venerdì 20 ottobre 2017

Aikido, via del Respiro (III)



L’Aikido, via del Respiro





III

Il norito la mattina, boschi nel buio, la stella


Ogni mattina, durante il lungo cammino di quest’estate, che fosse nei paesi baschi, in Cantabria, nelle Asturias o in Galizia, che fosse la mattina prestissimo, quasi notte, o il giorno già pieno, non ho mai dimenticato di cantare il norito. Questa pratica, questo piacere nella presenza e nella condivisione della presenza, ha congiunto in me due cammini, quello “francese” quasi iniziatico del 2004 e questo del “Norte”, d’età matura, senza soluzione di continuità. Un filo vivo cantato ogni mattina dalla mia voce durante quei “primi passi necessari” e che si riannoda con questi “altri passi necessari” del 2017. Il prendere coscienza dell’esistenza di questo filo invisibile mi ha dato la sensazione di uscire dal tempo lineare. L’allora e l’oggi, mentre camminavo, erano strettamente uniti, fusi, vibranti nel momento presente.

Il norito è un'invocazione di origine shintoista tramandata e trasmessa nel passato quasi sempre oralmente. Lo shintō, a sua volta, è una forma di religiosità popolare giapponese non codificata fino al xx secolo, quando venne in qualche modo istituzionalizzata dal regime imperialista, che la utilizzò per veicolare il proprio messaggio nazionalista e affermare la supremazia di carattere “divino” del Giappone, esaltando la figura dell’imperatore, discendente diretto degli dei.

Prima, dalle origini fino al ‘900, lo shintō, come il taoismo in Cina, non poteva esser considerata una religione vera e propria, con una forma dottrinaria scritta e ben definita. Nasceva nella spontaneità popolare e si esprimeva attraverso feste e ritualità di carattere religioso legate alla vitalità, alla fertilità, alla natura. Il divino e le sue molteplici espressioni, i kami - gli dei -, si incarnavano in esseri umani, alberi, pietre ed era possibile sentirlo, toccarlo, esserne toccati. Si trattava di una forma di religiosità diretta, senza mediatori, nella quale l’uomo partecipava di un Universo di cui poteva sentirsi al contempo centro, strumento e parte integrante. Esprimendo tutto ciò in termini personali potrei dire che non esisteva separazione tra l’uomo e l’universo, tra l’uomo e dio, tra l’uomo e la natura.

Il norito è un inno alla vita e a chi la vive. Cantandolo o recitandolo, si entra in risonanza con la natura e si chiamano a raccolta tutti gli esseri e le creature divine, celesti e terrene, che la animano. La voce dell’uomo che la esprime, come la respirazione che la accompagna, diventano ponte tra un dentro e un fuori che finiscono per fondersi e riconciliarsi in una sublime unità.

Le parole del norito che oggi conosco e canto ci sono giunte da Itsuo Tsuda (1914-1984) che le recitava la mattina nel dojo di Parigi all’inizio di ogni seduta di Aikido. Un giorno, nel 1982, esse arrivarono anche nel piccolo dojo milanese di via Bezzecca trascritte a mano su un foglietto. Ricordo che Ombretta ed io ci mettemmo insieme, accovacciati per terra, cercando di leggere quelle parole senza alcun senso e di impararle a memoria. Nei giorni seguenti continuai a leggerle a casa e la memorizzazione fu rapida, senza particolari difficoltà.

Tsuda, per quanto ne so, non volle mai tradurre le parole del norito. Lasciava intendere però che bisognasse coglierle in quanto tali, per il loro suono. Che non fossero dipendenti e legate ad alcuna religione. Ciò che contava era il loro carattere universale, non che fossero espressione della cultura giapponese. Invitava alla pratica del norito, pratica dell’ascolto, più che alla sua comprensione; a cogliere la sua risonanza, a svuotarsi dall’interpretazione per lasciarsi penetrare dal suono, con semplicità e purezza d’animo.

Devo dire che per me, che sono aperto alla dimensione religiosa ma piuttosto refrattario, per il loro carattere invadente e moralista, alle religioni costituite, questo è stato un fattore determinante nel rendermi simpatico il norito: non dover aderire ad un credo già stabilito ma poter sentire dentro di me, in prima persona e senza filtri, una risonanza che mi univa a qualcosa di più grande e senza forma.
Sentire dove? Principalmente nel ventre e nell’hara. Ho sempre avvertito la vibrazione del norito nella pancia e in quello che sento come il mio Centro, che in Giappone viene chiamato hara, ancor prima che nel cuore o nel cervello.

Morihei Ueshiba, fondatore dell’Aikido, e Haruchika Noguchi, fondatore del Seitai, intendevano la stessa cosa, quando dicevano: “Io sono il Centro dell’Universo”.
Il corpo che siamo esprime questa universalità e, al contempo, l’unicità propria di ciascun individuo. Non siamo due, io e l’universo, bensì “Uno”, scissi solo in apparenza ma fondamentalmente e indissolubilmente uniti.

Per quanto riguarda l’Occidente, non c’è bisogno di tornare così indietro negli anni risalendo fino alla “Armonia Nascosta” di Eraclito per sentir parlare di un centro in cui i dualismi si dissolvono e gli opposti si congiungono. Anche Luis Cortázar, pochi decenni fa, con parole che mi ispirano molto - e molto più vicine al sentire occidentale - disse: “ (…) il Centro sarebbe quella dimensione nella quale l’essere umano, individuale e collettivo, può reinventare la realtà”.

Ritorneremo in seguito su centro e hara, così strettamente legati a ciò che, nella mia percezione, è Aikido. Per ora, mi limito a evidenziare che anche il norito possa essere definito come emanazione sonora di un centro, istante senza tempo – all’inizio del tempo? - in cui la realtà si reinventa e si ricrea.

Durante il cammino estivo, per recitare il norito, congiungevo le mani nel mudra che mi è stato trasmesso con la pratica: le dita si intrecciano, gli indici e i pollici si toccano. Nelle sedute di Aikido, Itsuo Tsuda, in seiza - seduto sui talloni - portava le mani unite davanti agli occhi in questo mudra, con i gomiti aperti ad altezza delle spalle e cominciava a recitare. Con la stessa gestualità recitava il norito anche Morihei Ueshiba, come si può vedere in alcuni filmati dell’epoca. Quest’estate, tuttavia, ho fatto una scoperta. Ci sono arrivato da solo, senza che nessuno mi desse indicazioni.

Stando in piedi, spontaneamente e mantenendo lo stesso mudra, con le spalle distese ho portato le mani al ventre, sopra lo hara. Mi sono accorto subito che questa postura, così semplice – come mai non l’avevo mai praticata prima? - ha una grande potenza e aiuta tutte le nostre energie a concentrarsi in una zona del corpo nella quale la vitalità si esprime in modo particolare. Il solo atto di porre così le mani mi faceva sentire a casa, in asse e in pace. Allora, nella quiete del mattino, solo in mezzo alle pianure, alle valli, ai boschi, lasciavo che il suono sorgesse e uscisse libero...

Cercando in una vecchia edizione italiana del Kojiki, antico libro che tratta dei miti e della cosmogonia giapponese, ho scoperto che il norito che recitava Tsuda – ne esistono diversi altri - si chiama Misogi no Harae. Misogi è un rituale di purificazione. In parole semplici, la storia di questo norito narra di Izanagi e Izanami, divinità maschile e femminile, e di come Izanagi, ritornando dal mondo degli inferi – in cui era sceso, come Orfeo con Euridice, per rivedere la sua Izanami - si lavi in un fiume, purificandosi. Da queste abluzioni, da ogni parte lavata del corpo, nascono nuove creature e vita.

Per Itsuo Tsuda, l’Aikido poteva esser inteso come una via di purificazione, di un’occasione per rendere più chiaro il nostro Ki, inserita in un percorso che definiva di “spoliazione”. L’idea di rafforzamento del Ki – per poterlo utilizzare con efficacia - gli era estranea, anzi credo proprio che la vedesse con ostilità e un certo disprezzo. Un percorso di spoliazione, come un lungo cammino, aiuta a lasciar cadere, abbandonare, liberarsi da tutto ciò di cui non necessitiamo veramente. E consente alla nostra vera natura di manifestarsi con più chiarezza. Il diamante che, secondo il buddhismo zen, esiste in ciascuno di noi ha solo bisogno di esser pulito e lasciato brillare in piena libertà. Non a caso, dal mio punto di vista, Tsuda recitava un norito di purificazione all’inizio della pratica mattiniera dell’Aikido. Esso si sposava così bene con il suo modo di intenderlo e praticarlo, con la sua filosofia pratica... L’ego del praticante, più che ingrandirsi all’infinito, “petit à petit”, poteva cominciare a ridursi.

La progressiva diminuzione dell’ego crea e lascia lo spazio necessario affinché si desti in noi una nuova sensibilità e il desiderio di avventurarsi nel grande mare dell’Aiki… Per il proprio bene e per quello di tutti.

Ma se nell’Aikido moderno, almeno nelle sue forme più diffuse e conosciute, si è scelto di scindere la pratica “marziale” da quella spirituale e di considerare quest’ultima quasi un di più, una parte strettamente personale e in fondo facoltativa, questa non è da considerarsi una scelta da poco. Essa porta con sé sicure conseguenze, nel senso anche di uno svuotamento della pratica stessa, perché ne vengono meno i fondamenti. Se chi parla di norito o di ki nell’ambito dell’Aikido viene oggi immediatamente guardato con sospetto o tacciato di esoterismo forse è perché qualcosa è andato perso, un filo si è spezzato.

Come parlare di Aikido “senza ki”? L’impressione è che ci si stia addentrando in un terreno davvero paradossale. Esigenze di carattere sociale, di gestione – del potere, delle federazioni e degli allievi – o di marketing stanno dietro a scelte molto riduttive e discutibili. Esiste un corpo senza spirito? Sí, quando giace privo di vita. Ci vorrebbero portare a credere che esista il pane senza glutine, il vino senza l’alcool o l’apprendimento del nuoto “stando seduti in poltrona” come amava dire Tsuda.

La dimensione del Ki, terreno del sentire e del sensibile, è la dimensione in cui l’Aikido vive e si manifesta. Ciò comporta, nel praticante, la necessità di un’apertura a ciò che avviene nell’invisibile e nell’immateriale. Spirituale e invisibile sono per me quasi sinonimi. Dire che esiste solo ciò che “si può vedere e toccare” – ricordate l’apostolo Tommaso? – o ciò che è misurabile, quantificabile, materiale, trasformerebbe questa pratica dai limiti indefiniti e sempre mobili in esercizio meccanico, formale, ripetitivo: in poche parole, almeno per quanto mi riguarda, in qualcosa di estremamente… noioso.

Forse però la causa di un certo impoverimento filosofico dell’Aikido moderno, oltre alla diffusa perdita di una sensibilità normale – quanto di ciò che accade nel mondo di oggi ci spinge e costringe all’insensibilità! - è l’ignoranza e la paura di ammetterla. Ci possiamo tuttavia chiedere perché il “non sapere” debba esser considerato un’onta quando si tratta solo di una sincera constatazione di una realtà. La necessità di rimuovere, cancellare, separare, tacere, nasce molte volte dal non voler riconoscere una fondamentale ignoranza.

Se appena si allargasse la visuale, potremmo scoprire con sollievo che “sapere di non sapere” è la più grande delle saggezze. Sembra però che ci sia ancora chi non lo abbia compreso o che non voglia riconoscerlo. “Sapendo di non sapere” ci si apre al nuovo e si dona nuova linfa al desiderio vitale dell’apprendimento. “Sapendo di non sapere” si scopre che è concepibile anche una via di conoscenza non razionale. “Sapendo di non sapere” si esce dall’ignoranza e la si vince: sembra un paradosso ma non lo è; anche se, lo ammetto, quest’ultima frase può apparire più come un koan zen che come un assioma…

Una parte dell’Aikido delle origini è andata senz’altro perduta. Forse però in questa parte risiede il senso profondo di questa pratica e, negare la sua esistenza, sarebbe un po’ come rifiutare la sua essenza, buttare via il bambino con l’acqua sporca. Credo che, per ogni praticante che voglia addentrarsi nei segreti – nei misteri? Nei piaceri - dell’Aikido, sia lecito porsi molto seriamente questa domanda.


***

Luci nella notte.
Quella mattina del 22 agosto sono partito prestissimo, il buio era ancora profondo.
Pensare che da piccolo lo temevo, il buio, ora invece mi cullava.
Era caldo, avvolgente, denso…
Questa calma che sentivo, era forse perché in me avvertivo ancora il chiarore dell’eclissi del sole che avevo visto la sera prima?
Un sole che poi si trasformava in due soli… poi in tre. Una festa di luce tra le nuvole dorate.
Solo, mi sono addentrato nel bosco galiziano dove niente si vedeva e mi sono mosso con l’allegria nel cuore finché, ad un certo momento, sono sbucato in una radura in cui il paesaggio si apriva.
Il cielo era limpido, le stelle splendevano ovunque.
Alle mie spalle riluceva con tutta la sua forza Venere: la presenza insistente e protettiva che ha questo pianeta di mattina è davvero sorprendente. Ogni giorno del cammino ha guidato i miei passi nel buio, coprendomi le spalle e indicandomi una via.
Ai miei lati, a sinistra come a destra, vibravano gli alberi della foresta, pieni di presenze.
Si stagliavano dritti e scuri nello sfondo notturno oscuro.
Sentivo come se mille occhi mi stessero osservando, mille orecchie fossero in ascolto.
Esseri di origine varia e misteriosa, vivi e invisibili, ma anche terribili ed esigenti.
Ed io che camminavo silenzioso, piccolo grande uomo immerso nella natura, corpo in movimento.
Ecco, ora giunge il momento del norito, il momento di innalzare la mia voce, di cantare la vita.
L’invocazione si presenta da sé, non si ha da cercarla, viene sempre opportuna.
È chiaro che ciò che la suscita sia una necessità interiore.
Per chiamare a raccolta tutto ciò che già vibra intorno, per portare al ventre tutta questa vita, batto forte le mani, due volte, all’inizio come alla fine.
In un silenzio assordante ho cantato a voce alta, con intensità e con piacere.

“Takama no hara ni kamu zumarimasu
     Kamurogi Kamuromi no mikoto mochite…
        (…)        Amatsu kami kunitsu kami yaoyorozu no kamitachi… (…)”
E altre bellissime parole e suoni…

Sono vivo e sono l’Universo che si canta.
Sento fino in fondo la pienezza del momento.
Poi chiudo questo momento magico con altri due battiti di mani.
E subito, la Stella appare e risplende!

Davanti a me, appena le mie mani avevano smesso di risuonare, una luminosissima stella cadente aveva attraversato tutto l'orizzonte ed era scesa proprio nella direzione del mio cammino…
Lunga, dolce, luminosa, era la prima che vedevo in tutto il mio cammino di agosto.
Non saprei dirvi, ora, quanto forte sia stato l'effetto che questo segno, così chiaro e così propizio in quell’istante, ha avuto su di me.
Ho sentito che stavo andando nella direzione giusta, senza margini per alcun dubbio.
Gratitudine per la stella che brilla dentro e fuori di me…


( ottobre 2017 )



martedì 10 ottobre 2017

Aikido, Via del Respiro (II)



L’Aikido, via del Respiro



II

Risvegli, senso di libertà e entusiasmo


Il portoncino di legno di via Castelfidardo 2 sbatte pesantemente perché esco correndo e non lo accompagno. Non ce n’è il tempo e mi tuffo in quella che è ancora notte milanese. Percorro un isolato e poi i miei occhi vanno lontano, cercando di scorgere la 96 che, da un momento all’altro, dovrebbe attraversare Largo La Foppa, in fondo alla via Moscova. Ecco che la intravedo, illuminata e silenziosa. Non mi resta più molto tempo, posso solo correre a perdifiato per duecento metri di via Solferino e sperare di prenderla al volo, all’angolo di Largo Treves. Ho diciassette anni e le mie lunghe gambe vanno veloci. Sono certo di potercela fare e, infatti, ansimante e al limite delle mie forze, riesco a salire i gradini dell’autobus prima che la porta si rinchiuda e posso lasciarmi cadere su un sedile libero. Prendere il primo autobus delle 6.20 mi consentirà di partecipare alla seduta di Aikido fin dal suo inizio, perderlo sarebbe sinonimo di ritardo e frustrazione e, questo, proprio non lo voglio!

Tanti anni dopo, non mi costa alcuna fatica alzarmi e uscire prima, arrivare agli appuntamenti con il tempo necessario per viverli tranquillamente, prepararmi con lentezza e respirare. Negli anni giovanili però… tutto si giocava in un attimo, tutto all’ultimo istante, le mie energie erano proprio differenti! Eppure io non sono forse sempre lo stesso? Posso dire che qualcosa sia davvero cambiato in me?

Nell’autobus delle 6.20 ci sono sempre le stesse persone, una piccola famiglia di passeggeri e lavoratori che si ritrova ogni giorno. Ecco, a questa fermata salirà tal persona – oggi non c’è, che strano! – all’altra la signora che parla tanto e a voce alta… Insomma, si va avanti così, con paesaggi umani che si ripetono, persone che ancora dormono in piedi, altre che prendono la giornata con leggerezza fin dal suo inizio.

Io invece vado all’Aikido e me ne sento fiero.
È una mia scelta consapevole, non sono costretto ad alzarmi così presto, lo faccio per puro piacere.
E questa fatica, questo sforzo – buttarsi fuori da un piumino caldo per trovarsi nudi in una stanza poco riscaldata – hanno tutto il loro senso nel mio cuore e nella mia mente. Invito me stesso, quando nessuno mi obbliga, a un risveglio dal sapore dolce. Comincio a scoprire, pian piano, che anche nella difficoltà sta il gusto della vita. Sono primi passi di una via che porta all’autonomia, lo sento e lo spero.

Scendo all’angolo di Corso di Porta Vittoria, davanti alla biblioteca Sormani. Ho poco più di dieci minuti per arrivare alla palestra di via Bezzecca, una parallela di via XXII marzo, che è quindi ancora lontana. La seduta comincerà alle 6.45, non rimane che affrettarmi, senza pensarci troppo.
Ma anche oggi, che fortuna, scorgo la piccola 126 bianca di Giuseppe e Ombretta che sbracciando mi fanno segno di raggiungerli. Ancora una volta siamo passati dallo stesso incrocio nello stesso momento. Riesco a infilarmi nel minuscolo abitacolo della FIAT e allegramente andiamo insieme alla pratica: adoro i passaggi di prima mattina e anche loro sembrano contenti di raccattare un giovanissimo entusiasta che vaga nella notte per raggiungere pochi vecchi tatami di gomma verde che però profumano di libertà.

Tatami gelati, accidenti, perché in quella palestra di un qualsiasi sottoscala milanese manca più di un vetro e gli spifferi invernali sembrano la bora nelle vie triestine. C’è una piccola stufetta elettrica, accesa al massimo, ma scalda quasi solo la vista. Poco importa però, posso scaldarmi muovendomi e poi… ho scoperto l’Aikido e lo amo alla follia. Com’è che non lo amano tutti con la mia stessa intensità? Sarà forse che non lo conoscono?


Il viso di Yao rimane quasi impassibile mentre gli scuoto i piedi delicatamente. “Yao, è l’ora dell’Aikido, è il momento di alzarsi…”, è sempre difficile svegliare qualcuno che dorme, quasi inumano. Per questo lo faccio solo se la sera prima la decisione è stata chiara: “Sì, svegliami, io vengo”. Per ora, Yao è sempre stato convinto nelle sue risposte e, nel dire che verrà, un piccolo sorriso si dipinge sulle sue labbra. Pregusta qualcosa che gli procura piacere, è questo ciò che conta e rende meno ingrato il mio compito di svegliarlo.

Passo su e giù le mani sulle sue braccia, fino alle spalle: i suoi occhi sotto alle palpebre chiuse si muovono appena e poi si aprono poco a poco. Il corpo si raddrizza e lui si siede sul letto. È l’inizio un po’ insolito di una nuova giornata. Seppur dormendo riesce ad alzarsi e, non si sa come, a restare in piedi!

Chissà se dentro di sé sente una differenza tra quando si alza per andare all’Aikido e quando si alza per andare a scuola? Io la sentivo eccome: nel primo caso ero attore e artefice del mio risveglio, sceglievo il mio presente, nel secondo mi adeguavo a una realtà che non poteva essere altrimenti.

Nei giorni in cui, la mattina presto, partecipavo all’Aikido in via Bezzecca, giungevo poi al Liceo Berchet di via Commenda quasi all’ultimo momento prima che le porte chiudessero, mi sedevo nei banchi in fondo alla classe e, con l’animo in pace, mi addormentavo rilassato. È successo davvero, non una ma tante volte. Nessun senso di colpa, dormire è magnifico, salutare e rigenerante: almeno quanto lo è l’Aikido!

Nel dormiveglia usciamo da casa, Yao ed io, ci infiliamo nella metropolitana e viaggiamo senza scambiarci troppe parole. Io, con spirito un po’ paterno, mi chiedo cosa pensi, come viva questi momenti, se gli rimarranno come ricordi significativi quando sarà più grande. Lui, chissà dove vaga la sua mente, vede e pensa cose tutte sue, in fondo non mi riguarda proprio. È sua la vita che incontra la mia solo per qualche attimo, anche se so bene che gli attimi, senza quasi che ce ne si accorga, possono rapidamente trasformarsi in anni. Mi preme una cosa però, che questi momenti trascorsi insieme possano essere momenti di libertà, vissuti con serietà, pienezza, semplicità. Poi, ora o più tardi, li elaborerà a suo piacere e con i criteri che riterrà più opportuni.

Anche questa estate, a Seix, che gusto quando scendevamo tra campi e alberi nella bruma del primo mattino, a volte umido e piovoso, a volte soleggiato, per raggiungere dopo un cammino di almeno venti minuti il dojo dello stage estivo. Yao, trascinando improbabili infradito, così scomode per camminare un po’ a lungo, ma interiormente tutto felice di poter ritrovare entro poco tempo uno spazio aperto e accogliente che ha nel centro una porta che si apre sul torrente di montagna. In quel luogo del possibile, un dojo, potrà volare ancora una volta, sopra, sotto, in mezzo agli altri praticanti.

Sì, ha quindici anni, Yao, e gli piace volare, proprio come piaceva a me, allora, e continua a piacermi oggi. Un giorno ha detto che apprezza l’Aikido perché si sente libero di poter essere tutto ciò che vuole. Di prendere tutte le forme. Che differenza c’è con Itsuo Tsuda che diceva di amare l’Aikido perché gli consentiva di uscire dalla propria pelle, di superare i limiti del corpo per unirsi a qualcosa di molto più grande di lui? A mio avviso, almeno nel fondo, nessuna. Solo due linguaggi diversi, espressione di due maturità diverse. Due coscienze, due culture, due corpi – uno, quello di un settantenne con lo spirito di un giovane, l’altro quello di un giovane che ieri era ancora un bambino – eppure uno stesso desiderio: quello di sentirsi interiormente liberi.

Il corpo di Yao, quando è arrivato al dojo pochi mesi fa, assomigliava a un giovane giunco di bambù. Lo piegavi in un senso o nell’altro e prendeva la forma che gli davi. Flessibile, elastico… e vulnerabile nella sua fragilità. Un amalgama di giovinezza e vitalità ma anche di sensibilità ferita e di tonicità che si è smarrita da qualche parte per chissà quale motivo e vissuto. Praticare con lui e vederlo praticare con gli altri mi ha fatto molto riflettere.

È così facile per un adulto, per un genitore, per un insegnante, formare, deformare, raddrizzare, storcere, plasmare, spingere, tirare, istruire, influenzare il corpo di un giovane, di un bambino, di un bebè. In nome di un bene possibile, di un’idea educativa, di una convinzione dettata dalla buona fede. Finiamo tutti per fare così, in un modo o nell’altro, quando, immancabilmente, viene meno il rispetto per ciò che ciascuno è e ci si lascia guidare solo da ciò che vorremmo che qualcuno diventasse. Non confidiamo abbastanza in ciò che è già in essere, sotto ai nostri occhi che però non sempre vogliono vedere, e mettiamo tutta la nostra volontà, il nostro impegno e il nostro lavoro al servizio di un futuro immaginario che non sarà mai come lo abbiamo pensato prima.

Incoscientemente, nell’incoscienza delle conseguenze che ciò comporta, condizioniamo la vitalità dei nostri piccoli e di chi amiamo. Li pieghiamo ai nostri desideri e alle nostre paure. Diamo un sistema alle loro esistenze, seguito poi da un altro e poi da altri ancora che loro stessi finiranno per darsi, perché non sappiamo vedere né riconoscere che la vita, indipendentemente dal nostro intervento educativo, protettivo, formativo, possiede già una struttura solidissima e una capacità di auto-regolazione ed equilibrio funzionale che si sono perfezionati e sono stati messi alla prova da millenni di evoluzione umana, animale e vegetale.

Quale sia questa struttura fondamentale della vita e in che modo unico e particolare essa si esprima, attraverso il movimento spontaneo, nel corpo di ciascuno, ecco due domande che mi accompagnano da tempo e che sono più che presenti quando mi viene incontro, sui tatami, un giovane – o vecchio, d’altronde che differenza fa? – praticante di Aikido. Le neuroscienze moderne, cito volentieri André Stern che ne parla diffusamente, ci dicono che gioco e apprendimento sono strettamente connessi e addirittura inscindibili. Che l’entusiasmo è il motore di profondi processi evolutivi. Un giovane è per me chi è capace di entusiasmo, a quindici come a novant’anni. Anche Itsuo Tsuda, quando doveva definirlo, ci diceva che l’Aikido è l’arte di “essere bambini senza essere puerili”: bambini di ogni età capaci di entusiasmo, di visualizzazione, di azione viva e spontanea. Niente a che vedere con la tecnica, la progressione, i risultati… ma di questo parleremo in seguito.

Eccolo che entra sui tatami, Yao, silenzioso e piuttosto discreto. Con la coda dell’occhio vedo che, rispetto a mesi fa, si muove in modo nuovo, è tutto un po’ più dritto, più in asse, meno traballante. Guarda davanti a lui e non solo i suoi piedi. Sta facendo tutto da solo, viaggia nei suoi paesaggi, segue il suo desiderio. Io c’entro poco, gli dico il meno possibile, mi basta vedere il suo sorriso che si accende qui e là. Ogni volta che vola.

( ottobre 2017 )




lunedì 9 ottobre 2017

Aikido, Via del Respiro (I)



L’Aikido, Via del Respiro
Possibile praticarlo fuori dal sistema scolastico?



I

Il cammino, i maestri e quello che ti dice il tempo

La prima volta che ho provato concretamente ad uscire dal sistema scolastico è stata quando, a 23 anni, a due esami dalla fine e a tesi di laurea in corso, ho lasciato l’Università di Venezia. Questa decisione, che maturava già da un certo tempo, è stata chiara, senza esitazioni e non ha mai dato adito a rimpianti in seguito.

Lasciai la facoltà di lingue orientali (corso di Giapponese) dove per quattro anni mi ero appassionato studiando cultura, storia, letteratura e filosofia dell’estremo oriente – materie tutte da scoprire per me – e scrissi una lunga lettera ai miei insegnanti dell’epoca per motivare il mio passo.

In sintesi, dissi loro che li ringraziavo molto ma che “non volendo più giudicare né essere giudicato” mi tiravo fuori da un sistema, basato sugli esami e sui giudizi, che ormai mi stava stretto. Non ci credevo più e anzi contestavo con veemenza questa prassi selettiva e livellante: i migliori avanzano, quelli che non ce la fanno abbandonano sconfitti e frustrati. Sognavo un altro rapporto all’educazione e all’apprendimento: se non per me almeno per i miei figli. Me ne andavo per convinzione e non per scarsi risultati; la mia media era alta e mi sarei laureato con il massimo dei voti nei tempi giusti.

Volevo anche uscire una volta per tutte da un contesto, quello scolastico per eccellenza, in cui invece di favorire una conoscenza viva che si rinnova costantemente per puro piacere dell’apprendimento viene proposto e imposto un sapere accumulato e tramandato nel tempo, spesso troppo nozionistico, stanco, vecchio. Un sistema in cui, da una parte - sopra -  stanno gli insegnanti, rappresentanti riconosciuti di questo sapere, dall’altra - sotto - stanno gli studenti che vanno formati e riempiti di “conoscenza”.

Allora come adesso, digerivo a fatica la malsana consuetudine che in luoghi collettivi le persone debbano essere separate in base a livelli e a ruoli. Lo trovo un modo rigido e innaturale di relazionarsi, non rispondente alle complesse realtà individuali. Una facilitazione sociale, probabilmente sì, che favorisce però solo questo modello di società e di convivenza portando necessariamente all’appiattimento e all’impoverimento della persona nella sua unicità. 

Ricordo che la mia decisione, nella cerchia familiare, degli amici e dei docenti universitari, destò una certa emozione. Non furono molti che lo approvarono e in tanti, invece, cercarono di convincermi a fare retromarcia. Una volta, per esempio, accadde che in una cena tra studenti e amici una ragazza venne colta da una vera e propria crisi di nervi quando parlai della mia scelta: a quanto pare la metteva in grande agitazione. Feci del mio meglio per rincuorarla ma non ci fu verso, in seguito cancellò il mio nome dalla cerchia delle sue frequentazioni.

 Per contro, rammento bene una discussione con mio padre che, pur non condividendo quello che facevo ed esprimendo la sua fondata preoccupazione, espresse anche la sua ammirazione in quanto, in qualche modo, sarei riuscito a “tirarmi fuori dal tunnel”.

Ne sono poi davvero uscito, dal tunnel? Questo rimane tutto da vedere ed è una domanda che mi pongo costantemente insieme ad un analogo interrogativo espresso con parole diverse: cosa significa essere davvero libero? Quella decisione presa allora, tuttavia, rimane indiscutibilmente come un passo importante verso la mia libertà interiore, quella che si conquista e si coltiva giorno per giorno. Quella alla quale da sempre aspiro.

Lasciata l’Università, compresi subito come non basti abbandonare la scuola per uscire dall’influenza della scolarizzazione: i condizionamenti ricevuti dall’infanzia in poi, di qualunque natura essi siano, richiedono un tempo più o meno lungo per dissolversi e lasciare lo spazio a qualcosa di più autentico. Il tempo, tuttavia, da solo non basta per cancellare il condizionamento: esso fa bene il suo lavoro se intraprendiamo un cammino attivo e costante di osservazione di sé che possa sviluppare in noi un’effettiva consapevolezza.

Per un certo tempo, infatti, dopo aver chiuso con l’Università, caddi nel tranello di un pensiero condizionato: “Poiché non studio più, allora devo lavorare!”. Non studiare e non lavorare significava mettersi in una scomoda situazione, non ben definita socialmente. Una situazione di pauroso vuoto che faceva vacillare perfino la mia identità. Per fortuna tenni duro e seppi conquistarmi un tempo e uno spazio per l’appunto vuoto in cui potesse emergere da sé una via da seguire e il manifestarsi di una mia autentica identità. Ero sufficientemente forte per consentirmi la mancanza di risposte immediate, il dubbio, l’ascolto del mio reale bisogno. Ero anche molto fiducioso nelle mie potenzialità e soprattutto nella forza della vita che in tutti noi scorre incessantemente.

  Finiamo tutti per avere un certo ruolo, una certa posizione nello scacchiere della società in cui viviamo. Anche nostro malgrado siamo costretti ad assumerne uno “presentabile”: è un fatto che tutto ciò che sfugge all’inquadramento, desti timore e diventi un potenziale elemento di squilibrio nel vivere collettivo organizzato. Una definizione di chi “siamo” ci viene richiesta o imposta: studente o lavoratore, impiegato o libero professionista, integrato o marginale ecc. Invece di chiedere “Chi sei?” a una persona adulta, preferiamo chiedere “Che lavoro fai?”. A un bambino chiediamo invariabilmente “Che classe fai?” come se definire il suo livello scolastico fosse l’elemento fondamentale per poterlo conoscere.

Intorno ai trenta anni, amavo rispondere provocatoriamente alla domanda “Che lavoro fai?” dicendo “Sono un libero non-professionista”. Essere libero era ciò che mi premeva di più e sentivo il bisogno di affermare la mia libertà ribellandomi a ciò che poteva ostacolarla: volevo combattere pacificamente il sistema cullando dentro di me l’immagine di un ideale anti-sistema. Ero giovane e pieno di sogni ma non ero ancora capace di reale autonomia e indipendenza.

Iniziai a praticare l’Aikido a sedici anni, pochi mesi dopo aver cominciato a praticare la pratica del Katsugen undo (movimento rigeneratore). Queste due pratiche, fondendosi e compenetrandosi, mi hanno accompagnato, strettamente connesse, per tutta la vita fino ad oggi.

Mi appassionava in quel tempo la filosofia orientale, la ricerca del sé, il risveglio personale. Venivo da anni d’intensa, vissuta, competitiva attività sportiva che lasciavo consapevolmente alle spalle: avevo già vinto (e poi perso) tutto il possibile, godendo appieno dei successi e soffrendo a volte anche moltissimo per le sconfitte che, a partire da un certo momento, cominciarono a moltiplicarsi. Ero alla ricerca di un altro rapporto con il mio corpo e il suo movimento, di possibilità diverse di muovermi insieme agli altri senza la necessità di prevalere, di misurarmi, di competere. Già allora, infatti, ero consapevole che la riuscita non era la meta alla quale ambire eppure ci misi anni - direi circa una trentina - per scoprire che non volevo più diventare qualcuno ma che era di per sé più che sufficiente semplicemente essere quello che sono. Delle arti marziali, quando iniziai, non sapevo niente, fino ad allora non avevano mai suscitato il mio interesse.

La scoperta dell’Aikido rappresentò per me una vera rivelazione. Fin dalla prima volta che lo vidi e lo praticai fu per me come un ritorno a casa, come ritrovare la terra sotto ai piedi. Va da sé che la cosa mi riempì di felicità e che mi gettai con enorme entusiasmo in questa nuova avventura. Anche mia madre Susi, che seguiva con attenzione i miei passi, se ne accorse. Infatti, lei che aveva pur cominciato con molto piacere a praticare, smise per lasciar continuare me da solo. Non so quanto le costò questa rinuncia ma credo che diede ascolto a una sua intuizione: voleva che trovassi da solo la mia strada. Pochi anni dopo, le ultime parole che mi disse prima di lasciare questo mondo furono: “Continua l’Aikido!”. Esse continuano tuttora a risuonare in me.

In quei primi anni, se dovevo parlare dell’Aikido, mi piaceva ripetere una delle definizioni che ne diede Itsuo Tsuda: l’Aikido può esser visto in tre modi, come sport, come arte marziale, come ricerca interiore. Per quanto mi riguarda, ovviamente propendevo per l’Aikido della ricerca interiore. Ancora adesso in fondo la penso così anche se nel mio sentire queste tre cose non sono antitetiche o in conflitto tra loro. A ben vedere, tutte queste tre componenti sono coesistite nella mia pratica e forse se ne potrebbe aggiungere anche qualche altra. Hanno solo avuto un peso e un’importanza diversi secondo il periodo. Ritornerò in seguito su questo punto perché trovo piuttosto povero il discorso di chi sostiene che l’Aikido sia una cosa e non un’altra (per esempio un’arte marziale e non una via spirituale oppure un esercizio del corpo e non un esercizio dell’anima ecc.) cadendo così nelle solite dicotomie dualiste. Aikido, via che manifesta le infinite relazioni visibili e invisibili che esistono nell’universo, è espressione di una realtà complessa, individuale e collettiva: ciascuno di noi lo vive e se ne serve in maniera personale e unica per crescere e trovare un proprio equilibrio.

Anche l’immaginario personale rispetto a questa pratica cambia ed evolve nel tempo. Se così non fosse, se non ci fosse un’evoluzione, una comprensione che mutando si approfondisce e uno slancio che si rinnova periodicamente, non sarebbe possibile continuare senza “fossilizzarsi”. Ci annoieremmo e sospenderemmo la pratica per cercare altrove, il che, peraltro, a molti accade spesso.

Facciamo un passo indietro e ritorniamo alla definizione di Aikido come sport, arte marziale e ricerca interiore. Posso dire che della pratica sportiva ho sempre coltivato anche nell’Aikido il piacere del gesto coordinato, pulito e possibilmente bello da vedersi; ho sempre adorato il dinamismo delle cadute in avanti e indietro; e anche dato il giusto valore al buon esercizio fisico attraverso lo studio e la consapevolezza dei movimenti.

Arte marziale è stata invece per me sinonimo di cultura (la conoscenza del Giappone e delle sue tradizioni che per tanti anni mi hanno appassionato e hanno nutrito il mio immaginario) ma anche di rigore e di rispetto verso me stesso e verso gli altri. Se nella pratica sportiva giovanile, precedente all’Aikido, c’era un evidente bisogno di prevalere, l’occasione di praticare un’arte marziale ha risposto al mio bisogno di confrontarmi, di misurarmi senza più competere. Con l’arte marziale ho potuto scoprire, anche con un certo sforzo, che l’avversario non sta più al di fuori di noi ma dentro, che non gareggi con il tuo compagno di pratica ma che puoi essergli grato per il cammino che si riesce a fare insieme.

Ricerca interiore è tutto il resto, la parte nascosta dell’iceberg, il motore fondamentale che ti accompagna in tutto il percorso dell’esistenza. Espresso in altri termini essa è orientamento profondo, capacità di dare una direzione centripeta a tutto ciò che viviamo, dialogo autentico e onesto con il proprio Sé. E soprattutto, apertura e ascolto.

Lasciando l’Università, pensavo di lasciarmi la scuola alle spalle. In realtà ciò fu vero solo in parte. Infatti, uscivo definitivamente dalla scuola come istituzione ma entravo senza esserne troppo consapevole in un’altra forma di scuola: la scuola di un maestro. La prima esperienza scolastica durò una ventina di anni e così… anche la seconda! Molto probabilmente entrambe durarono un po’ troppo ma così va la vita, ciascuno ha bisogno dei suoi tempi e non si possono bruciare le tappe anche se lo si vorrebbe.

La scuola di un maestro, il seguirlo, è forse un passaggio necessario in un determinato periodo della propria vita. Per me lo è stato e non ne sminuisco l’importanza. La relazione tra maestro e allievo nasce da un incontro: entrambi si cercano e, un bel giorno, non per caso, l’incontro la rende possibile. La qualità di questa relazione dipende da uno e l’altro: se non si tiene viva l’attenzione facilmente scade e degenera.

Com’è facile intuire, il rapporto che viene a crearsi tra maestro e allievo è stretto e va a toccare sfere delicate della vita di entrambi. È necessario mantenere delle sane distanze e procedere con cautela perché se i frutti che ne possono scaturire sono molti e diversi è vero anche che, se viene a mancare la consapevolezza, si fa in fretta a cadere nelle conseguenze negative, nel danno, nelle sofferenze.

Non intendo affrontare qui la mia personale vicenda con la persona che allora consideravo un maestro, il mio maestro, perché ciò richiederebbe troppo spazio e mi porterebbe fuori tema. Se sarà necessario, potrò farlo forse in seguito in un contesto più specifico. Di sicuro, il mio vissuto ha contribuito a formare il mio pensiero attuale e costituisce una chiara linea guida rispetto a come agisco e intendo agire nel futuro: so cosa vorrei si ripetesse ma soprattutto cosa non voglio che si ripeta nella mia relazione con altre persone o con chi pratica con me.

Un buon maestro è tale perché fornisce delle chiavi di lettura e degli strumenti, nutre le differenze e le unicità, soprattutto sa dove sta andando e da dove viene. Come un uccello vola davanti e gioisce il giorno in cui l’allievo vola altrove e per la sua strada, in un’altra direzione. Quest’ultima immagine mi è stata offerta all’inizio del 2005 da Sotigui Kouyaté in un momento in cui attraversavo una profonda crisi. Egli mi ha fatto intuire che alla fine di un percorso lungo e complesso come quello della nostra vita c’è una libertà infinita. Mi ha detto anche, quando dubitavo delle mie capacità: “Devi continuare a dire ciò che hai da dire attraverso l’Aikido, con la fierezza di un animale selvatico”.

Poche parole, se dette al momento giusto, bastano per rimettere in piedi un uomo che fatica a rialzarsi. Anche questo può fare un buon maestro.

Un cattivo maestro crea invece confusione di ruoli e dipendenza affettiva, è attaccato a un potere che è incapace di cedere, non favorisce una libertà futura ma la teme. Chi lo segue tende a vedere in lui la verità incarnata o colui grazie al quale alla verità si può arrivare. Un falso maestro si culla in questa consolazione che conferisce senso a tutto il suo operato e comprensibilmente non fa nulla per risvegliare l’allievo da questa illusione: anzi l’alimenta per tenerlo stretto a lui. Risultato: due prigionieri invece di due uomini liberi.

Nessuna strada porta alla verità, questo conviene saperlo e dirlo fin da subito.
Una verità univoca e immutabile non esiste, ne consegue che nessuno possa farsene portatore né sostenere di essere in grado di definirla o possederla.
La verità della realtà è qui e ora, brilla d’istante in istante assumendo infinite forme diverse. Può essere colta, intuita, sentita ma non trasmessa.
Riluce negli occhi e nei corpi di tutti gli esseri che vivono in questo stesso momento.
Quindi mai fidarsi di un maestro che si definisce tale e che invita qualcuno a seguirlo per più di dieci passi. All’undicesimo cadrete insieme nel burrone.
Un buon maestro sa di poterlo essere solo transitoriamente, in un momento particolare, con una persona particolare, in una situazione particolare.
Egli sa anche di non sapere e fonda la relazione con i praticanti affermando apertamente questa semplice verità.

Talvolta i maestri sono solo piccoli maestri. Avviene quando incarnano uno spirito in fin dei conti banalmente scolastico da cui non aspirano allontanarsi. Quando pensano di poter insegnare e trasmettere una conoscenza stabilita e valida per tutti. Quando cioè non educano più a un pensiero libero e felicemente divergente ma, nonostante a parole affermino il contrario, conducono chi li segue ad un pensiero unico e conformista. Ciò appare evidente quando si guarda l’ambiente in cui operano: gli allievi cominciano a temere di dire o fare la cosa sbagliata, non osano più esprimersi con la propria voce per paura di essere ripresi. Per questo la nostra società è popolata da molte persone che ripetono ed eseguono e da poche che creano sviluppando appieno le proprie potenzialità. Il meccanismo scolastico è diffuso e comune.

Nel 2004, ho lasciato volontariamente la scuola per la seconda volta ed è stato quando mi sono allontanato da un contesto di questo tipo e dal maestro che lo suscitava. La mancanza di respiro mi faceva soffocare, la mia parola languiva, tutto il mio essere tremava nell’incertezza, nel dubbio, nell’insoddisfazione. Ovviamente la mia pratica, in tutte le sue forme, era in quel periodo sclerotica e spenta, l’Aikido mancava di slancio e di gioia, il movimento spontaneo era bloccato da un eccesso di coscienza e di sofferenza mentale. Dovevo tirarmene fuori, da solo, per sopravvivere e forse per ricominciare a vivere. E camminare facendo affidamento ai miei piedi, alle mie gambe, al mio cuore. Penso di esser diventato un uomo adulto proprio in quei giorni.

Dal punto di vista dell’Aikido i vent’anni con un maestro sono senz’altro serviti a qualcosa. Meno male direte voi… e mi aggiungo al coro tirando un respiro di sollievo. Il contrario, per analogia, sarebbe come affermare che tutto ciò che è avvenuto nell’infanzia dietro ai banchi di scuola sia stato soltanto inutile, privo di interesse, negativo. Dei miei primi e dei miei secondi vent’anni “scolastici” conservo invece moltissimi ricordi felici, allegri, fecondi. Ho sicuramente imparato tanto. Non importa dire che avrei sicuramente imparato altrettanto anche seguendo percorsi diversi: è andata così.

Incontrai il maestro circa due anni dopo aver cominciato l’Aikido. Fin dalla prima volta che lo vidi muoversi sui tatami mi si spalancarono delle porte interiori: vidi quello che da molto tempo stavo cercando e seppi con certezza che volevo farlo anche io. Mi ci vollero però troppi anni per capire che ciò che mi toccava e risvegliava in me un dragone sopito non era lui ma qualcosa di più grande che attraverso di lui prendeva forma. Mi creai un idolo e per lungo tempo non seppi vedere oltre. Poi un bel giorno scoprii l’importanza delle icone che lasciano intravedere ciò che sta aldilà. La Vita e il divino pulsano dietro alla forma.

L’Aikido, come tutte le arti, ha il proprio linguaggio e i propri codici. Ero quasi un principiante e li conoscevo solo grossolanamente. L’apprendistato con il maestro servì anche a questo, a darmi delle solide basi e a scoprire come padroneggiare i codici di questa pratica che amavo tanto. Il suo insegnamento fu generoso e non frammentato o distillato con il contagocce. Dal canto mio ero veramente assetato di apprendere e mi impegnai a fondo: “rubai” anche molte cose che non possono essere trasmesse. Per avvicinarmi il più in fretta possibile al mio Aikido, quello che portavo dentro.

Nel 2004 ruppi con il maestro e lasciai quella che era stata la mia casa di pratica per molti anni. Si stava trasformando in una scuola ben strutturata, con livelli e gerarchie e un generale appiattimento delle differenze. Non mi riconoscevo più in quell’ambito in cui tutto finiva per perdere di spontaneità. Inoltre mi veniva insistentemente chiesto di “posizionarmi”, di chiarire il mio ruolo nella struttura. Trovavo tutto ciò asfissiante e insopportabile. Lontano dalla libertà che desideravo e speravo. Il taglio fu netto e finora non ho mai rimpianto di essermene andato per la mia strada.

Per circa sei mesi, tra il 2004 e il 2005, sospesi la pratica dell’Aikido. Ero sfiduciato e disilluso, non credevo più in me né nelle mie possibilità. Dopo una parentesi all’estero, dove cominciai a praticare il Taiji quan, ritornai, mio malgrado, a Milano. Una mattina, decisi che avevo bisogno di riprendere, mi alzai e sui tatami di casa feci la pratica respiratoria (la prima parte dell’Aikido).

Così continuai a fare tutte le mattine seguenti: senza un orario definito, al risveglio, praticavo da solo l’Aikido. Dopo qualche tempo, si fece spazio in me una decisione. Avrei ripreso l’Aikido e sarei andato in una qualsiasi palestra per praticarlo - in quel momento una valeva l’altra. Quello che successe subito dopo è piuttosto sorprendente: appena presa la decisione arrivò una proposta da un’amica, Monica, che mi invitava a prendere in affitto uno spazio e fondare un’associazione con lei e altre due ragazze. Tutto avvenne con facilità e non passò molto tempo prima del giorno in cui furono posati i tatami nel nuovo Dojo.

Nacque così A ke lei naa dojo, dove ancora oggi pratico. Senza troppa preparazione, con una certa leggerezza, si realizzava un sogno che mi portavo dentro da molti anni. Non rimaneva che rimboccarsi le maniche e aprire questo nuovo capitolo. 

maggio 2017