lunedì 9 ottobre 2017

Aikido, Via del Respiro (I)



L’Aikido, Via del Respiro
Possibile praticarlo fuori dal sistema scolastico?



I

Il cammino, i maestri e quello che ti dice il tempo

La prima volta che ho provato concretamente ad uscire dal sistema scolastico è stata quando, a 23 anni, a due esami dalla fine e a tesi di laurea in corso, ho lasciato l’Università di Venezia. Questa decisione, che maturava già da un certo tempo, è stata chiara, senza esitazioni e non ha mai dato adito a rimpianti in seguito.

Lasciai la facoltà di lingue orientali (corso di Giapponese) dove per quattro anni mi ero appassionato studiando cultura, storia, letteratura e filosofia dell’estremo oriente – materie tutte da scoprire per me – e scrissi una lunga lettera ai miei insegnanti dell’epoca per motivare il mio passo.

In sintesi, dissi loro che li ringraziavo molto ma che “non volendo più giudicare né essere giudicato” mi tiravo fuori da un sistema, basato sugli esami e sui giudizi, che ormai mi stava stretto. Non ci credevo più e anzi contestavo con veemenza questa prassi selettiva e livellante: i migliori avanzano, quelli che non ce la fanno abbandonano sconfitti e frustrati. Sognavo un altro rapporto all’educazione e all’apprendimento: se non per me almeno per i miei figli. Me ne andavo per convinzione e non per scarsi risultati; la mia media era alta e mi sarei laureato con il massimo dei voti nei tempi giusti.

Volevo anche uscire una volta per tutte da un contesto, quello scolastico per eccellenza, in cui invece di favorire una conoscenza viva che si rinnova costantemente per puro piacere dell’apprendimento viene proposto e imposto un sapere accumulato e tramandato nel tempo, spesso troppo nozionistico, stanco, vecchio. Un sistema in cui, da una parte - sopra -  stanno gli insegnanti, rappresentanti riconosciuti di questo sapere, dall’altra - sotto - stanno gli studenti che vanno formati e riempiti di “conoscenza”.

Allora come adesso, digerivo a fatica la malsana consuetudine che in luoghi collettivi le persone debbano essere separate in base a livelli e a ruoli. Lo trovo un modo rigido e innaturale di relazionarsi, non rispondente alle complesse realtà individuali. Una facilitazione sociale, probabilmente sì, che favorisce però solo questo modello di società e di convivenza portando necessariamente all’appiattimento e all’impoverimento della persona nella sua unicità. 

Ricordo che la mia decisione, nella cerchia familiare, degli amici e dei docenti universitari, destò una certa emozione. Non furono molti che lo approvarono e in tanti, invece, cercarono di convincermi a fare retromarcia. Una volta, per esempio, accadde che in una cena tra studenti e amici una ragazza venne colta da una vera e propria crisi di nervi quando parlai della mia scelta: a quanto pare la metteva in grande agitazione. Feci del mio meglio per rincuorarla ma non ci fu verso, in seguito cancellò il mio nome dalla cerchia delle sue frequentazioni.

 Per contro, rammento bene una discussione con mio padre che, pur non condividendo quello che facevo ed esprimendo la sua fondata preoccupazione, espresse anche la sua ammirazione in quanto, in qualche modo, sarei riuscito a “tirarmi fuori dal tunnel”.

Ne sono poi davvero uscito, dal tunnel? Questo rimane tutto da vedere ed è una domanda che mi pongo costantemente insieme ad un analogo interrogativo espresso con parole diverse: cosa significa essere davvero libero? Quella decisione presa allora, tuttavia, rimane indiscutibilmente come un passo importante verso la mia libertà interiore, quella che si conquista e si coltiva giorno per giorno. Quella alla quale da sempre aspiro.

Lasciata l’Università, compresi subito come non basti abbandonare la scuola per uscire dall’influenza della scolarizzazione: i condizionamenti ricevuti dall’infanzia in poi, di qualunque natura essi siano, richiedono un tempo più o meno lungo per dissolversi e lasciare lo spazio a qualcosa di più autentico. Il tempo, tuttavia, da solo non basta per cancellare il condizionamento: esso fa bene il suo lavoro se intraprendiamo un cammino attivo e costante di osservazione di sé che possa sviluppare in noi un’effettiva consapevolezza.

Per un certo tempo, infatti, dopo aver chiuso con l’Università, caddi nel tranello di un pensiero condizionato: “Poiché non studio più, allora devo lavorare!”. Non studiare e non lavorare significava mettersi in una scomoda situazione, non ben definita socialmente. Una situazione di pauroso vuoto che faceva vacillare perfino la mia identità. Per fortuna tenni duro e seppi conquistarmi un tempo e uno spazio per l’appunto vuoto in cui potesse emergere da sé una via da seguire e il manifestarsi di una mia autentica identità. Ero sufficientemente forte per consentirmi la mancanza di risposte immediate, il dubbio, l’ascolto del mio reale bisogno. Ero anche molto fiducioso nelle mie potenzialità e soprattutto nella forza della vita che in tutti noi scorre incessantemente.

  Finiamo tutti per avere un certo ruolo, una certa posizione nello scacchiere della società in cui viviamo. Anche nostro malgrado siamo costretti ad assumerne uno “presentabile”: è un fatto che tutto ciò che sfugge all’inquadramento, desti timore e diventi un potenziale elemento di squilibrio nel vivere collettivo organizzato. Una definizione di chi “siamo” ci viene richiesta o imposta: studente o lavoratore, impiegato o libero professionista, integrato o marginale ecc. Invece di chiedere “Chi sei?” a una persona adulta, preferiamo chiedere “Che lavoro fai?”. A un bambino chiediamo invariabilmente “Che classe fai?” come se definire il suo livello scolastico fosse l’elemento fondamentale per poterlo conoscere.

Intorno ai trenta anni, amavo rispondere provocatoriamente alla domanda “Che lavoro fai?” dicendo “Sono un libero non-professionista”. Essere libero era ciò che mi premeva di più e sentivo il bisogno di affermare la mia libertà ribellandomi a ciò che poteva ostacolarla: volevo combattere pacificamente il sistema cullando dentro di me l’immagine di un ideale anti-sistema. Ero giovane e pieno di sogni ma non ero ancora capace di reale autonomia e indipendenza.

Iniziai a praticare l’Aikido a sedici anni, pochi mesi dopo aver cominciato a praticare la pratica del Katsugen undo (movimento rigeneratore). Queste due pratiche, fondendosi e compenetrandosi, mi hanno accompagnato, strettamente connesse, per tutta la vita fino ad oggi.

Mi appassionava in quel tempo la filosofia orientale, la ricerca del sé, il risveglio personale. Venivo da anni d’intensa, vissuta, competitiva attività sportiva che lasciavo consapevolmente alle spalle: avevo già vinto (e poi perso) tutto il possibile, godendo appieno dei successi e soffrendo a volte anche moltissimo per le sconfitte che, a partire da un certo momento, cominciarono a moltiplicarsi. Ero alla ricerca di un altro rapporto con il mio corpo e il suo movimento, di possibilità diverse di muovermi insieme agli altri senza la necessità di prevalere, di misurarmi, di competere. Già allora, infatti, ero consapevole che la riuscita non era la meta alla quale ambire eppure ci misi anni - direi circa una trentina - per scoprire che non volevo più diventare qualcuno ma che era di per sé più che sufficiente semplicemente essere quello che sono. Delle arti marziali, quando iniziai, non sapevo niente, fino ad allora non avevano mai suscitato il mio interesse.

La scoperta dell’Aikido rappresentò per me una vera rivelazione. Fin dalla prima volta che lo vidi e lo praticai fu per me come un ritorno a casa, come ritrovare la terra sotto ai piedi. Va da sé che la cosa mi riempì di felicità e che mi gettai con enorme entusiasmo in questa nuova avventura. Anche mia madre Susi, che seguiva con attenzione i miei passi, se ne accorse. Infatti, lei che aveva pur cominciato con molto piacere a praticare, smise per lasciar continuare me da solo. Non so quanto le costò questa rinuncia ma credo che diede ascolto a una sua intuizione: voleva che trovassi da solo la mia strada. Pochi anni dopo, le ultime parole che mi disse prima di lasciare questo mondo furono: “Continua l’Aikido!”. Esse continuano tuttora a risuonare in me.

In quei primi anni, se dovevo parlare dell’Aikido, mi piaceva ripetere una delle definizioni che ne diede Itsuo Tsuda: l’Aikido può esser visto in tre modi, come sport, come arte marziale, come ricerca interiore. Per quanto mi riguarda, ovviamente propendevo per l’Aikido della ricerca interiore. Ancora adesso in fondo la penso così anche se nel mio sentire queste tre cose non sono antitetiche o in conflitto tra loro. A ben vedere, tutte queste tre componenti sono coesistite nella mia pratica e forse se ne potrebbe aggiungere anche qualche altra. Hanno solo avuto un peso e un’importanza diversi secondo il periodo. Ritornerò in seguito su questo punto perché trovo piuttosto povero il discorso di chi sostiene che l’Aikido sia una cosa e non un’altra (per esempio un’arte marziale e non una via spirituale oppure un esercizio del corpo e non un esercizio dell’anima ecc.) cadendo così nelle solite dicotomie dualiste. Aikido, via che manifesta le infinite relazioni visibili e invisibili che esistono nell’universo, è espressione di una realtà complessa, individuale e collettiva: ciascuno di noi lo vive e se ne serve in maniera personale e unica per crescere e trovare un proprio equilibrio.

Anche l’immaginario personale rispetto a questa pratica cambia ed evolve nel tempo. Se così non fosse, se non ci fosse un’evoluzione, una comprensione che mutando si approfondisce e uno slancio che si rinnova periodicamente, non sarebbe possibile continuare senza “fossilizzarsi”. Ci annoieremmo e sospenderemmo la pratica per cercare altrove, il che, peraltro, a molti accade spesso.

Facciamo un passo indietro e ritorniamo alla definizione di Aikido come sport, arte marziale e ricerca interiore. Posso dire che della pratica sportiva ho sempre coltivato anche nell’Aikido il piacere del gesto coordinato, pulito e possibilmente bello da vedersi; ho sempre adorato il dinamismo delle cadute in avanti e indietro; e anche dato il giusto valore al buon esercizio fisico attraverso lo studio e la consapevolezza dei movimenti.

Arte marziale è stata invece per me sinonimo di cultura (la conoscenza del Giappone e delle sue tradizioni che per tanti anni mi hanno appassionato e hanno nutrito il mio immaginario) ma anche di rigore e di rispetto verso me stesso e verso gli altri. Se nella pratica sportiva giovanile, precedente all’Aikido, c’era un evidente bisogno di prevalere, l’occasione di praticare un’arte marziale ha risposto al mio bisogno di confrontarmi, di misurarmi senza più competere. Con l’arte marziale ho potuto scoprire, anche con un certo sforzo, che l’avversario non sta più al di fuori di noi ma dentro, che non gareggi con il tuo compagno di pratica ma che puoi essergli grato per il cammino che si riesce a fare insieme.

Ricerca interiore è tutto il resto, la parte nascosta dell’iceberg, il motore fondamentale che ti accompagna in tutto il percorso dell’esistenza. Espresso in altri termini essa è orientamento profondo, capacità di dare una direzione centripeta a tutto ciò che viviamo, dialogo autentico e onesto con il proprio Sé. E soprattutto, apertura e ascolto.

Lasciando l’Università, pensavo di lasciarmi la scuola alle spalle. In realtà ciò fu vero solo in parte. Infatti, uscivo definitivamente dalla scuola come istituzione ma entravo senza esserne troppo consapevole in un’altra forma di scuola: la scuola di un maestro. La prima esperienza scolastica durò una ventina di anni e così… anche la seconda! Molto probabilmente entrambe durarono un po’ troppo ma così va la vita, ciascuno ha bisogno dei suoi tempi e non si possono bruciare le tappe anche se lo si vorrebbe.

La scuola di un maestro, il seguirlo, è forse un passaggio necessario in un determinato periodo della propria vita. Per me lo è stato e non ne sminuisco l’importanza. La relazione tra maestro e allievo nasce da un incontro: entrambi si cercano e, un bel giorno, non per caso, l’incontro la rende possibile. La qualità di questa relazione dipende da uno e l’altro: se non si tiene viva l’attenzione facilmente scade e degenera.

Com’è facile intuire, il rapporto che viene a crearsi tra maestro e allievo è stretto e va a toccare sfere delicate della vita di entrambi. È necessario mantenere delle sane distanze e procedere con cautela perché se i frutti che ne possono scaturire sono molti e diversi è vero anche che, se viene a mancare la consapevolezza, si fa in fretta a cadere nelle conseguenze negative, nel danno, nelle sofferenze.

Non intendo affrontare qui la mia personale vicenda con la persona che allora consideravo un maestro, il mio maestro, perché ciò richiederebbe troppo spazio e mi porterebbe fuori tema. Se sarà necessario, potrò farlo forse in seguito in un contesto più specifico. Di sicuro, il mio vissuto ha contribuito a formare il mio pensiero attuale e costituisce una chiara linea guida rispetto a come agisco e intendo agire nel futuro: so cosa vorrei si ripetesse ma soprattutto cosa non voglio che si ripeta nella mia relazione con altre persone o con chi pratica con me.

Un buon maestro è tale perché fornisce delle chiavi di lettura e degli strumenti, nutre le differenze e le unicità, soprattutto sa dove sta andando e da dove viene. Come un uccello vola davanti e gioisce il giorno in cui l’allievo vola altrove e per la sua strada, in un’altra direzione. Quest’ultima immagine mi è stata offerta all’inizio del 2005 da Sotigui Kouyaté in un momento in cui attraversavo una profonda crisi. Egli mi ha fatto intuire che alla fine di un percorso lungo e complesso come quello della nostra vita c’è una libertà infinita. Mi ha detto anche, quando dubitavo delle mie capacità: “Devi continuare a dire ciò che hai da dire attraverso l’Aikido, con la fierezza di un animale selvatico”.

Poche parole, se dette al momento giusto, bastano per rimettere in piedi un uomo che fatica a rialzarsi. Anche questo può fare un buon maestro.

Un cattivo maestro crea invece confusione di ruoli e dipendenza affettiva, è attaccato a un potere che è incapace di cedere, non favorisce una libertà futura ma la teme. Chi lo segue tende a vedere in lui la verità incarnata o colui grazie al quale alla verità si può arrivare. Un falso maestro si culla in questa consolazione che conferisce senso a tutto il suo operato e comprensibilmente non fa nulla per risvegliare l’allievo da questa illusione: anzi l’alimenta per tenerlo stretto a lui. Risultato: due prigionieri invece di due uomini liberi.

Nessuna strada porta alla verità, questo conviene saperlo e dirlo fin da subito.
Una verità univoca e immutabile non esiste, ne consegue che nessuno possa farsene portatore né sostenere di essere in grado di definirla o possederla.
La verità della realtà è qui e ora, brilla d’istante in istante assumendo infinite forme diverse. Può essere colta, intuita, sentita ma non trasmessa.
Riluce negli occhi e nei corpi di tutti gli esseri che vivono in questo stesso momento.
Quindi mai fidarsi di un maestro che si definisce tale e che invita qualcuno a seguirlo per più di dieci passi. All’undicesimo cadrete insieme nel burrone.
Un buon maestro sa di poterlo essere solo transitoriamente, in un momento particolare, con una persona particolare, in una situazione particolare.
Egli sa anche di non sapere e fonda la relazione con i praticanti affermando apertamente questa semplice verità.

Talvolta i maestri sono solo piccoli maestri. Avviene quando incarnano uno spirito in fin dei conti banalmente scolastico da cui non aspirano allontanarsi. Quando pensano di poter insegnare e trasmettere una conoscenza stabilita e valida per tutti. Quando cioè non educano più a un pensiero libero e felicemente divergente ma, nonostante a parole affermino il contrario, conducono chi li segue ad un pensiero unico e conformista. Ciò appare evidente quando si guarda l’ambiente in cui operano: gli allievi cominciano a temere di dire o fare la cosa sbagliata, non osano più esprimersi con la propria voce per paura di essere ripresi. Per questo la nostra società è popolata da molte persone che ripetono ed eseguono e da poche che creano sviluppando appieno le proprie potenzialità. Il meccanismo scolastico è diffuso e comune.

Nel 2004, ho lasciato volontariamente la scuola per la seconda volta ed è stato quando mi sono allontanato da un contesto di questo tipo e dal maestro che lo suscitava. La mancanza di respiro mi faceva soffocare, la mia parola languiva, tutto il mio essere tremava nell’incertezza, nel dubbio, nell’insoddisfazione. Ovviamente la mia pratica, in tutte le sue forme, era in quel periodo sclerotica e spenta, l’Aikido mancava di slancio e di gioia, il movimento spontaneo era bloccato da un eccesso di coscienza e di sofferenza mentale. Dovevo tirarmene fuori, da solo, per sopravvivere e forse per ricominciare a vivere. E camminare facendo affidamento ai miei piedi, alle mie gambe, al mio cuore. Penso di esser diventato un uomo adulto proprio in quei giorni.

Dal punto di vista dell’Aikido i vent’anni con un maestro sono senz’altro serviti a qualcosa. Meno male direte voi… e mi aggiungo al coro tirando un respiro di sollievo. Il contrario, per analogia, sarebbe come affermare che tutto ciò che è avvenuto nell’infanzia dietro ai banchi di scuola sia stato soltanto inutile, privo di interesse, negativo. Dei miei primi e dei miei secondi vent’anni “scolastici” conservo invece moltissimi ricordi felici, allegri, fecondi. Ho sicuramente imparato tanto. Non importa dire che avrei sicuramente imparato altrettanto anche seguendo percorsi diversi: è andata così.

Incontrai il maestro circa due anni dopo aver cominciato l’Aikido. Fin dalla prima volta che lo vidi muoversi sui tatami mi si spalancarono delle porte interiori: vidi quello che da molto tempo stavo cercando e seppi con certezza che volevo farlo anche io. Mi ci vollero però troppi anni per capire che ciò che mi toccava e risvegliava in me un dragone sopito non era lui ma qualcosa di più grande che attraverso di lui prendeva forma. Mi creai un idolo e per lungo tempo non seppi vedere oltre. Poi un bel giorno scoprii l’importanza delle icone che lasciano intravedere ciò che sta aldilà. La Vita e il divino pulsano dietro alla forma.

L’Aikido, come tutte le arti, ha il proprio linguaggio e i propri codici. Ero quasi un principiante e li conoscevo solo grossolanamente. L’apprendistato con il maestro servì anche a questo, a darmi delle solide basi e a scoprire come padroneggiare i codici di questa pratica che amavo tanto. Il suo insegnamento fu generoso e non frammentato o distillato con il contagocce. Dal canto mio ero veramente assetato di apprendere e mi impegnai a fondo: “rubai” anche molte cose che non possono essere trasmesse. Per avvicinarmi il più in fretta possibile al mio Aikido, quello che portavo dentro.

Nel 2004 ruppi con il maestro e lasciai quella che era stata la mia casa di pratica per molti anni. Si stava trasformando in una scuola ben strutturata, con livelli e gerarchie e un generale appiattimento delle differenze. Non mi riconoscevo più in quell’ambito in cui tutto finiva per perdere di spontaneità. Inoltre mi veniva insistentemente chiesto di “posizionarmi”, di chiarire il mio ruolo nella struttura. Trovavo tutto ciò asfissiante e insopportabile. Lontano dalla libertà che desideravo e speravo. Il taglio fu netto e finora non ho mai rimpianto di essermene andato per la mia strada.

Per circa sei mesi, tra il 2004 e il 2005, sospesi la pratica dell’Aikido. Ero sfiduciato e disilluso, non credevo più in me né nelle mie possibilità. Dopo una parentesi all’estero, dove cominciai a praticare il Taiji quan, ritornai, mio malgrado, a Milano. Una mattina, decisi che avevo bisogno di riprendere, mi alzai e sui tatami di casa feci la pratica respiratoria (la prima parte dell’Aikido).

Così continuai a fare tutte le mattine seguenti: senza un orario definito, al risveglio, praticavo da solo l’Aikido. Dopo qualche tempo, si fece spazio in me una decisione. Avrei ripreso l’Aikido e sarei andato in una qualsiasi palestra per praticarlo - in quel momento una valeva l’altra. Quello che successe subito dopo è piuttosto sorprendente: appena presa la decisione arrivò una proposta da un’amica, Monica, che mi invitava a prendere in affitto uno spazio e fondare un’associazione con lei e altre due ragazze. Tutto avvenne con facilità e non passò molto tempo prima del giorno in cui furono posati i tatami nel nuovo Dojo.

Nacque così A ke lei naa dojo, dove ancora oggi pratico. Senza troppa preparazione, con una certa leggerezza, si realizzava un sogno che mi portavo dentro da molti anni. Non rimaneva che rimboccarsi le maniche e aprire questo nuovo capitolo. 

maggio 2017








 


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