessuno. Così è la vita, a volte si perdono le occasioni, non le si coglie.

Una settimana dopo, il 31 dicembre, viaggio spedito sulla mia inseparabile bicicletta e vicino al fiume Kamo incrocio Khalid, anch’egli in bici. “Mi riconosci?” gli dico. “Certo”, mi risponde. Ci salutiamo e parliamo un po’, strada facendo. Mi chiede quale sia il mio lavoro. Gli dico che insegno l’aikido e che sto cercando un luogo dove praticarlo. “Oohh” dice lui, mezzo iracheno e mezzo scozzese, “Anch’io pratico l’aikido!”. Misteri della vita e del ki, avevo visto giusto. E l’amicizia mancata qualche giorno prima può stringersi ora. “Perché non vieni a conoscere la mia maestra? Si chiama Ookamoto. E’ una buona insegnante”. Su internet avevo visto il sito web di Ookamoto sensei. Mi dava l’impressione di un aikido molto energico e sportivo che non è esattamente quello che cerco. “In effetti lei, più che di ki, parla di utilizzare i muscoli interni...” dice Khalid ridendo “ma vale la pena provare!”.

Quindi provo. Alla prima occasione che mi si presenta, rinuncio alla visita programmata e prenotata da mesi alla villa imperiale di Shugakuin e mi reco al Budo Center per incontrare Yoko Ookamoto.



Terza e quarta lezione: Dojo della maestra Yoko Ookamoto
(Aikikai di Kyoto, dojo affiliato all’Hombu Dojo di Tokyo.)

E’ stata allieva di Kisshomaru Ueshiba, poi di Yamaguchi sensei, poi di C. Tissier in Europa e di un altro maestro negli Stati Uniti.

Giungo al Budo center verso le 8:30. La lezione incomincia alle 9 ma so che i primi arrivati hanno tutti i tatami da posizionare (circa 150 mq) e quindi desidero dare una mano. Incontro subito due alti inglesi, all’opera nel trasporto dei tatami. Devono essere padre e figlio. Si assomigliano molto. Saluto semplicemente. Il padre, che desta in me un immediato senso di antipatia, non mi guarda nemmeno e grugnisce qualcosa di incomprensibile. Il figlio, seccamente, mi dice: “First time?” e mi porta da Ookamoto sensei.
In questa grande sala da sport, Yoko Ookamoto mi viene incontro. Mi parla rapidamente, senza formalità e nemmeno una particolare cordialità. Diretta e piuttosto tagliente.
“Lo spogliatoio degli uomini è laggiù...”.
“Ah, grazie”
“Mi avevi scritto un’email?”.
“No”.
“Pratichi già l’aikido?”
“Sì, a Milano, in Italia”
“Con Fujimoto?”
“No”
Non ho tempo di rispondere di più. Le domande si susseguono piuttosto incalzanti mentre ci diamo da fare per piazzare i tatami. Lei lo fa con energia, senza fermarsi.
“Qual’è la tua scuola?”
“La scuola di Itsuo Tsuda”
“A che federazione appartiene?”
“A nessuna federazione, Tsuda praticava in un suo dojo”
“Qui di solito, tutti fanno riferimento ad una federazione, per questo lo chiedevo” si giustifica.
“Tsuda ha praticato per diversi anni con Morihei Ueshiba” rispondo “poi, in Europa, ha voluto percorrere un percorso autonomo. Però gli altri praticanti di quell’epoca lo conoscevano bene. Per esempio Tada...” non mi lascia terminare.
“Ah, era sotto Tada”
“No, non era sotto Tada”.
Per il momento le presentazioni si fermano qui. Ookamoto sensei ha bisogno di situarmi. Mi sembra giusto e mi va bene così. Oltretutto, non avevo nemmeno avvisato della mia venuta né mi ero fatto precedere da una richiesta scritta. E credo che sia comunque sempre meglio e più corretto farlo.
Di certo, non si sforza molto per apparire simpatica, ma qualcosa di lei mi piace e mi attira. Come spesso mi succede con le donne d’azione e dalla decisione rapida.
Arriva Khalid e ci salutiamo con allegria.
“Vi conoscete?” chiede Yoko
“Ci siamo incontrati per strada” risponde Khalid.
Lei ride fragorosamente.

Comincia la lezione. Silenziosamente. La sala è grande e un po’ fredda. Disadorna di qualsivoglia decorazione, immagine, fotografia. Osservo che oltre la metà dei praticanti sono occidentali. Saprò in seguito che in questo corso ci sono inglesi, americani, scozzesi, tedeschi, olandesi, colombiani, francesi, australiani e forse studenti di altri paesi ancora. L’unico italiano, che viene sempre, oggi non c’è. Ci sono io.
Siamo disposti sui lati dei tatami e ognuno fa gli esercizi che desidera per prepararsi, scaldarsi, distendersi. Faccio qualche movimento della pratica respiratoria. Soprattutto gli esercizi a terra, per sciogliere le articolazioni delle anche e delle caviglie. Intanto osservo chi mi sta attorno e soprattutto la maestra che appare molto concentrata.
E’ sicuramente molto forte. Forte dappertutto. Le braccia, il bacino, le gambe. Si muove con agilità e potenza. Una vera guerriera. Ma dall’animo gentile. Dentro, sotto sotto. Credo che negli anni abbia dovuto e voluto dimostrare che anche una donna possa essere forte come un uomo e anche più di un uomo. E penso anche che ci sia riuscita. Di me è più forte e la sua tecnica è sicuramente superiore. Di certo padroneggia egregiamente le forme dell’aikido. Ma la forma non è tutto. Essa è limitata, fatiscente e confinata ad un breve momento della nostra vita. Nella forma non c’è permanenza né durata né infinito. Questi appartengono ad una dimensione dello spirito che qui è assente. Almeno per ora, perché l’aikido di Yoko Ookamoto potrebbe evolvere moltissimo nei prossimi anni. Se lei lo desidera. Ed io glielo auguro.
Comunque, a me la forza fisica piace un sacco. Quando è espressa con eleganza, sincerità e senza brutalità. Quando scaturisce da un corpo vivo e sveglio. Quando è un po’ selvaggia. Tutto questo è presente nell’aikido di questa giovane donna.
Giovane? Apprendo con un certo stupore che ha più di cinquant’anni. Gliene avrei dati al massimo trentacinque anche se in alcuni momenti i lineamenti del suo volto e alcune espressioni rivelano un’età più avanzata. Qualche giorno dopo, mi divertono le parole di Khalid, il mio nuovo amico scozzese (che pratica da sei mesi). Racconta con un umorismo assolutamente anglosassone dello shock che ha provato incontrando Yoko Ookamoto in bicicletta. Lui che era abituato a vederla sui tatami, energica e tuonante, si è ritrovato di fronte ad una matura signora, vestita come una qualunque normale, quieta, cinquantenne. La bici di Khalid ha sbandato per un attimo.
La lezione entra nel vivo. Uno dietro l’altro percorriamo il tatami avanti e indietro con cadute all’indietro, cadute all’indietro laterali (Che qualcuno me le insegni, faccio così fatica!), cadute in avanti, camminata sulle ginocchia. Ci sarà da sudare, è evidente. Mi piace però essere chiamato a dare il massimo.
Ookamoto ha una pedagogia molto chiara ed evidente. Sviluppa gradualmente, passo per passo, i movimenti e le tecniche che propone. Mostra con grande precisione lo spostamento dei piedi, la rotazione del bacino, i punti di contatto e di... impatto. Posso imparare molto e comunque oggi ho un’esperienza sufficiente per cogliere quello che vedo di buono e tralasciare ciò che mi pare meno interessante. E’ molto gradevole questo dono della maturità. E’ in un certo qual modo come se, in modo naturale e involontario, si economizzassero le energie. Forse perché istintivamente il corpo sa di averne meno da spendere. Forse perché un equilibrio generale è oggi più presente in me e gli eccessi hanno meno ragion d’essere.
Lei gira tra i praticanti e dice alcune cose. Più che dire, però, le fa sentire. Senza perdite di tempo. Quindi, nel suo insegnamento, c’è come un mix di coerenza logica – la gradualità nell’apprendimento e nell’esecuzione di movimenti non semplici che richiedono capacità di osservazione e di comprensione – e di azione immediata e determinata. Piacerebbe molto al mio amico Mimmo Lombezzi!
Dopo che mi sono preso un’involontaria capocciata con il mio vicino, lei passa da me e mi fa sentire alcune cose. Ora non le ricordo più con esattezza. Ricordo però che dopo di me ha fatto lo stesso con la mia partner mentre io osservavo attento, ma in piedi... “Seduto!” ha intimato imperativa facendo segno con la mano di abbassarmi. Agli ordini, sensei!!!
Passata un’ora e un quarto della lezione ho cominciato involontariamente a immaginarne la fine. Non per noia ma per fatica. Qui si pratica con molta intensità fisica e al corpo viene richiesto molto. La stanchezza che sopraggiunge è però una bella stanchezza. Questa è una delle considerazioni che mi ha spinto, dopo questa prima esperienza, a desiderare di farne un’altra con la stessa insegnante. Infatti ero provato, alla fine, ma con una sensazione di generale benessere. Prima di cominciare avevo un fastidioso indolenzimento tra la scapola sinistra e il collo, dopo più nulla. Questi sono segni che ci parlano. Perlomeno che parlano a me.
Le tecniche che abbiamo fatto durante la lezione sono state piuttosto belle. Per terminare, prima di kokyu ho (anche qui si conclude la lezione con questo!), una forma di kokyu nage, quella del “lazo”, in cui si fa roteare il braccio e il partner dietro le spalle per poi accompagnarlo, proiettarlo... invitarlo a volare davanti a te.
Un thé semplice con qualche dolcetto sembrano non mancare mai nei luoghi di pratica ed è una bella usanza. Sono stati l’occasione per conoscere meglio Yoko, per scambiare due parole con lei ed incontrarne il sorriso, per intuire in lei una dolcezza e una femminilità nascoste da qualche parte, laggiù in fondo...


Kyoto 14 e 15 gennaio 2008                                                                      (continua...)

giovedì 23 gennaio 2014

Camminare a San Zenone

 
Camminare, camminare e camminare ancora...
Lasciare l’auto molto lontana, nella vecchia stazione ora irriconoscibile,
andare lenti fino al paese dove hai passato l’infanzia
e da cui sei mancato per un quarto di secolo,
cercare di riconoscerlo,
ritrovare odori e l’umido caldo,
rivedere la vecchia, tanto amata casa,
ancora lì, ancora rossa,
toccare il faggio, fragile allora
quando lo piantasti, adesso immenso,
accarezzare il giardino incolto,
scontrarsi con il ricordo di grandezza infinita
che si misura con i restringimenti di oggi,
pregare dentro,
dire a voce alta ‘io ci sono, voi ci siete?’...
Camminare, camminare e camminare ancora...


due passi dalle parti di San Zenone, 4/5/13



mercoledì 22 gennaio 2014

Aikido a Kyoto (3)


(segue)




 
Scrivere richiede molto tempo. Ma non riesco ad essere sintetico e ho un certo desiderio di mettere per iscritto il più possibile del mio vissuto qui a Kyoto. E di condividerlo con voi.
Un mese piuttosto incredibile, questo, di una densità spaventosa. Mi sembra di aver accumulato nutrimento per mesi, forse per anni.
Qui nel dojo di Onizuka mi chiamano “il terremoto italiano”, the italian earthquake : la cosa mi fa sorridere pensando che solo pochi mesi fa mi sentivo come un deserto inaridito. Ma c’è il tempo del deserto e quello dei terremoti e... sono belli e fecondi entrambi.
Continuo ora con la mia esperienza nell’ambito dell’aikido. Spero di non tediarvi. Mi piace pensare che non sia così.

Seconda lezione: Dojo del Maestro Takahashi (Mitsumame Institute)

E’ stato allievo di Tanaka Bansen che, a sua volta frequentò il dojo di Morihei Ueshiba negli stessi anni in cui vi praticava anche Itsuo Tsuda.

E’ sera. Ci arrivo con Yoshiko Nishimura, una donna generosissima a cui devo molto in questi giorni. E’ lei che mi traduce le parole di Onizuka in inglese e che mi aiuta in mille modi. Penso che sia molto contenta del “super” lavoro che sta facendo. A volte siamo stanchissimi entrambi. But happy.
Siamo attesi alla lezione. Raccomandati da una praticante di iaido che partecipa anche alle sedute di katsugen undo nel dojo di Onizuka.
Sta finendo una lezione per bambini e ragazzi. Ne vedo un pochino. Atmosfera simpatica e piuttosto rumorosa. Un po’ sportiva.
Mi cambio sulle scale (qui gli spogliatoi sembrano non aver dimora, forse li si considera spazio inutilmente sprecato e quindi se ne fa a meno. Non hanno poi tutti i torti).
Uno, due, tre e ... via! Il ricambio è immediato, fuori i piccoli e dentro i grandi che spuntano da tutte le parti come per miracolo (non li ho visti cambiarsi).
Saremo circa 25 praticanti. Il dojo è piuttosto grande, un centinaio di metri quadri.
Davanti coloro che portano l’hakama, dietro gli altri. Mi metto in seconda fila.
All’arrivo mi sentivo stanco e un po’ infreddolito. E forse per questo anche un po’ teso. Allora ho cominciato a fare quello che in questi giorni faccio sempre: la respirazione lungo la spina dorsale, giù fino all’addome che aspira. Mi concentro sull’inspirazione che va indifferentemente su e giù per la colonna e espiro senza porvi troppa attenzione. Mi fa un gran bene, mi aiuta a concentrarmi e a distendermi. Provate...
Il maestro Takahashi l’ho incontrato sulle scale. Ci siamo dati la mano cordialmente. Mi sembra un tipo gentile, non più giovanissimo (settant’anni?), un po’ stanco forse, di poche parole.
Quattro battiti di mano e l’inchino verso il tokonoma dove stanno la calligrafia e le foto di Ueshiba e di Tanaka Bansen. Poi facciamo una serie di movimenti di riscaldamento. Alcuni sono gli stessi che abbiamo anche nella nostra Pratica Respiratoria. Non c’è però alcuna particolare attenzione posta sulla respirazione. Né sul ritmo. Qualche flessione e piegamento: senza esagerare...
Si comincia. Vengo affidato alle cure di un certo Honda che si presenta. Anch’io vengo a mia volta presentato dal maestro Takahashi: “Itaria no sensei”, maestro italiano... bene, non devo sfigurare. Ma Honda, gentile e bendisposto, è quadrato e massiccio, del genere “piuttosto che mi piegarmi mi spezzo”. “Watakushi karate!”, io karate, me lo dice lui ma l’avevo già capito dal suo corpo. Con Honda ci scaldiamo con spostamenti vari e scivolamenti di piedi poi siamo raggiunti da altri quattro, tra i quali una ragazza. Anche qui si pratica in gruppo, uno dopo l’altro senza interruzione. Ogni tecnica dura abbastanza a lungo, c’è il tempo di farla ciascuno diverse volte. Non ci sono tempi morti.
Iriminage… shihonage… yonkyo… Mi muovo con una certa scioltezza perché in questi giorni mi sento molto bene fisicamente. Cado anche morbidamente, in un modo un po’ diverso dagli altri che tendono a cadere pesantemente a terra, tipo judo, sbattendo forte le braccia sul suolo. Yoshiko mi confermerà dopo che il mio modo di muovermi era molto diverso dagli altri e che, per lei che assisteva all’aikido per la prima volta, si trattava come di due mondi differenti.
 Takahashi si avvicina allora a Yoshiko e parlando di me dice: “Lui è un sensei. Digli però di non essere così gentile con i miei allievi” e mi fa segno di essere più deciso, di non esitare, di non risparmiarmi. In realtà non mi sto risparmiando affatto ma so benissimo che forzando i ritmi o l’intensità dei miei movimenti finirei soltanto per impormi maggiormente. Utilizzerei più forza senza senso né giovamento per nessuno di noi. Non ne ho voglia, non mi interessa, non ne ho bisogno. Honda è gentile, molto forte ma un po’ ottuso. Molto difficile che qualcosa passi. Più facile con la ragazza che è molto più morbida. Peccato che si sforzi tanto di rafforzarsi e di indurire le braccia. Non le farà bene.
Dopo un po’ Takahashi torna da Yoshiko e mi dice di avvicinarmi. Deve chiedersi: “Ma che razza di aikido pratica questo qui?”. Allora mi sorprende chiedendomi se sono disposto a mostrare, nella mezzora rimanente, lo stile della mia scuola. Certo che sì, rispondo, eccomi alla prova. “Cosa mostri?” mi chiede. “Non lo so... vedrò...”. Ed è vero, non ho nessuna idea e non è un contesto semplice in cui mostrare qualcosa. Senza parlare il giapponese per giunta. Ma sono felice e onorato della sua proposta, significativa e generosa. E’ l’occasione per dire qualcosa. Mi tuffo.
Il maestro mi chiama fuori e mi chiede di presentarmi. Qual’è il nome del mio dojo e che aikido pratico? L’Aikido di Tsuda, dico, e il mio dojo si chiama “A ke lei naa” un nome africano (...) che vuol dire “grazie”. Ahh, sooo.... Poi vado a ruota libera. Takahashi chiama fuori Honda come uke. Honda arriva velocissimo in seiza, pronto all’azione. E’ il mio turno di spiazzarli tutti e lo faccio velocemente, senza esitare. Uno schiaffo all’etichetta ma al diavolo l’etichetta, il mio obiettivo è riuscire a mostrare qualcosa dell’aikido di Tsuda, del mio aikido, e con Honda non ci riuscirei.
“Posso cambiare uke?” chiedo a Yoshiko di tradurre le mie parole. Sgomento generale e un po’ di stupore. “Vorrei LEI” e indico la ragazza che praticava nel mio gruppo. La risata esplode fragorosa. Tutti credono forse che scelga una ragazza per faticare di meno o per aver vita facile. O forse ridono e basta.
Io comunque voglio mostrare nikyo sull’attacco shomen uchi ed è quello che faccio. Voglio mostrare che la respirazione nell’aikido è importante. Che quando inspiri il partner lo inviti ad un’avventura gioiosa. Che se hai di fronte una ragazza non per questo devi brutalizzarla o dimostrarti più forte (vale anche per gli uomini...). Ka - mi, il respiro passa e ottengo l’attenzione che cerco. Senza tensione.
Poi tutti provano questo modo di fare così nuovo per loro. Piace. Uno mi chiede “please please, show it again”. Corro a destra e sinistra a correggere un po’ tutti senza ritegno alcuno né rispetto per i gradi. Lo faccio simpaticamente e con decisione. Mi diverto un sacco. Kokyu (respirazione)... Ki no nagare (il ki scorre)... Maru, maru, okii maru (cerchio, grande cerchio)... sono le parole che uso di più.
Ecco che questa serata ha acquisito un senso tutto particolare. Honda alla fine mi dice di aver imparato tantissimo. Anch’io. Si brinda con il sake all’inizio dell’anno nuovo. E i piccoli dolci di riso sono deliziosi.

Kyoto, 11 gennaio 2008                                                                                         (continua...)

***

martedì 21 gennaio 2014

Dietro la forma (3)


(segue)




Ci vado ogni mattina di questo mese di agosto milanese.
Sono cinque ippocastani che creano un piccolo cerchio magico, si guardano l’un l’altro piuttosto vicini e raccolti. Uno è quasi morto, potato quasi radicalmente. Ma gli altri lo tengono in vita, senza di lui verrebbe a mancare la perfezione del cerchio e le loro stesse esistenze ne soffrirebbero.
Oggi per la prima volta ho fatto il mio Taiji all’interno di questo cerchio, dialogando con ognuno dei miei cinque amici. Fino ad ieri ho praticato fuori, oggi era il momento di entrare. Attorniato da questi personaggi imponenti mi sono sentito in una situazione aperta e protetta allo stesso tempo. Cosa non ti comunicano gli alberi… Serve solo un briciolo di sensibilità.
Ci ho messo un po’ a trovare questo luogo ma ora so dove andare a praticare quando vado al parco Sempione. Avevo bisogno di uno spazio così, non troppo esposto, non troppo nascosto.
Quando arrivo lì lascio la mia bici e prendo subito posizione.
I piedi un po’ divaricati che sentono la terra, la sensazione viva del centro, del ventre e gli occhi che si riposano. Sì, basta poco, qui a Milano per riposare gli occhi. Cinque alberi con una lunga storia, alberi che respirano, un bel prato, qualche cespuglio fiorito… Per cercare quel riposo e quella calma che solo la natura ti può dare non è necessario andare alla ricerca in luoghi lontani.
Però, di solito, è proprio quello che crediamo. Pensiamo che per ottenere un distacco ‘salutare’, un riposo ‘efficace’ delle nostre menti stanche per l’eccessivo sovraccarico a cui le sottoponiamo, sia necessario andare molto molto lontano. Invece è proprio il momento in cui dobbiamo andare molto molto vicino, cioè dentro di noi.
Ogni mattina davanti ai miei amici ippocastani con le foglie che stormiscono lievemente nel vento mi dico la stessa cosa e provo la stessa sensazione. “Che differenza c’è in fondo tra questo paesaggio e un tramonto alle Eolie, tra questo cielo e queste piante e il cielo e le piante della brousse del Burkina Faso, tra un istante di silenzio vissuto qui e il bel silenzio che si prova in una foresta?”. Le differenze geografiche, climatiche e anche estetiche sono tante ma, a ben vedere, non c’è nessuna differenza. Nella sostanza, noi rimaniamo noi, la natura rimane la natura, la realtà è.
Questa presa di coscienza, piuttosto recente in questi termini, ha molta rilevanza nella mia vita.
Vedere o non vedere la natura, vederne la bellezza, sentirne l’anima e il vento che la muove, dipende soltanto da noi e non da circostanze esteriori. Sappiamo benissimo quanto possa essere vuota, noiosa e perfino angosciante una vacanza in un paradiso esotico. Un paradiso immaginario, irraggiungibile. Frutto agognato di un viaggio solo mentale.
La questione per me, oggi, si pone diversamente. Ciò che mi chiedo è se respiro o no, se la mia colonna è sensibile o rigida, se il cuore è sveglio e attento. Cerco questo tipo di paradiso. Un paradiso terrestre, umano, accessibile.
Spiagge bianche di sabbia vergine, palme dai datteri raffinati e meraviglioso relax… mi fate sorridere, non solleticate più il mio desiderio. Ma chi vi vuole?
Il signor Gu Mei Sheng raccontava in un meraviglioso filmato di come poco a poco scoprì “l’uomo di Ch’i” all’interno di una prigione maoista dove fu rinchiuso per lungo tempo. A dire il vero fu piuttosto l’uomo di Ch’i a farsi vivo… Gu praticava costantemente la sua forma di Tai ji quan nei pochi metri quadri di un’angusta e umida cella cinese. Lo faceva con totale dedizione e coinvolgimento. Un giorno nacque in lui l’uomo di Ch’i. Dapprima era piccolo, timido e vulnerabile. Gu non lo alimentò né vezzeggiò, lo guardò soltanto crescere lasciandogli lo spazio che chiedeva. Infine, l’uomo di Ch’i poté realizzarsi pienamente, vivere e manifestarsi in piena autonomia… In Gu vivevano ormai almeno due Gu, un Gu in carne e ossa e un Gu di Ch’i, libero di muoversi e fluire senza limiti. Gu Mei Sheng si sentì pervadere da una sensazione di profonda libertà interiore, insopprimibile e incontenibile, e ciò malgrado le condizioni esteriori in cui viveva, avverse, rigide e terribili per chiunque.
Con altre parole, Itsuo Tsuda dice la stessa cosa quando afferma che alcuni “cercano di far irradiare l’anima attraverso il corpo (…). Per costoro non esistono limiti di età. Perché l’anima è eterna”.
Dietro la forma e i suoi limiti c’è l’essere illimitato.
Vogliamo chiamarlo anima, uomo di Ch’i, spirito? Esistono molte altre definizioni, ognuno scelga quella che gli corrisponde di più. Quella che meno lo limita… In ogni caso ogni definizione non è che un vestito che avvolge il contenuto, un nome che lo indica, una forma, appunto. L’essere sostanziale, in verità, pulsa di una vita non circoscrivibile. 
Il corpo e le sue forme contengono l’essere, lo incarnano, lo manifestano.
Senza corpo la mia vita non avrebbe più senso, questo penso ogni giorno. Non potrei più sentirla, sentirmi, toccarla.
Senza la sua caducità, la transitorietà e la fragilità di ogni forma, svanirebbe ogni poesia.
E senza poesia verrebbe meno ogni piacere.
Quando ci si allontana dalla realtà di quello che ci dicono i piedi, per non perdersi nell’irrealtà dello squilibrio mentale che è sempre in agguato, io penso che dovremmo ascoltare di più il nostro corpo e ringraziarlo per tutta la vita che ci offre. Cercare di coglierla pienamente e non solo in minima parte.
L’anima è luce e i raggi di questa luce si propagano attraverso il nostro organismo.
Ne siamo davvero consapevoli?

Milano, estate 2012
  

domenica 19 gennaio 2014

Aquile

 
Un sogno
Un sogno simbolo
Di quelli che ogni tanto affiorano
Ti fanno visita
Non in momenti qualsiasi
Cammino
Un castello forse
Costruzioni in muratura
Penombra ma non buio
Forse una gabbia o una grande voliera?
Libero un maschio di un grande rapace
Dalle dimensioni direi un’aquila
Penne brune, marroni, grandi ali
Le sento sbattere queste ali
La loro presenza è molto forte
E anche gli artigli fortissimi che si avvinghiano alla mia schiena
Nella parte bassa della schiena
L’uccello mi si aggrappa dietro
Si stringe a me
Non lo posso vedere
E’ stanco, forse ferito
Ma la sua presa è ferma
Non posso liberarmene
Non lo desidero nemmeno
Temo solo che gli artigli mi penetrino nella carne
Allora cammino per i campi
Campi di erba alta
Verde lucente
Alberi e vigne
Terre ondulate
Paesaggi aperti
Sole ridente nel cielo terso e azzurro
Cammino cammino e lei arriva
Lei la femmina del maschio
Lei la madre del figlio che lui le ha già dato
Ma che deve ancora nascere
C’è un uovo da qualche parte
Che deve schiudersi
Arriva Lei
Potente e bianca
Bianchissima
Si avvinghia alla schiena
Incollata a me e al maschio
Sento anche il suo becco acuminato
Vedo il suo occhio acuto
C’è calore femminile, materno
E una forza che non posso combattere
Una decisione selvaggia
Una risolutezza terribile
Prova gratitudine per me
Ho liberato il padre di suo figlio
Forse gli permetto di sopravvivere
Di ristabilirsi
Me l’esprime
Mi parla senza parole nel silenzio
Vedo il suo volto
interiormente
Il suo sguardo
Sento la sua presenza
In un atmosfera intima, uterina, liquida
Ma la natura intorno non è silenziosa
E’ viva
Come vivissima è l’aquila femmina
Sento quattro ali che sbattono dietro di me
Sono altro da me
Dal mio corpo
Ma ne sono allo stesso tempo strettamente unite
Sento il becco e gli artigli come punte nella mia carne
Metto la mano tra il becco e la mia schiena
La tengo lì per proteggermi
E’ perforata dalle punte ma non fa male
Poi mentre cammino in uno strano passaggio
Tra le viti direi
Ma ampio e verdissimo
Coperto ai lati e sopra da piante
Per nulla opprimente
Luminoso e un po’ magico
Un albero in fondo a destra
Per terra strane semenze lunghe e marroni
Cado
Il peso dietro mi trascina giù
All’indietro sulla schiena
Potrei anche non riuscire a rialzarmi lo sento
Allora le aquile mi uccideranno lo so
Desidero rimettermi in piedi
Ma che fatica
Non ho molte forze
A stento ce la faccio
Mi tiro su sui piedi
Sollevando tutto il grande carico di aquile
E ricomincio a camminare
Incontro delle persone
Un po’ distanti
Penso che dovrebbe far loro strano
Vedere uno che cammina con delle aquile
Appese alla schiena
Invece sembrano indifferenti
Poi faccio qualcosa
Non so più cosa
E gli uccelli spariscono
E mi sveglio
Milano, al risveglio, 12 novembre 2005