sabato 28 agosto 2021

Quale libertà?

 


Ho scritto poco fa in un commento che il green pass è solo un’idea sbagliata e ingiusta e come tale bisogna trattarlo. 

Un’idea di un mondo che rifiutiamo senza esitazione, un’idea marcia fin dalla nascita. 

Mentre scrivevo ho ripensato a una bella storia che ora vi racconto.


Il signor Gu Mei Sheng visse rinchiuso in una celletta di un carcere maoista per molto tempo.

Un carcere maoista: un’”idea” molto ma molto... concreta.

Non so se mi spiego: non i nostri appartamenti confortevoli, non le nostre dimore di vacanza, non le nostre case climatizzate.

Una celletta angusta, fredda e umida, dove passò lunghi mesi in isolamento, non so bene perché - forse perché dissentiva? Si ribellava? Diceva quello che pensava? - fatto sta che senza poter uscire, senza poter vedere la luce del sole, senza poter abbracciare i suoi amati, fu costretto, obbligato, forzato a cercare la libertà altrove.

Per sopravvivere. 

Per vivere.


Gu Mei Sheng aveva un compagno fedele, il Taiji Quan ed insieme a lui camminò avanti e indietro, per chilometri e chilometri, sulle sporche mattonelle che lastricavano i pavimenti della sua prigione. Trasformandole in sentieri senza fine e dalle molteplici sorprese.

Pian piano si aprirono ai suoi occhi insospettati paesaggi e, nelle infinite forme che esplorava ora dopo ora in compagnia dell’amico Taiji, si fece luce, prese corpo, crebbe in lui un’altra meravigliosa creatura a cui Gu diede il nome di “Uomo di Ch’i”. 


Gu e l’Uomo di Ch’i diventarono grandi insieme, scambiandosi i ruoli e nutrendosi l’un l’altro. In certi momenti l’Uomo di Ch’i usciva dal corpo di Gu e se ne andava in giro da solo; Gu lo poteva seguire con lo sguardo e con lo spirito, poteva godere della sua libertà infinita, apprezzare le sue forme mutevoli e senza confini apparenti.


Arrivò, dopo anni, anche il giorno in cui fu detto a Gu Mei Sheng, al suo fedele compagno Taiji quan e al suo conquistato amante Uomo di Ch’i, che potevano lasciare la loro prigione, potevano ritornare ad essere “liberi” : Gu rispose con un sorriso che la libertà, l’umanità e l’amore li aveva già ritrovati da tempo. 

Che nessuno, proprio nessuno, avrebbe mai più potuto privarlo di loro.  



giovedì 26 agosto 2021

Ohayō gozaimasu e poi mi siedo

 


È arrivata la mattina del rientro dopo quasi un mese di pausa.

Ritrovo i tatami del dojo e la sua quiete.

Riprendere l’Aikidō significa sveglia il mattino presto.

Uscire di casa quando le vie sono ancora semi deserte.

E i rumori di una città che ancora dorme sono quasi inesistenti.

L’effetto che mi fa è sempre lo stesso, un effetto immediato:

varco un po' assonnato il portoncino di legno e, una volta in strada,

è come se mi tuffassi nella vita, mi risveglio a me stesso.

Suoni, luci, colori e movimenti cambiano di natura.


Giungere al dojo per primo non è solo girare la chiave di una serratura.

Apro la tenda all’ingresso e nasce spontaneo un inchino verso il vuoto pieno.

Ohayō gozaimasu ! È un buongiorno dal cuore quello che mi sale alle labbra.

Saluto il signor Onizuka, Tsuda, Noguchi, Ueshiba, Sotigui...

i miei cari, i miei maestri, che stanno nei quadri, che girano nell’aria,

che abitano invisibili tra le quattro mura di questi spazi.

A volte ne saluto uno di loro in particolare, a volte li abbraccio tutti insieme.

Con Takashi Onizuka e Sotigui Kouyaté, la sensazione è speciale,

non c’è solo la vicinanza spirituale, ma anche una parte affettiva e una vibrazione fisica:

li ho conosciuti, li ho toccati, abbiamo riso e praticato insieme, 

sento il suono della loro voce, c’è qualcosa di caldo e di semplicemente umano che ci lega.

Quando li guardo, riecheggiano in me i momenti indimenticabili passati insieme.


Aprire la porta di un dojo non è un’azione che si fa per se stessi.

È un inizio che si ripete ogni giorno, una preparazione, un’accoglienza.

Entriamo sui tatami con abiti puliti, con i piedi nudi, con il cuore aperto.

Quando il clima è caldo come in questo periodo, non esito ad aprire tutte le finestre:

per far girare l’aria, per creare brezze e correnti, per rinfrescare l’ambiente.

Chi arriverà dopo di me potrà trovare un luogo gradevole e già in movimento.

Poi dispongo il foglio delle presenze all’ingresso, preparo la campana, accendo la candela, 

tocco il bokken o il che mi accompagneranno di fronte alla calligrafia

 e finalmente scendo giù e mi siedo.


Sedersi in terra, per trovare il proprio posto sui tatami.

Sedersi vuoti in uno spazio calmo e pulito.

Sedersi nel silenzio di un silenzio che si protrarrà per minuti infiniti e densi.

Sedersi e sentirsi: sentire la propria schiena, la propria base, le proprie gambe.

Sedersi e respirare dentro e fuori, cogliendo la vita incessante che scorre.

Sedersi e rinnovare, istante per istante, la consapevolezza che la Vita è.

Sedersi e rigenerare, istante per istante, la consapevolezza che il Sé ci respira e ci trascende.

Sedersi e ascoltare i passi di chi giunge e ti raggiunge.

Sedersi in un immobile movimento e gioire per qualcuno che si siede attento al tuo fianco.


Nulla di più bello, nulla di più semplice, nulla di più prezioso!

È la dimensione spirituale, quella sacra e pura, di quel tesoro che è l'Aikidō.

Senza di essa non c’è un dopo, non c’è una prospettiva, non c’è uno sviluppo.

Chi conosce, nel solo sedersi, il piacere di ritrovare la terra e la vita 

quando giungerà il momento di alzarsi e di camminare, 

quando risuoneranno i dolci rintocchi della campana, 

saprà incarnare e comunicare l’entusiasmo dell’incontrarsi e del praticare insieme. 



lunedì 16 agosto 2021

L'urlo della Grigna




Qui non è difficile.

Sia alzarsi la mattina, sia praticare, sia trovare un centro.


La montagna ti chiama, gli alberi ti abbracciano, il silenzio ti lava l’anima.

Come poco fa anche altre mattine di questo agosto caldo.

Scendo sul prato e non penso a niente.

Poi le gambe prendono posizione e i piedi sentono la terra.

L’aria fresca ti riempie il viso e i polmoni che è un piacere.

Il cielo con le sue nuvole quiete ti cura gli occhi e ti rigenera la vista.


Qui non è difficile.

Basta respirare e lasciare.

Lasciare tutto, lasciare se stessi, lasciare le forme.

Il movimento sorge da sé, guidato dal desiderio di sentire la vita.

Lo chiamano Aikido, Taiji, Qi qong, Katsugen, rumba guaguanco...

Io qui, sotto la Grigna maestosa, non li chiamo affatto:

la vita che si muove non ha bisogno di nome che la definisca.

Questi movimenti li vivo soltanto, fluttuando da uno all’altro.

In piena libertà, spontaneamente.


Qui non è difficile.

Anche perché sono vecchio ed è bello esser vecchi.

La maturità ti consente di andare all’essenziale velocemente.

Senza filtri, senza perdita di tempo prezioso.

Al di là delle forme, oltre al risultato, dimenticando l’imitazione.

La riuscita importa forse a qualcuno?

La Grigna ride silenziosa delle ansie della gioventù.

La Grigna sorride quando intravedi la permanenza del Sé.


Qui non è difficile.

Perché il nocciolo della vita è semplice.

E la natura non fa che ripeterlo.

Dietro tutta la complessità, dentro, sotto...

Il nucleo è semplice e leggero.

Scorre, fluttua come il vento, ti accarezza come il Ki.

La Grigna te lo urla.

Devi esser proprio sordo per non sentirlo.

Decrescita felice e natura





Io sono per lasciar fare alla natura e alla sua saggezza.
Per ridurre i consumi, ridurre gli inquinamenti, ridurre gli interventi.
Insomma sposo un modello di decrescita felice e rispettosa che consenta un equilibrio che nasce dalla natura che si autoregola piuttosto che dall’operato umano.

Invece, giunti ormai al punto di non ritorno, le uniche soluzioni che ci proporranno come possibili per salvare il pianeta saranno interventi tecnologici che poco avranno a che fare con l’equilibrio naturale.

Finiremo per sconvolgere definitivamente l’ecosistema aggiungendo complicazioni, aggiungendo problemi, aggiungendo “ingiustizia” nei confronti di tutte le specie viventi che si troveranno a soffrire della nostra ignoranza e della nostra incapacità di rispettare ciò che è già in essere.

Ugualmente, e stoltamente direi, pensiamo che per difendere la nostra “salute” dobbiamo ingoiare pillole, preparati chimici e sostanze velenose.
Accordiamo tutta la nostra fiducia alla tecnica e tecnologia, immettendo nel nostro organismo elementi a lui del tutto estranei che dovrebbero consentirgli di “sopravvivere”.

E soprattutto dimenticando che se nasciamo, cresciamo ed evolviamo, se da una cellula ci trasformiamo nei miliardi di cellule che pulsano nel nostro corpo, se ci manteniamo in un equilibrio fluttuante ma costante, è grazie alla Vita e non alla tecnologia.

Questo “Grazie” non sappiamo sentirlo, non sappiamo pensarlo, non sappiamo pronunciarlo.
Non sappiamo trasformarlo nell’unica azione concreta e rivoluzionaria che potrebbe salvare il pianeta e noi stessi.

Preferiamo accumulare merda nei nostri corpi e nell’ambiente in cui viviamo, per finire poi per affogarci in questa merda, invece di lasciare almeno un poco la presa, ridurre il nostro egoismo sfrenato e lasciar fare all’unica vera saggezza che dovremmo imparare ad amare, quella della natura.