L’Aikido, Via del Respiro
Possibile
praticarlo fuori dal sistema scolastico?
I
Il
cammino, i maestri e quello che ti dice il tempo
La prima volta che ho provato
concretamente ad uscire dal sistema scolastico è stata quando, a 23 anni, a due
esami dalla fine e a tesi di laurea in corso, ho lasciato l’Università di
Venezia. Questa decisione, che maturava già da un certo tempo, è stata chiara,
senza esitazioni e non ha mai dato adito a rimpianti in seguito.
Lasciai la facoltà di lingue orientali
(corso di Giapponese) dove per quattro anni mi ero appassionato studiando
cultura, storia, letteratura e filosofia dell’estremo oriente – materie tutte
da scoprire per me – e scrissi una lunga lettera ai miei insegnanti dell’epoca
per motivare il mio passo.
In sintesi, dissi loro che li
ringraziavo molto ma che “non volendo più giudicare né essere giudicato” mi
tiravo fuori da un sistema, basato sugli esami e sui giudizi, che ormai mi
stava stretto. Non ci credevo più e anzi contestavo con veemenza questa prassi
selettiva e livellante: i migliori avanzano, quelli che non ce la fanno
abbandonano sconfitti e frustrati. Sognavo un altro rapporto all’educazione e
all’apprendimento: se non per me almeno per i miei figli. Me ne andavo per
convinzione e non per scarsi risultati; la mia media era alta e mi sarei
laureato con il massimo dei voti nei tempi giusti.
Volevo anche uscire una volta per
tutte da un contesto, quello scolastico per eccellenza, in cui invece di
favorire una conoscenza viva che si rinnova costantemente per puro piacere
dell’apprendimento viene proposto e imposto un sapere accumulato e tramandato
nel tempo, spesso troppo nozionistico, stanco, vecchio. Un sistema in cui, da
una parte - sopra - stanno gli
insegnanti, rappresentanti riconosciuti di questo sapere, dall’altra - sotto -
stanno gli studenti che vanno formati e riempiti di “conoscenza”.
Allora come adesso, digerivo a fatica
la malsana consuetudine che in luoghi collettivi le persone debbano essere
separate in base a livelli e a ruoli. Lo trovo un modo rigido e innaturale di
relazionarsi, non rispondente alle complesse realtà individuali. Una
facilitazione sociale, probabilmente sì, che favorisce però solo questo modello di società e di
convivenza portando necessariamente all’appiattimento e all’impoverimento della
persona nella sua unicità.
Ricordo che la mia decisione, nella
cerchia familiare, degli amici e dei docenti universitari, destò una certa emozione.
Non furono molti che lo approvarono e in tanti, invece, cercarono di convincermi
a fare retromarcia. Una volta, per esempio, accadde che in una cena tra
studenti e amici una ragazza venne colta da una vera e propria crisi di nervi
quando parlai della mia scelta: a quanto pare la metteva in grande agitazione.
Feci del mio meglio per rincuorarla ma non ci fu verso, in seguito cancellò il
mio nome dalla cerchia delle sue frequentazioni.
Per contro, rammento bene una discussione con
mio padre che, pur non condividendo quello che facevo ed esprimendo la sua
fondata preoccupazione, espresse anche la sua ammirazione in quanto, in qualche
modo, sarei riuscito a “tirarmi fuori dal tunnel”.
Ne sono poi davvero uscito, dal
tunnel? Questo rimane tutto da vedere ed è una domanda che mi pongo
costantemente insieme ad un analogo interrogativo espresso con parole diverse:
cosa significa essere davvero libero? Quella decisione presa allora, tuttavia,
rimane indiscutibilmente come un passo importante verso la mia libertà
interiore, quella che si conquista e si coltiva giorno per giorno. Quella alla
quale da sempre aspiro.
Lasciata l’Università, compresi subito
come non basti abbandonare la scuola per uscire dall’influenza della
scolarizzazione: i condizionamenti ricevuti dall’infanzia in poi, di qualunque
natura essi siano, richiedono un tempo più o meno lungo per dissolversi e
lasciare lo spazio a qualcosa di più autentico. Il tempo, tuttavia, da solo non
basta per cancellare il condizionamento: esso fa bene il suo lavoro se
intraprendiamo un cammino attivo e costante di osservazione di sé che possa
sviluppare in noi un’effettiva consapevolezza.
Per un certo tempo, infatti, dopo aver
chiuso con l’Università, caddi nel tranello di un pensiero condizionato:
“Poiché non studio più, allora devo
lavorare!”. Non studiare e non lavorare significava mettersi in una scomoda
situazione, non ben definita socialmente. Una situazione di pauroso vuoto che
faceva vacillare perfino la mia identità. Per fortuna tenni duro e seppi
conquistarmi un tempo e uno spazio per l’appunto vuoto in cui potesse emergere da sé una via da seguire e il
manifestarsi di una mia autentica identità. Ero sufficientemente forte per
consentirmi la mancanza di risposte immediate, il dubbio, l’ascolto del mio
reale bisogno. Ero anche molto fiducioso nelle mie potenzialità e soprattutto
nella forza della vita che in tutti noi scorre incessantemente.
Finiamo tutti per avere un certo ruolo, una certa posizione nello
scacchiere della società in cui viviamo. Anche nostro malgrado siamo costretti
ad assumerne uno “presentabile”: è un fatto che tutto ciò che sfugge
all’inquadramento, desti timore e diventi un potenziale elemento di squilibrio
nel vivere collettivo organizzato. Una definizione di chi “siamo” ci viene
richiesta o imposta: studente o lavoratore, impiegato o libero professionista,
integrato o marginale ecc. Invece di chiedere “Chi sei?” a una persona adulta,
preferiamo chiedere “Che lavoro fai?”. A un bambino chiediamo invariabilmente
“Che classe fai?” come se definire il suo livello scolastico fosse l’elemento
fondamentale per poterlo conoscere.
Intorno ai trenta anni, amavo
rispondere provocatoriamente alla domanda “Che lavoro fai?” dicendo “Sono un
libero non-professionista”. Essere libero era ciò che mi premeva di più e
sentivo il bisogno di affermare la mia libertà ribellandomi a ciò che poteva
ostacolarla: volevo combattere pacificamente il sistema cullando dentro di me
l’immagine di un ideale anti-sistema. Ero giovane e pieno di sogni ma non ero
ancora capace di reale autonomia e indipendenza.
Iniziai a praticare l’Aikido a sedici
anni, pochi mesi dopo aver cominciato a praticare la pratica del Katsugen undo
(movimento rigeneratore). Queste due pratiche, fondendosi e compenetrandosi, mi
hanno accompagnato, strettamente connesse, per tutta la vita fino ad oggi.
Mi appassionava in quel tempo la
filosofia orientale, la ricerca del sé, il risveglio personale. Venivo da anni
d’intensa, vissuta, competitiva attività sportiva che lasciavo consapevolmente
alle spalle: avevo già vinto (e poi perso) tutto il possibile, godendo appieno
dei successi e soffrendo a volte anche moltissimo per le sconfitte che, a
partire da un certo momento, cominciarono a moltiplicarsi. Ero alla ricerca di
un altro rapporto con il mio corpo e il suo movimento, di possibilità diverse
di muovermi insieme agli altri senza
la necessità di prevalere, di misurarmi, di competere. Già allora, infatti, ero
consapevole che la riuscita non era la meta alla quale ambire eppure ci misi
anni - direi circa una trentina - per scoprire che non volevo più diventare qualcuno ma che era di per sé
più che sufficiente semplicemente essere quello che sono. Delle arti marziali,
quando iniziai, non sapevo niente, fino ad allora non avevano mai suscitato il
mio interesse.
La scoperta dell’Aikido rappresentò
per me una vera rivelazione. Fin dalla prima volta che lo vidi e lo praticai fu
per me come un ritorno a casa, come ritrovare la terra sotto ai piedi. Va da sé
che la cosa mi riempì di felicità e che mi gettai con enorme entusiasmo in
questa nuova avventura. Anche mia madre Susi, che seguiva con attenzione i miei
passi, se ne accorse. Infatti, lei che aveva pur cominciato con molto piacere a
praticare, smise per lasciar continuare me da solo. Non so quanto le costò
questa rinuncia ma credo che diede ascolto a una sua intuizione: voleva che
trovassi da solo la mia strada. Pochi anni dopo, le ultime parole che mi disse
prima di lasciare questo mondo furono: “Continua l’Aikido!”. Esse continuano
tuttora a risuonare in me.
In quei primi anni, se dovevo parlare
dell’Aikido, mi piaceva ripetere una delle definizioni che ne diede Itsuo
Tsuda: l’Aikido può esser visto in tre modi, come sport, come arte marziale,
come ricerca interiore. Per quanto mi riguarda, ovviamente propendevo per
l’Aikido della ricerca interiore. Ancora adesso in fondo la penso così anche se
nel mio sentire queste tre cose non sono antitetiche o in conflitto tra loro. A
ben vedere, tutte queste tre componenti sono coesistite nella mia pratica e
forse se ne potrebbe aggiungere anche qualche altra. Hanno solo avuto un peso e
un’importanza diversi secondo il periodo. Ritornerò in seguito su questo punto
perché trovo piuttosto povero il discorso di chi sostiene che l’Aikido sia una
cosa e non un’altra (per esempio
un’arte marziale e non una via spirituale oppure un esercizio del corpo e non
un esercizio dell’anima ecc.) cadendo così nelle solite dicotomie dualiste.
Aikido, via che manifesta le infinite relazioni visibili e invisibili che
esistono nell’universo, è espressione di una realtà complessa, individuale e
collettiva: ciascuno di noi lo vive e se ne serve in maniera personale e unica
per crescere e trovare un proprio equilibrio.
Anche l’immaginario personale rispetto
a questa pratica cambia ed evolve nel tempo. Se così non fosse, se non ci fosse
un’evoluzione, una comprensione che mutando si approfondisce e uno slancio che
si rinnova periodicamente, non sarebbe possibile continuare senza
“fossilizzarsi”. Ci annoieremmo e sospenderemmo la pratica per cercare altrove,
il che, peraltro, a molti accade spesso.
Facciamo un passo indietro e
ritorniamo alla definizione di Aikido come sport, arte marziale e ricerca
interiore. Posso dire che della pratica sportiva ho sempre coltivato anche
nell’Aikido il piacere del gesto coordinato, pulito e possibilmente bello da
vedersi; ho sempre adorato il dinamismo delle cadute in avanti e indietro; e
anche dato il giusto valore al buon esercizio fisico attraverso lo studio e la
consapevolezza dei movimenti.
Arte marziale è stata invece per me
sinonimo di cultura (la conoscenza del Giappone e delle sue tradizioni che per
tanti anni mi hanno appassionato e hanno nutrito il mio immaginario) ma anche
di rigore e di rispetto verso me stesso e verso gli altri. Se nella pratica
sportiva giovanile, precedente all’Aikido, c’era un evidente bisogno di prevalere, l’occasione di praticare
un’arte marziale ha risposto al mio bisogno di confrontarmi, di misurarmi senza più competere. Con l’arte marziale
ho potuto scoprire, anche con un certo sforzo, che l’avversario non sta più al
di fuori di noi ma dentro, che non gareggi con il tuo compagno di pratica ma
che puoi essergli grato per il cammino che si riesce a fare insieme.
Ricerca interiore è tutto il resto, la
parte nascosta dell’iceberg, il motore fondamentale che ti accompagna in tutto
il percorso dell’esistenza. Espresso in altri termini essa è orientamento
profondo, capacità di dare una direzione centripeta a tutto ciò che viviamo,
dialogo autentico e onesto con il proprio Sé. E soprattutto, apertura e
ascolto.
Lasciando l’Università, pensavo di
lasciarmi la scuola alle spalle. In realtà ciò fu vero solo in parte. Infatti,
uscivo definitivamente dalla scuola come istituzione ma entravo senza esserne
troppo consapevole in un’altra forma di scuola: la scuola di un maestro. La
prima esperienza scolastica durò una ventina di anni e così… anche la seconda!
Molto probabilmente entrambe durarono un po’ troppo ma così va la vita,
ciascuno ha bisogno dei suoi tempi e non si possono bruciare le tappe anche se
lo si vorrebbe.
La scuola di un maestro, il seguirlo,
è forse un passaggio necessario in un determinato periodo della propria vita.
Per me lo è stato e non ne sminuisco l’importanza. La relazione tra maestro e
allievo nasce da un incontro: entrambi si cercano e, un bel giorno, non per
caso, l’incontro la rende possibile. La qualità di questa relazione dipende da
uno e l’altro: se non si tiene viva l’attenzione facilmente scade e degenera.
Com’è facile intuire, il rapporto che
viene a crearsi tra maestro e allievo è stretto e va a toccare sfere delicate
della vita di entrambi. È necessario mantenere delle sane distanze e procedere con
cautela perché se i frutti che ne possono scaturire sono molti e diversi è vero
anche che, se viene a mancare la consapevolezza, si fa in fretta a cadere nelle
conseguenze negative, nel danno, nelle sofferenze.
Non intendo affrontare qui la mia
personale vicenda con la persona che allora consideravo un maestro, il mio
maestro, perché ciò richiederebbe troppo spazio e mi porterebbe fuori tema. Se
sarà necessario, potrò farlo forse in seguito in un contesto più specifico. Di
sicuro, il mio vissuto ha contribuito a formare il mio pensiero attuale e
costituisce una chiara linea guida rispetto a come agisco e intendo agire nel
futuro: so cosa vorrei si ripetesse ma soprattutto cosa non voglio che si ripeta nella mia relazione con altre persone o
con chi pratica con me.
Un buon maestro è tale perché fornisce
delle chiavi di lettura e degli strumenti, nutre le differenze e le unicità,
soprattutto sa dove sta andando e da dove viene. Come un uccello vola davanti e
gioisce il giorno in cui l’allievo vola altrove e per la sua strada, in
un’altra direzione. Quest’ultima immagine mi è stata offerta all’inizio del
2005 da Sotigui Kouyaté in un momento in cui attraversavo una profonda crisi.
Egli mi ha fatto intuire che alla fine di un percorso lungo e complesso come
quello della nostra vita c’è una libertà infinita. Mi ha detto anche, quando
dubitavo delle mie capacità: “Devi continuare a dire ciò che hai da dire
attraverso l’Aikido, con la fierezza di un animale selvatico”.
Poche parole, se dette al momento
giusto, bastano per rimettere in piedi un uomo che fatica a rialzarsi. Anche
questo può fare un buon maestro.
Un cattivo maestro crea invece
confusione di ruoli e dipendenza affettiva, è attaccato a un potere che è
incapace di cedere, non favorisce una libertà futura ma la teme. Chi lo segue
tende a vedere in lui la verità incarnata o colui grazie al quale alla verità
si può arrivare. Un falso maestro si culla in questa consolazione che
conferisce senso a tutto il suo operato e comprensibilmente non fa nulla per
risvegliare l’allievo da questa illusione: anzi l’alimenta per tenerlo stretto
a lui. Risultato: due prigionieri invece di due uomini liberi.
Nessuna strada porta alla verità,
questo conviene saperlo e dirlo fin da subito.
Una verità univoca e immutabile non
esiste, ne consegue che nessuno possa farsene portatore né sostenere di essere
in grado di definirla o possederla.
La verità della realtà è qui e ora,
brilla d’istante in istante assumendo infinite forme diverse. Può essere colta,
intuita, sentita ma non trasmessa.
Riluce negli occhi e nei corpi di
tutti gli esseri che vivono in questo stesso momento.
Quindi mai fidarsi di un maestro che
si definisce tale e che invita qualcuno a seguirlo per più di dieci passi.
All’undicesimo cadrete insieme nel burrone.
Un buon maestro sa di poterlo essere
solo transitoriamente, in un momento particolare, con una persona particolare,
in una situazione particolare.
Egli sa anche di non sapere e fonda la
relazione con i praticanti affermando apertamente questa semplice verità.
Talvolta i maestri sono solo piccoli
maestri. Avviene quando incarnano uno spirito in fin dei conti banalmente
scolastico da cui non aspirano allontanarsi. Quando pensano di poter insegnare e
trasmettere una conoscenza stabilita e valida per tutti. Quando cioè non
educano più a un pensiero libero e felicemente divergente ma, nonostante a
parole affermino il contrario, conducono chi li segue ad un pensiero unico e
conformista. Ciò appare evidente quando si guarda l’ambiente in cui operano:
gli allievi cominciano a temere di dire o fare la cosa sbagliata, non osano più
esprimersi con la propria voce per paura di essere ripresi. Per questo la
nostra società è popolata da molte persone che ripetono ed eseguono e da poche
che creano sviluppando appieno le proprie potenzialità. Il meccanismo
scolastico è diffuso e comune.
Nel 2004, ho lasciato volontariamente
la scuola per la seconda volta ed è stato quando mi sono allontanato da un
contesto di questo tipo e dal maestro che lo suscitava. La mancanza di respiro
mi faceva soffocare, la mia parola languiva, tutto il mio essere tremava
nell’incertezza, nel dubbio, nell’insoddisfazione. Ovviamente la mia pratica,
in tutte le sue forme, era in quel periodo sclerotica e spenta, l’Aikido
mancava di slancio e di gioia, il movimento spontaneo era bloccato da un
eccesso di coscienza e di sofferenza mentale. Dovevo tirarmene fuori, da solo,
per sopravvivere e forse per ricominciare a vivere. E camminare facendo affidamento
ai miei piedi, alle mie gambe, al mio cuore. Penso di esser diventato un uomo
adulto proprio in quei giorni.
Dal punto di vista dell’Aikido i
vent’anni con un maestro sono senz’altro serviti a qualcosa. Meno male direte
voi… e mi aggiungo al coro tirando un respiro di sollievo. Il contrario, per
analogia, sarebbe come affermare che tutto ciò che è avvenuto nell’infanzia
dietro ai banchi di scuola sia stato soltanto inutile, privo di interesse,
negativo. Dei miei primi e dei miei secondi vent’anni “scolastici” conservo
invece moltissimi ricordi felici, allegri, fecondi. Ho sicuramente imparato
tanto. Non importa dire che avrei sicuramente imparato altrettanto anche
seguendo percorsi diversi: è andata così.
Incontrai il maestro circa due anni
dopo aver cominciato l’Aikido. Fin dalla prima volta che lo vidi muoversi sui
tatami mi si spalancarono delle porte interiori: vidi quello che da molto tempo
stavo cercando e seppi con certezza che volevo farlo anche io. Mi ci vollero
però troppi anni per capire che ciò che mi toccava e risvegliava in me un
dragone sopito non era lui ma qualcosa di più grande che attraverso di lui prendeva forma. Mi creai un idolo e per lungo
tempo non seppi vedere oltre. Poi un bel giorno scoprii l’importanza delle icone che lasciano intravedere ciò che
sta aldilà. La Vita e il divino pulsano dietro alla forma.
L’Aikido, come tutte le arti, ha il
proprio linguaggio e i propri codici. Ero quasi un principiante e li conoscevo
solo grossolanamente. L’apprendistato con il maestro servì anche a questo, a
darmi delle solide basi e a scoprire come padroneggiare i codici di questa
pratica che amavo tanto. Il suo insegnamento fu generoso e non frammentato o
distillato con il contagocce. Dal canto mio ero veramente assetato di
apprendere e mi impegnai a fondo: “rubai” anche molte cose che non possono
essere trasmesse. Per avvicinarmi il più in fretta possibile al mio Aikido, quello che portavo dentro.
Nel 2004 ruppi con il maestro e
lasciai quella che era stata la mia casa di pratica per molti anni. Si stava
trasformando in una scuola ben strutturata, con livelli e gerarchie e un
generale appiattimento delle differenze. Non mi riconoscevo più in quell’ambito
in cui tutto finiva per perdere di spontaneità. Inoltre mi veniva
insistentemente chiesto di “posizionarmi”, di chiarire il mio ruolo nella
struttura. Trovavo tutto ciò asfissiante e insopportabile. Lontano dalla
libertà che desideravo e speravo. Il taglio fu netto e finora non ho mai
rimpianto di essermene andato per la mia strada.
Per circa sei mesi, tra il 2004 e il
2005, sospesi la pratica dell’Aikido. Ero sfiduciato e disilluso, non credevo
più in me né nelle mie possibilità. Dopo una parentesi all’estero, dove
cominciai a praticare il Taiji quan, ritornai, mio malgrado, a Milano. Una
mattina, decisi che avevo bisogno di riprendere, mi alzai e sui tatami di casa
feci la pratica respiratoria (la prima parte dell’Aikido).
Così continuai a fare tutte le mattine
seguenti: senza un orario definito, al risveglio, praticavo da solo l’Aikido.
Dopo qualche tempo, si fece spazio in me una decisione. Avrei ripreso l’Aikido
e sarei andato in una qualsiasi palestra per praticarlo - in quel momento una
valeva l’altra. Quello che successe subito dopo è piuttosto sorprendente:
appena presa la decisione arrivò una proposta da un’amica, Monica, che mi
invitava a prendere in affitto uno spazio e fondare un’associazione con lei e
altre due ragazze. Tutto avvenne con facilità e non passò molto tempo prima del
giorno in cui furono posati i tatami nel nuovo Dojo.
Nacque così A ke lei naa dojo, dove ancora oggi pratico. Senza troppa
preparazione, con una certa leggerezza, si realizzava un sogno che mi portavo
dentro da molti anni. Non rimaneva che rimboccarsi le maniche e aprire questo
nuovo capitolo.
maggio
2017
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