martedì 10 ottobre 2017

Aikido, Via del Respiro (II)



L’Aikido, via del Respiro



II

Risvegli, senso di libertà e entusiasmo


Il portoncino di legno di via Castelfidardo 2 sbatte pesantemente perché esco correndo e non lo accompagno. Non ce n’è il tempo e mi tuffo in quella che è ancora notte milanese. Percorro un isolato e poi i miei occhi vanno lontano, cercando di scorgere la 96 che, da un momento all’altro, dovrebbe attraversare Largo La Foppa, in fondo alla via Moscova. Ecco che la intravedo, illuminata e silenziosa. Non mi resta più molto tempo, posso solo correre a perdifiato per duecento metri di via Solferino e sperare di prenderla al volo, all’angolo di Largo Treves. Ho diciassette anni e le mie lunghe gambe vanno veloci. Sono certo di potercela fare e, infatti, ansimante e al limite delle mie forze, riesco a salire i gradini dell’autobus prima che la porta si rinchiuda e posso lasciarmi cadere su un sedile libero. Prendere il primo autobus delle 6.20 mi consentirà di partecipare alla seduta di Aikido fin dal suo inizio, perderlo sarebbe sinonimo di ritardo e frustrazione e, questo, proprio non lo voglio!

Tanti anni dopo, non mi costa alcuna fatica alzarmi e uscire prima, arrivare agli appuntamenti con il tempo necessario per viverli tranquillamente, prepararmi con lentezza e respirare. Negli anni giovanili però… tutto si giocava in un attimo, tutto all’ultimo istante, le mie energie erano proprio differenti! Eppure io non sono forse sempre lo stesso? Posso dire che qualcosa sia davvero cambiato in me?

Nell’autobus delle 6.20 ci sono sempre le stesse persone, una piccola famiglia di passeggeri e lavoratori che si ritrova ogni giorno. Ecco, a questa fermata salirà tal persona – oggi non c’è, che strano! – all’altra la signora che parla tanto e a voce alta… Insomma, si va avanti così, con paesaggi umani che si ripetono, persone che ancora dormono in piedi, altre che prendono la giornata con leggerezza fin dal suo inizio.

Io invece vado all’Aikido e me ne sento fiero.
È una mia scelta consapevole, non sono costretto ad alzarmi così presto, lo faccio per puro piacere.
E questa fatica, questo sforzo – buttarsi fuori da un piumino caldo per trovarsi nudi in una stanza poco riscaldata – hanno tutto il loro senso nel mio cuore e nella mia mente. Invito me stesso, quando nessuno mi obbliga, a un risveglio dal sapore dolce. Comincio a scoprire, pian piano, che anche nella difficoltà sta il gusto della vita. Sono primi passi di una via che porta all’autonomia, lo sento e lo spero.

Scendo all’angolo di Corso di Porta Vittoria, davanti alla biblioteca Sormani. Ho poco più di dieci minuti per arrivare alla palestra di via Bezzecca, una parallela di via XXII marzo, che è quindi ancora lontana. La seduta comincerà alle 6.45, non rimane che affrettarmi, senza pensarci troppo.
Ma anche oggi, che fortuna, scorgo la piccola 126 bianca di Giuseppe e Ombretta che sbracciando mi fanno segno di raggiungerli. Ancora una volta siamo passati dallo stesso incrocio nello stesso momento. Riesco a infilarmi nel minuscolo abitacolo della FIAT e allegramente andiamo insieme alla pratica: adoro i passaggi di prima mattina e anche loro sembrano contenti di raccattare un giovanissimo entusiasta che vaga nella notte per raggiungere pochi vecchi tatami di gomma verde che però profumano di libertà.

Tatami gelati, accidenti, perché in quella palestra di un qualsiasi sottoscala milanese manca più di un vetro e gli spifferi invernali sembrano la bora nelle vie triestine. C’è una piccola stufetta elettrica, accesa al massimo, ma scalda quasi solo la vista. Poco importa però, posso scaldarmi muovendomi e poi… ho scoperto l’Aikido e lo amo alla follia. Com’è che non lo amano tutti con la mia stessa intensità? Sarà forse che non lo conoscono?


Il viso di Yao rimane quasi impassibile mentre gli scuoto i piedi delicatamente. “Yao, è l’ora dell’Aikido, è il momento di alzarsi…”, è sempre difficile svegliare qualcuno che dorme, quasi inumano. Per questo lo faccio solo se la sera prima la decisione è stata chiara: “Sì, svegliami, io vengo”. Per ora, Yao è sempre stato convinto nelle sue risposte e, nel dire che verrà, un piccolo sorriso si dipinge sulle sue labbra. Pregusta qualcosa che gli procura piacere, è questo ciò che conta e rende meno ingrato il mio compito di svegliarlo.

Passo su e giù le mani sulle sue braccia, fino alle spalle: i suoi occhi sotto alle palpebre chiuse si muovono appena e poi si aprono poco a poco. Il corpo si raddrizza e lui si siede sul letto. È l’inizio un po’ insolito di una nuova giornata. Seppur dormendo riesce ad alzarsi e, non si sa come, a restare in piedi!

Chissà se dentro di sé sente una differenza tra quando si alza per andare all’Aikido e quando si alza per andare a scuola? Io la sentivo eccome: nel primo caso ero attore e artefice del mio risveglio, sceglievo il mio presente, nel secondo mi adeguavo a una realtà che non poteva essere altrimenti.

Nei giorni in cui, la mattina presto, partecipavo all’Aikido in via Bezzecca, giungevo poi al Liceo Berchet di via Commenda quasi all’ultimo momento prima che le porte chiudessero, mi sedevo nei banchi in fondo alla classe e, con l’animo in pace, mi addormentavo rilassato. È successo davvero, non una ma tante volte. Nessun senso di colpa, dormire è magnifico, salutare e rigenerante: almeno quanto lo è l’Aikido!

Nel dormiveglia usciamo da casa, Yao ed io, ci infiliamo nella metropolitana e viaggiamo senza scambiarci troppe parole. Io, con spirito un po’ paterno, mi chiedo cosa pensi, come viva questi momenti, se gli rimarranno come ricordi significativi quando sarà più grande. Lui, chissà dove vaga la sua mente, vede e pensa cose tutte sue, in fondo non mi riguarda proprio. È sua la vita che incontra la mia solo per qualche attimo, anche se so bene che gli attimi, senza quasi che ce ne si accorga, possono rapidamente trasformarsi in anni. Mi preme una cosa però, che questi momenti trascorsi insieme possano essere momenti di libertà, vissuti con serietà, pienezza, semplicità. Poi, ora o più tardi, li elaborerà a suo piacere e con i criteri che riterrà più opportuni.

Anche questa estate, a Seix, che gusto quando scendevamo tra campi e alberi nella bruma del primo mattino, a volte umido e piovoso, a volte soleggiato, per raggiungere dopo un cammino di almeno venti minuti il dojo dello stage estivo. Yao, trascinando improbabili infradito, così scomode per camminare un po’ a lungo, ma interiormente tutto felice di poter ritrovare entro poco tempo uno spazio aperto e accogliente che ha nel centro una porta che si apre sul torrente di montagna. In quel luogo del possibile, un dojo, potrà volare ancora una volta, sopra, sotto, in mezzo agli altri praticanti.

Sì, ha quindici anni, Yao, e gli piace volare, proprio come piaceva a me, allora, e continua a piacermi oggi. Un giorno ha detto che apprezza l’Aikido perché si sente libero di poter essere tutto ciò che vuole. Di prendere tutte le forme. Che differenza c’è con Itsuo Tsuda che diceva di amare l’Aikido perché gli consentiva di uscire dalla propria pelle, di superare i limiti del corpo per unirsi a qualcosa di molto più grande di lui? A mio avviso, almeno nel fondo, nessuna. Solo due linguaggi diversi, espressione di due maturità diverse. Due coscienze, due culture, due corpi – uno, quello di un settantenne con lo spirito di un giovane, l’altro quello di un giovane che ieri era ancora un bambino – eppure uno stesso desiderio: quello di sentirsi interiormente liberi.

Il corpo di Yao, quando è arrivato al dojo pochi mesi fa, assomigliava a un giovane giunco di bambù. Lo piegavi in un senso o nell’altro e prendeva la forma che gli davi. Flessibile, elastico… e vulnerabile nella sua fragilità. Un amalgama di giovinezza e vitalità ma anche di sensibilità ferita e di tonicità che si è smarrita da qualche parte per chissà quale motivo e vissuto. Praticare con lui e vederlo praticare con gli altri mi ha fatto molto riflettere.

È così facile per un adulto, per un genitore, per un insegnante, formare, deformare, raddrizzare, storcere, plasmare, spingere, tirare, istruire, influenzare il corpo di un giovane, di un bambino, di un bebè. In nome di un bene possibile, di un’idea educativa, di una convinzione dettata dalla buona fede. Finiamo tutti per fare così, in un modo o nell’altro, quando, immancabilmente, viene meno il rispetto per ciò che ciascuno è e ci si lascia guidare solo da ciò che vorremmo che qualcuno diventasse. Non confidiamo abbastanza in ciò che è già in essere, sotto ai nostri occhi che però non sempre vogliono vedere, e mettiamo tutta la nostra volontà, il nostro impegno e il nostro lavoro al servizio di un futuro immaginario che non sarà mai come lo abbiamo pensato prima.

Incoscientemente, nell’incoscienza delle conseguenze che ciò comporta, condizioniamo la vitalità dei nostri piccoli e di chi amiamo. Li pieghiamo ai nostri desideri e alle nostre paure. Diamo un sistema alle loro esistenze, seguito poi da un altro e poi da altri ancora che loro stessi finiranno per darsi, perché non sappiamo vedere né riconoscere che la vita, indipendentemente dal nostro intervento educativo, protettivo, formativo, possiede già una struttura solidissima e una capacità di auto-regolazione ed equilibrio funzionale che si sono perfezionati e sono stati messi alla prova da millenni di evoluzione umana, animale e vegetale.

Quale sia questa struttura fondamentale della vita e in che modo unico e particolare essa si esprima, attraverso il movimento spontaneo, nel corpo di ciascuno, ecco due domande che mi accompagnano da tempo e che sono più che presenti quando mi viene incontro, sui tatami, un giovane – o vecchio, d’altronde che differenza fa? – praticante di Aikido. Le neuroscienze moderne, cito volentieri André Stern che ne parla diffusamente, ci dicono che gioco e apprendimento sono strettamente connessi e addirittura inscindibili. Che l’entusiasmo è il motore di profondi processi evolutivi. Un giovane è per me chi è capace di entusiasmo, a quindici come a novant’anni. Anche Itsuo Tsuda, quando doveva definirlo, ci diceva che l’Aikido è l’arte di “essere bambini senza essere puerili”: bambini di ogni età capaci di entusiasmo, di visualizzazione, di azione viva e spontanea. Niente a che vedere con la tecnica, la progressione, i risultati… ma di questo parleremo in seguito.

Eccolo che entra sui tatami, Yao, silenzioso e piuttosto discreto. Con la coda dell’occhio vedo che, rispetto a mesi fa, si muove in modo nuovo, è tutto un po’ più dritto, più in asse, meno traballante. Guarda davanti a lui e non solo i suoi piedi. Sta facendo tutto da solo, viaggia nei suoi paesaggi, segue il suo desiderio. Io c’entro poco, gli dico il meno possibile, mi basta vedere il suo sorriso che si accende qui e là. Ogni volta che vola.

( ottobre 2017 )




lunedì 9 ottobre 2017

Aikido, Via del Respiro (I)



L’Aikido, Via del Respiro
Possibile praticarlo fuori dal sistema scolastico?



I

Il cammino, i maestri e quello che ti dice il tempo

La prima volta che ho provato concretamente ad uscire dal sistema scolastico è stata quando, a 23 anni, a due esami dalla fine e a tesi di laurea in corso, ho lasciato l’Università di Venezia. Questa decisione, che maturava già da un certo tempo, è stata chiara, senza esitazioni e non ha mai dato adito a rimpianti in seguito.

Lasciai la facoltà di lingue orientali (corso di Giapponese) dove per quattro anni mi ero appassionato studiando cultura, storia, letteratura e filosofia dell’estremo oriente – materie tutte da scoprire per me – e scrissi una lunga lettera ai miei insegnanti dell’epoca per motivare il mio passo.

In sintesi, dissi loro che li ringraziavo molto ma che “non volendo più giudicare né essere giudicato” mi tiravo fuori da un sistema, basato sugli esami e sui giudizi, che ormai mi stava stretto. Non ci credevo più e anzi contestavo con veemenza questa prassi selettiva e livellante: i migliori avanzano, quelli che non ce la fanno abbandonano sconfitti e frustrati. Sognavo un altro rapporto all’educazione e all’apprendimento: se non per me almeno per i miei figli. Me ne andavo per convinzione e non per scarsi risultati; la mia media era alta e mi sarei laureato con il massimo dei voti nei tempi giusti.

Volevo anche uscire una volta per tutte da un contesto, quello scolastico per eccellenza, in cui invece di favorire una conoscenza viva che si rinnova costantemente per puro piacere dell’apprendimento viene proposto e imposto un sapere accumulato e tramandato nel tempo, spesso troppo nozionistico, stanco, vecchio. Un sistema in cui, da una parte - sopra -  stanno gli insegnanti, rappresentanti riconosciuti di questo sapere, dall’altra - sotto - stanno gli studenti che vanno formati e riempiti di “conoscenza”.

Allora come adesso, digerivo a fatica la malsana consuetudine che in luoghi collettivi le persone debbano essere separate in base a livelli e a ruoli. Lo trovo un modo rigido e innaturale di relazionarsi, non rispondente alle complesse realtà individuali. Una facilitazione sociale, probabilmente sì, che favorisce però solo questo modello di società e di convivenza portando necessariamente all’appiattimento e all’impoverimento della persona nella sua unicità. 

Ricordo che la mia decisione, nella cerchia familiare, degli amici e dei docenti universitari, destò una certa emozione. Non furono molti che lo approvarono e in tanti, invece, cercarono di convincermi a fare retromarcia. Una volta, per esempio, accadde che in una cena tra studenti e amici una ragazza venne colta da una vera e propria crisi di nervi quando parlai della mia scelta: a quanto pare la metteva in grande agitazione. Feci del mio meglio per rincuorarla ma non ci fu verso, in seguito cancellò il mio nome dalla cerchia delle sue frequentazioni.

 Per contro, rammento bene una discussione con mio padre che, pur non condividendo quello che facevo ed esprimendo la sua fondata preoccupazione, espresse anche la sua ammirazione in quanto, in qualche modo, sarei riuscito a “tirarmi fuori dal tunnel”.

Ne sono poi davvero uscito, dal tunnel? Questo rimane tutto da vedere ed è una domanda che mi pongo costantemente insieme ad un analogo interrogativo espresso con parole diverse: cosa significa essere davvero libero? Quella decisione presa allora, tuttavia, rimane indiscutibilmente come un passo importante verso la mia libertà interiore, quella che si conquista e si coltiva giorno per giorno. Quella alla quale da sempre aspiro.

Lasciata l’Università, compresi subito come non basti abbandonare la scuola per uscire dall’influenza della scolarizzazione: i condizionamenti ricevuti dall’infanzia in poi, di qualunque natura essi siano, richiedono un tempo più o meno lungo per dissolversi e lasciare lo spazio a qualcosa di più autentico. Il tempo, tuttavia, da solo non basta per cancellare il condizionamento: esso fa bene il suo lavoro se intraprendiamo un cammino attivo e costante di osservazione di sé che possa sviluppare in noi un’effettiva consapevolezza.

Per un certo tempo, infatti, dopo aver chiuso con l’Università, caddi nel tranello di un pensiero condizionato: “Poiché non studio più, allora devo lavorare!”. Non studiare e non lavorare significava mettersi in una scomoda situazione, non ben definita socialmente. Una situazione di pauroso vuoto che faceva vacillare perfino la mia identità. Per fortuna tenni duro e seppi conquistarmi un tempo e uno spazio per l’appunto vuoto in cui potesse emergere da sé una via da seguire e il manifestarsi di una mia autentica identità. Ero sufficientemente forte per consentirmi la mancanza di risposte immediate, il dubbio, l’ascolto del mio reale bisogno. Ero anche molto fiducioso nelle mie potenzialità e soprattutto nella forza della vita che in tutti noi scorre incessantemente.

  Finiamo tutti per avere un certo ruolo, una certa posizione nello scacchiere della società in cui viviamo. Anche nostro malgrado siamo costretti ad assumerne uno “presentabile”: è un fatto che tutto ciò che sfugge all’inquadramento, desti timore e diventi un potenziale elemento di squilibrio nel vivere collettivo organizzato. Una definizione di chi “siamo” ci viene richiesta o imposta: studente o lavoratore, impiegato o libero professionista, integrato o marginale ecc. Invece di chiedere “Chi sei?” a una persona adulta, preferiamo chiedere “Che lavoro fai?”. A un bambino chiediamo invariabilmente “Che classe fai?” come se definire il suo livello scolastico fosse l’elemento fondamentale per poterlo conoscere.

Intorno ai trenta anni, amavo rispondere provocatoriamente alla domanda “Che lavoro fai?” dicendo “Sono un libero non-professionista”. Essere libero era ciò che mi premeva di più e sentivo il bisogno di affermare la mia libertà ribellandomi a ciò che poteva ostacolarla: volevo combattere pacificamente il sistema cullando dentro di me l’immagine di un ideale anti-sistema. Ero giovane e pieno di sogni ma non ero ancora capace di reale autonomia e indipendenza.

Iniziai a praticare l’Aikido a sedici anni, pochi mesi dopo aver cominciato a praticare la pratica del Katsugen undo (movimento rigeneratore). Queste due pratiche, fondendosi e compenetrandosi, mi hanno accompagnato, strettamente connesse, per tutta la vita fino ad oggi.

Mi appassionava in quel tempo la filosofia orientale, la ricerca del sé, il risveglio personale. Venivo da anni d’intensa, vissuta, competitiva attività sportiva che lasciavo consapevolmente alle spalle: avevo già vinto (e poi perso) tutto il possibile, godendo appieno dei successi e soffrendo a volte anche moltissimo per le sconfitte che, a partire da un certo momento, cominciarono a moltiplicarsi. Ero alla ricerca di un altro rapporto con il mio corpo e il suo movimento, di possibilità diverse di muovermi insieme agli altri senza la necessità di prevalere, di misurarmi, di competere. Già allora, infatti, ero consapevole che la riuscita non era la meta alla quale ambire eppure ci misi anni - direi circa una trentina - per scoprire che non volevo più diventare qualcuno ma che era di per sé più che sufficiente semplicemente essere quello che sono. Delle arti marziali, quando iniziai, non sapevo niente, fino ad allora non avevano mai suscitato il mio interesse.

La scoperta dell’Aikido rappresentò per me una vera rivelazione. Fin dalla prima volta che lo vidi e lo praticai fu per me come un ritorno a casa, come ritrovare la terra sotto ai piedi. Va da sé che la cosa mi riempì di felicità e che mi gettai con enorme entusiasmo in questa nuova avventura. Anche mia madre Susi, che seguiva con attenzione i miei passi, se ne accorse. Infatti, lei che aveva pur cominciato con molto piacere a praticare, smise per lasciar continuare me da solo. Non so quanto le costò questa rinuncia ma credo che diede ascolto a una sua intuizione: voleva che trovassi da solo la mia strada. Pochi anni dopo, le ultime parole che mi disse prima di lasciare questo mondo furono: “Continua l’Aikido!”. Esse continuano tuttora a risuonare in me.

In quei primi anni, se dovevo parlare dell’Aikido, mi piaceva ripetere una delle definizioni che ne diede Itsuo Tsuda: l’Aikido può esser visto in tre modi, come sport, come arte marziale, come ricerca interiore. Per quanto mi riguarda, ovviamente propendevo per l’Aikido della ricerca interiore. Ancora adesso in fondo la penso così anche se nel mio sentire queste tre cose non sono antitetiche o in conflitto tra loro. A ben vedere, tutte queste tre componenti sono coesistite nella mia pratica e forse se ne potrebbe aggiungere anche qualche altra. Hanno solo avuto un peso e un’importanza diversi secondo il periodo. Ritornerò in seguito su questo punto perché trovo piuttosto povero il discorso di chi sostiene che l’Aikido sia una cosa e non un’altra (per esempio un’arte marziale e non una via spirituale oppure un esercizio del corpo e non un esercizio dell’anima ecc.) cadendo così nelle solite dicotomie dualiste. Aikido, via che manifesta le infinite relazioni visibili e invisibili che esistono nell’universo, è espressione di una realtà complessa, individuale e collettiva: ciascuno di noi lo vive e se ne serve in maniera personale e unica per crescere e trovare un proprio equilibrio.

Anche l’immaginario personale rispetto a questa pratica cambia ed evolve nel tempo. Se così non fosse, se non ci fosse un’evoluzione, una comprensione che mutando si approfondisce e uno slancio che si rinnova periodicamente, non sarebbe possibile continuare senza “fossilizzarsi”. Ci annoieremmo e sospenderemmo la pratica per cercare altrove, il che, peraltro, a molti accade spesso.

Facciamo un passo indietro e ritorniamo alla definizione di Aikido come sport, arte marziale e ricerca interiore. Posso dire che della pratica sportiva ho sempre coltivato anche nell’Aikido il piacere del gesto coordinato, pulito e possibilmente bello da vedersi; ho sempre adorato il dinamismo delle cadute in avanti e indietro; e anche dato il giusto valore al buon esercizio fisico attraverso lo studio e la consapevolezza dei movimenti.

Arte marziale è stata invece per me sinonimo di cultura (la conoscenza del Giappone e delle sue tradizioni che per tanti anni mi hanno appassionato e hanno nutrito il mio immaginario) ma anche di rigore e di rispetto verso me stesso e verso gli altri. Se nella pratica sportiva giovanile, precedente all’Aikido, c’era un evidente bisogno di prevalere, l’occasione di praticare un’arte marziale ha risposto al mio bisogno di confrontarmi, di misurarmi senza più competere. Con l’arte marziale ho potuto scoprire, anche con un certo sforzo, che l’avversario non sta più al di fuori di noi ma dentro, che non gareggi con il tuo compagno di pratica ma che puoi essergli grato per il cammino che si riesce a fare insieme.

Ricerca interiore è tutto il resto, la parte nascosta dell’iceberg, il motore fondamentale che ti accompagna in tutto il percorso dell’esistenza. Espresso in altri termini essa è orientamento profondo, capacità di dare una direzione centripeta a tutto ciò che viviamo, dialogo autentico e onesto con il proprio Sé. E soprattutto, apertura e ascolto.

Lasciando l’Università, pensavo di lasciarmi la scuola alle spalle. In realtà ciò fu vero solo in parte. Infatti, uscivo definitivamente dalla scuola come istituzione ma entravo senza esserne troppo consapevole in un’altra forma di scuola: la scuola di un maestro. La prima esperienza scolastica durò una ventina di anni e così… anche la seconda! Molto probabilmente entrambe durarono un po’ troppo ma così va la vita, ciascuno ha bisogno dei suoi tempi e non si possono bruciare le tappe anche se lo si vorrebbe.

La scuola di un maestro, il seguirlo, è forse un passaggio necessario in un determinato periodo della propria vita. Per me lo è stato e non ne sminuisco l’importanza. La relazione tra maestro e allievo nasce da un incontro: entrambi si cercano e, un bel giorno, non per caso, l’incontro la rende possibile. La qualità di questa relazione dipende da uno e l’altro: se non si tiene viva l’attenzione facilmente scade e degenera.

Com’è facile intuire, il rapporto che viene a crearsi tra maestro e allievo è stretto e va a toccare sfere delicate della vita di entrambi. È necessario mantenere delle sane distanze e procedere con cautela perché se i frutti che ne possono scaturire sono molti e diversi è vero anche che, se viene a mancare la consapevolezza, si fa in fretta a cadere nelle conseguenze negative, nel danno, nelle sofferenze.

Non intendo affrontare qui la mia personale vicenda con la persona che allora consideravo un maestro, il mio maestro, perché ciò richiederebbe troppo spazio e mi porterebbe fuori tema. Se sarà necessario, potrò farlo forse in seguito in un contesto più specifico. Di sicuro, il mio vissuto ha contribuito a formare il mio pensiero attuale e costituisce una chiara linea guida rispetto a come agisco e intendo agire nel futuro: so cosa vorrei si ripetesse ma soprattutto cosa non voglio che si ripeta nella mia relazione con altre persone o con chi pratica con me.

Un buon maestro è tale perché fornisce delle chiavi di lettura e degli strumenti, nutre le differenze e le unicità, soprattutto sa dove sta andando e da dove viene. Come un uccello vola davanti e gioisce il giorno in cui l’allievo vola altrove e per la sua strada, in un’altra direzione. Quest’ultima immagine mi è stata offerta all’inizio del 2005 da Sotigui Kouyaté in un momento in cui attraversavo una profonda crisi. Egli mi ha fatto intuire che alla fine di un percorso lungo e complesso come quello della nostra vita c’è una libertà infinita. Mi ha detto anche, quando dubitavo delle mie capacità: “Devi continuare a dire ciò che hai da dire attraverso l’Aikido, con la fierezza di un animale selvatico”.

Poche parole, se dette al momento giusto, bastano per rimettere in piedi un uomo che fatica a rialzarsi. Anche questo può fare un buon maestro.

Un cattivo maestro crea invece confusione di ruoli e dipendenza affettiva, è attaccato a un potere che è incapace di cedere, non favorisce una libertà futura ma la teme. Chi lo segue tende a vedere in lui la verità incarnata o colui grazie al quale alla verità si può arrivare. Un falso maestro si culla in questa consolazione che conferisce senso a tutto il suo operato e comprensibilmente non fa nulla per risvegliare l’allievo da questa illusione: anzi l’alimenta per tenerlo stretto a lui. Risultato: due prigionieri invece di due uomini liberi.

Nessuna strada porta alla verità, questo conviene saperlo e dirlo fin da subito.
Una verità univoca e immutabile non esiste, ne consegue che nessuno possa farsene portatore né sostenere di essere in grado di definirla o possederla.
La verità della realtà è qui e ora, brilla d’istante in istante assumendo infinite forme diverse. Può essere colta, intuita, sentita ma non trasmessa.
Riluce negli occhi e nei corpi di tutti gli esseri che vivono in questo stesso momento.
Quindi mai fidarsi di un maestro che si definisce tale e che invita qualcuno a seguirlo per più di dieci passi. All’undicesimo cadrete insieme nel burrone.
Un buon maestro sa di poterlo essere solo transitoriamente, in un momento particolare, con una persona particolare, in una situazione particolare.
Egli sa anche di non sapere e fonda la relazione con i praticanti affermando apertamente questa semplice verità.

Talvolta i maestri sono solo piccoli maestri. Avviene quando incarnano uno spirito in fin dei conti banalmente scolastico da cui non aspirano allontanarsi. Quando pensano di poter insegnare e trasmettere una conoscenza stabilita e valida per tutti. Quando cioè non educano più a un pensiero libero e felicemente divergente ma, nonostante a parole affermino il contrario, conducono chi li segue ad un pensiero unico e conformista. Ciò appare evidente quando si guarda l’ambiente in cui operano: gli allievi cominciano a temere di dire o fare la cosa sbagliata, non osano più esprimersi con la propria voce per paura di essere ripresi. Per questo la nostra società è popolata da molte persone che ripetono ed eseguono e da poche che creano sviluppando appieno le proprie potenzialità. Il meccanismo scolastico è diffuso e comune.

Nel 2004, ho lasciato volontariamente la scuola per la seconda volta ed è stato quando mi sono allontanato da un contesto di questo tipo e dal maestro che lo suscitava. La mancanza di respiro mi faceva soffocare, la mia parola languiva, tutto il mio essere tremava nell’incertezza, nel dubbio, nell’insoddisfazione. Ovviamente la mia pratica, in tutte le sue forme, era in quel periodo sclerotica e spenta, l’Aikido mancava di slancio e di gioia, il movimento spontaneo era bloccato da un eccesso di coscienza e di sofferenza mentale. Dovevo tirarmene fuori, da solo, per sopravvivere e forse per ricominciare a vivere. E camminare facendo affidamento ai miei piedi, alle mie gambe, al mio cuore. Penso di esser diventato un uomo adulto proprio in quei giorni.

Dal punto di vista dell’Aikido i vent’anni con un maestro sono senz’altro serviti a qualcosa. Meno male direte voi… e mi aggiungo al coro tirando un respiro di sollievo. Il contrario, per analogia, sarebbe come affermare che tutto ciò che è avvenuto nell’infanzia dietro ai banchi di scuola sia stato soltanto inutile, privo di interesse, negativo. Dei miei primi e dei miei secondi vent’anni “scolastici” conservo invece moltissimi ricordi felici, allegri, fecondi. Ho sicuramente imparato tanto. Non importa dire che avrei sicuramente imparato altrettanto anche seguendo percorsi diversi: è andata così.

Incontrai il maestro circa due anni dopo aver cominciato l’Aikido. Fin dalla prima volta che lo vidi muoversi sui tatami mi si spalancarono delle porte interiori: vidi quello che da molto tempo stavo cercando e seppi con certezza che volevo farlo anche io. Mi ci vollero però troppi anni per capire che ciò che mi toccava e risvegliava in me un dragone sopito non era lui ma qualcosa di più grande che attraverso di lui prendeva forma. Mi creai un idolo e per lungo tempo non seppi vedere oltre. Poi un bel giorno scoprii l’importanza delle icone che lasciano intravedere ciò che sta aldilà. La Vita e il divino pulsano dietro alla forma.

L’Aikido, come tutte le arti, ha il proprio linguaggio e i propri codici. Ero quasi un principiante e li conoscevo solo grossolanamente. L’apprendistato con il maestro servì anche a questo, a darmi delle solide basi e a scoprire come padroneggiare i codici di questa pratica che amavo tanto. Il suo insegnamento fu generoso e non frammentato o distillato con il contagocce. Dal canto mio ero veramente assetato di apprendere e mi impegnai a fondo: “rubai” anche molte cose che non possono essere trasmesse. Per avvicinarmi il più in fretta possibile al mio Aikido, quello che portavo dentro.

Nel 2004 ruppi con il maestro e lasciai quella che era stata la mia casa di pratica per molti anni. Si stava trasformando in una scuola ben strutturata, con livelli e gerarchie e un generale appiattimento delle differenze. Non mi riconoscevo più in quell’ambito in cui tutto finiva per perdere di spontaneità. Inoltre mi veniva insistentemente chiesto di “posizionarmi”, di chiarire il mio ruolo nella struttura. Trovavo tutto ciò asfissiante e insopportabile. Lontano dalla libertà che desideravo e speravo. Il taglio fu netto e finora non ho mai rimpianto di essermene andato per la mia strada.

Per circa sei mesi, tra il 2004 e il 2005, sospesi la pratica dell’Aikido. Ero sfiduciato e disilluso, non credevo più in me né nelle mie possibilità. Dopo una parentesi all’estero, dove cominciai a praticare il Taiji quan, ritornai, mio malgrado, a Milano. Una mattina, decisi che avevo bisogno di riprendere, mi alzai e sui tatami di casa feci la pratica respiratoria (la prima parte dell’Aikido).

Così continuai a fare tutte le mattine seguenti: senza un orario definito, al risveglio, praticavo da solo l’Aikido. Dopo qualche tempo, si fece spazio in me una decisione. Avrei ripreso l’Aikido e sarei andato in una qualsiasi palestra per praticarlo - in quel momento una valeva l’altra. Quello che successe subito dopo è piuttosto sorprendente: appena presa la decisione arrivò una proposta da un’amica, Monica, che mi invitava a prendere in affitto uno spazio e fondare un’associazione con lei e altre due ragazze. Tutto avvenne con facilità e non passò molto tempo prima del giorno in cui furono posati i tatami nel nuovo Dojo.

Nacque così A ke lei naa dojo, dove ancora oggi pratico. Senza troppa preparazione, con una certa leggerezza, si realizzava un sogno che mi portavo dentro da molti anni. Non rimaneva che rimboccarsi le maniche e aprire questo nuovo capitolo. 

maggio 2017








 


domenica 9 ottobre 2016

Closlieu, un nuovo equilibrio nelle relazioni

 



Closlieu, un nuovo equilibrio nelle relazioni



Il Gioco del Dipingere è un’attività individuale che si svolge in uno spazio collettivo.

Lo spazio personale - il foglio su cui ciascuno dipinge, ciò che dipinge e come lo dipinge - vengono completamente rispettati e protetti. Il praticien-servente veglia affinché non ci sia alcun tipo di condizionamento o di intervento che possa interferire in questo spazio personale.

Tutto il resto è collettivo: tavolozza, colori, pennelli appartengono a tutti e da tutti sono usati con attenzione e cura.

Nel Closlieu, si parla di tutto tranne che di ciò che si dipinge.

A seconda dei momenti, ci può essere grande animazione o quieto silenzio, naturalmente, come nella vita di tutti i giorni. Nell’andirivieni tra tavolozza (strumento collettivo) e il proprio foglio (spazio individuale) c’è chi rimane in silenziosa concentrazione, chi canta tutto preso da ciò che sta dipingendo, chi chiacchiera allegramente con il proprio vicino... Insomma, non si è per niente soli ma, non essendoci alcuna comparazione, competizione o giudizio rispetto a ciò che si dipinge, non si ha nessun bisogno di proteggersi da ingerenze esterne. Ci si sente semplicemente a proprio agio, in un luogo che ci accoglie nella nostra unicità e che al contempo ci rispetta senza obbligarci a conformarci a modelli che non ci corrispondono.

La comunità che viene a crearsi in un Closlieu è particolare e unica; l’equilibrio dei rapporti umani - anche tra persone che si conoscono al di fuori - è un equilibrio nuovo. Nel Closlieu non ci sono bambini e adulti, figli e genitori, maschi e femmine. Ci sono solo persone, tutte sullo stesso piano, senza livelli. Individualità che sono in quel luogo con un unico scopo: giocare a dipingere. Ruolo del praticien-servente è quello di far sì che questo gioco possa svolgersi con la massima pienezza e il massimo piacere possibile. 

Nel Closlieu, durante l’attività, non entrano estranei o visitatori. Chi è dentro, a parte il praticien che partecipa per servire al gioco, vi è soltanto per dipingere. Genitori e figli (a condizione che comincino insieme fin dal primo giorno) possono dipingere contemporaneamente nello stesso gruppo. Ma la mamma, o il papà, non saranno e non faranno più “la mamma” o “il papà”, intervenendo, facilitando o.. complicando le relazioni dei propri figli con il Closlieu. Saranno lì esclusivamente per dipingere in prima persona e per riscoprire il grande piacere che proviene dal tracciare liberi e senza preoccupazioni di riuscita. Lasceranno al praticien-servente, e alla sua esperienza, la facoltà di intervenire o di non intervenire a seconda del bisogno.

Il mio cammino di santiago (9)

                                                  La Meseta, deserto interiore che mi ha procurato infinito piacere

3 novembre

Il Deserto.

Giorni fa pensavo che non avrei parlato invece ha finito per tacere solo la mia penna.
Sarà impossibile oggi scrivere tutto ciò che è accaduto in questi ultimi giorni… Lo farò saltando avanti e indietro nel tempo, rievocando momenti significativi ed emozioni che però usciranno fatalmente dalla loro collocazione temporale in questo lungo viaggio… Molte cose cominciano a confondersi e altre a lasciare la presa. Tutto sommato, una sensazione gradevolissima…

ƒm

Ricordo una grande salita subito dopo Burgos, in un territorio burbero e desertico.
I colori sono quelli della terra rossiccia, della paglia secca e gialla nei campi e del sentiero sterrato e bianco.
Quella salita che si inerpica sul piccolo monte arido la si vede arrivare da lontano. Una nebbiolina – o delle nuvolette bianche – nascondono quella che sembra essere la cima rotonda del monticello. In realtà scoprirò poi che si tratterà di un piccolo altopiano seguito poi da una lunga e dolce discesa. vedo davanti a me tanti piccoli omini che procedono lentamente distanti uno dall’altro. Salgono pian piano seguendo il lungo sentiero che si snoda come un serpente verso la cima. Uno dopo l’altro raggiungono le nebbie e scompaiono inghiottiti dal mistero. È una scena dantesca di cui mi sentivo parte integrante e pensavo con piacere che dopo pochi minuti anche io sarei stato guidato da un inesorabile destino dentro quella foschia e che il paesaggio fin lì nascosto si sarebbe svelato ai miei occhi. Pensavo a “La Nube della Non-Conoscenza” scritta da un anonimo monaco del medio-evo e non avevo dubbi che il paesaggio che vedevano i miei occhi potesse esserne un’illustrazione ideale.
Mi sono sentito anch’io omino piccolo piccolo legato ad altri esseri umani in un’unica catena viva e in perpetuo movimento. Le nostre persone e le nostre individualità perdono di rilevanza e di significato. Molto più grande di noi è l’onda che ci unisce, ci porta e ci accompagna…



                     Le kernes nel deserto ci segnalano che siamo sulla buona strada. 
                     Laggiù tre piccoli pellegrini mi precedono…


L’altro ieri sera sono svenuto.
Credo che sia la prima volta che mi accade.
Non ho perso completamente la coscienza, ne è rimasta appena un filo.
Sentivo le voci che mi chiamavano da fuori
e due mani forti che mi tenevano i tendini di Achille.
Erano le mani di Silke, un angelo svizzero, che silenziosa è venuta
e mi ha permesso di tener sveglia l’attenzione nei piedi.
Solo il suo intervento provvidenziale mi ha tenuto di qua,
se avessi perso coscienza la situazione si sarebbe complicata molto, almeno credo.
Avevo camminato tanto, tanto, 38 km…
Un passo dietro l’altro, un avanzare infinito e solitario nel sentiero sempre dritto che sembra non arrivare da nessuna parte.
Arrivato nel piccolo rifugio di Calzadilla ero fiero di me e soddisfatto.
Come tutte le sere ho lavato i panni, questa volta fuori all’aperto.
Calando il sole è scesa la temperatura e non ho sentito il vento gelido perché ero felice.
Ho preso freddo.
In un piccolo ristorante ho mangiato e bevuto tanto, anche se non più del solito.
Insieme al dessert, all’improvviso sono arrivati il sudore freddo e la nausea.
Credo di esser sbiancato in volto e mi sono alzato dicendo ai miei commensali che rientravo…
Ho giusto avuto il tempo di cadere, accompagnato dolcemente a terra da non so chi.
Ricordo che stavo disteso sul suolo freddo con la sensazione del corpo che si riposava.
Ci si vede e ci si sente da fuori in quei momenti e da un altro fuori ancora parlano e si muovono voci e persone che vedi in una indistinta foschia. Non sentivo agitazione e percepivo forte la presenza tranquilla di Silke. Su di lei ho preso appoggio e dopo qualche minuto ho potuto sedermi e lasciar scattare un po’ il movimento della testa. Siamo rimasti così qualche tempo, con le sue mani un po’ dure ma senza idee sulla mia schiena ed io che pian piano riemergevo tranquillizzando il ristoratore che non ha dovuto chiamare soccorso. Non era comunque il primo caso di “congestione di pellegrino” che vedeva e l’esperienza, si sa, ti fa affrontare ciò che accade con meno preoccupazione.
Sono poi riuscito ad alzarmi mentre Silke si è dileguata nel nulla senza che potessi nemmeno dirle grazie. Accompagnato e sostenuto da altri due angeli spagnoli – Antonio a sinistra e Roberto a destra – siamo usciti. Era una bella sensazione sentire la presa delle loro braccia forti e dopo qualche passo, con l’aria fresca della sera che mi riempiva i polmoni, di colpo mi sono risvegliato davvero.
Nella notte spagnola, camminare nel buio di una stradina semi deserta verso l’accogliente albergue che promette tutto il riposo necessario, portato a piene mani da due angeli generosi. Cosa c’è di più bello?
Entrato nel mio letto non ci ho messo molto ad addormentarmi profondamente, ricordo solo il volto del barbuto Philippe che mi porta l’acqua e la pone di fianco al mio letto…
La febbre alta della sera alla mattina è completamente sparita. Risvegliandomi mi sento pienamente ristabilito e come se nulla fosse accaduto posso riprendere il mio cammino in piena forma.
Uno svenimento può essere un punto di arrivo ma anche un inizio e un passaggio…

ƒm


 Philippe

Una piccola presentazione tutta per lui Philippe la merita. L’ho visto per la prima volta sotto le docce dell’albergue di Estella e avevamo scambiato due parole. È francese, ha la barba nera, i capelli un po’ arruffati e 54 anni. Fisicamente è il ritratto sputato del Capitano Adoc – si chiama così? – del fumetto di Tintin. Vederlo camminare è straordinario: porta uno zaino immenso e regolato malissimo che deve pesargli in modo penoso. Ho provato a dargli qualche consiglio, che spero potrà tornargli utile, sul modo di portarlo senza compromettersi troppo spalle e schiena. La sua andatura è poi condizionata da un grave problema alle vene delle gambe che sono state operate e oggi sono un po’ deformate. Risultato, il suo sembra proprio il deambulare di una persona ebbra, ciondola a destra e a sinistra seguendo delle traiettorie ondulate che poco hanno a che spartire con la linea retta. Vederlo avanzare nel vento finisce per diventare commovente e sono pieno di ammirazione quando vengo a sapere che il suo cammino è cominciato ad Arles – il cammino piemontese – molti km prima del mio punto di partenza. Abbiamo ovviamente ritmi molto differenti ma ciò non impedisce che diverse volte in questi giorni ci si sia incontrati e si siano potute scambiare parole gradevoli, del cibo e degli incoraggiamenti.

ƒm

La giornata di cammino che è seguita allo svenimento è stata assolutamente normale e senza intoppi o fatiche particolari. Ho camminato senza forzare e con un po’ di vigilanza ma nessun segno particolare del mio corpo mi ha messo in allerta. Lungo sentiero diritto a tratti costeggiato da campi arsi dal sole in cui le balle di fieno dorate contrastano con il cielo terso blu e le sue nuvole bianche spostate dal vento.



                             Non sono che un’ombra in questo grande mondo.



Avanzo tranquillamente e mi guardo i piedi che sembrano andare da soli. Sentire il suono dei loro passi e vederli in questa costante e quieta attività mi da un gran senso di pace e di benessere. Chi sente per una volta questo piacere che viene da dentro ha l’impressione che non potrà mai più perderlo e che nei momenti di sconforto che dovessero un giorno sopraggiungere basterà uscire e camminare, camminare, camminare… Non c’è equilibrio più profondo di quello che ci proviene da questo naturale modo di spostarsi. Il corpo vive, consuma energie vecchie e si nutre di nuove, la mente lascia la presa e perfino il pensiero diventa giovane, creativo e vivace. Da consigliare a filosofi e scrittori che non escono mai dalle mura protette della loro casa-prigione…

Ecco sì, in questo giorno di “convalescenza” un desiderio lo avrei… è semplice ma del tutto irrealistico in questa landa sperduta e quasi disabitata. Eppure, ditemi voi se non è vero che lassù - o laggiù, comunque da qualche parte – qualcuno non ci ascolta e ama esaudire le nostre richieste sensate e sincere… Sogno un bagno caldo e il bagno caldo ottengo, in condizioni del tutto particolari e inaspettate!

A Bercianos, in un rifugio semi abbandonato in cui, insieme ai pochi pellegrini con cui arrivo, non incontriamo anima viva trovo una vera sala da bagno con una vasca rosa! Proprio come quella che avevo a Venezia ai tempi dell’università e, come allora, mi trovo a scaldare l’acqua nei pentoloni, che porto fumanti da una stanza all’altra. Nella vasca, non usata da chissà quanto tempo, non c’è nemmeno il tappo e devo inventarne uno riempiendo il fondo di un sacchetto di plastica con dell’argilla presa nel campo che sta fuori. Il bagno riesce bene, mi rilassa e mi rigenera mentre i miei compagni di ventura mi guardano uscire dalla stanza un po’ arrossato e contento, sono piuttosto colpiti ma non osano concedersi lo stesso piacere.

Nel rifugio incontro Rebecca Maddalena, una tedesca bruna, che cammina da sola perché lei e il suo compagno hanno un ritmo di cammino troppo differente l’una dall’altro. Hanno progettato di ritrovarsi tra una settimana. Chissà, in una settimana di cammino succedono tante cose… È difficile camminare in coppia e la loro decisione non mi sorprende troppo. La sera ceniamo insieme. Tra gli altri c’è anche Philippe che è un po’ troppo preoccupato per il mio stato di salute. La cosa mi irrita e per un motivo futile - una discussione sul vino e sui francesi - finiamo per urtarci e litigare. Mi pento quasi subito di alcune battute un po’ ruvide che mi sfuggono ma ormai è troppo tardi e il nostro rapporto si deteriora.

Ora un’altra bella storia semplice e emblematica di questo cammino.
Prima di Bercianos raccolgo sulla strada un berretto verde. A chi potrà appartenere? Decido di portarlo con me per qualcuno che sicuramente sta camminando più avanti.
Lo incontrerò? Quando giungo a Bercianos, la prima cosa che faccio è di chiedere a Rebecca se appartenga a lei. Risponde di no ma ci riflette un po’ e poi esclama: “Credo di sapere di chi sia! È di Jennifer, un’americana dai capelli rossi che cammina davanti a  noi.” La sera do il berretto a Tacio che viaggia in bici e avanza più velocemente di noi. Gli dico: “Se incontri un’americana che si chiama Jennifer dille che un italiano dietro di lei… “. Per strada il giorno dopo lui la incontra effettivamente e le consegna il berretto con il misterioso messaggio. Questo avviene in un momento in cui lei si sente triste e sola. Un po’ scoraggiata. Mangiano insieme e lei non riesce a capacitarsi di come “lo sconosciuto italiano” possa sapere il suo nome e sapere che il berretto sia suo… Decide così di fermarsi a Mansilla invece di continuare fino a Léon ed ecco che finiamo per incontrarci. Tra poco, nella cucina di un piccolo albergue, mangeremo insieme la paëlla preparata dagli angeli spagnoli Roberto e Angel. C’è anche Rebecca, con cui ho camminato tutto il giorno lungo un sentiero senza una curva, immersi in una densa bruma ormai invernale.


ƒm


Incredibile cammino,
più proseguo e più mi sembra di perdere il filo.
Il filo però c’è, è quello che lega noi tutti pellegrini.
Un solidissimo filo di ki.
Prima di me, infiniti sono quelli che mi precedono.
Dopo di me, infiniti sono quelli che mi seguono.
È questa l’unica cosa che possiamo fare camminando: cercare.
Ciò che continuiamo a cercare, più o meno consapevolmente.
è il nostro giusto posto in questa immensa catena umana
fatta di persone ordinarie eppure straordinarie,
animate tutte da una vera spinta interiore.
C’è il tempo per conoscersi, per incontrarsi e rincontrarsi.
Per perdersi e per ritrovarsi.
Corriamo dietro a qualcuno che ci attende là davanti,
rallentiamo per attendere qualcuno che ci insegue.
Lascio segnali di pietra per chi verrà dopo di me.
Scruto, guardo ammirato e apprezzo i segni e i segnali lasciati da chi mi precede.
Sono segnali di pietra, di legno o di ki.
Oggi ho lasciato una nuova croce ortodossa di pietra sul bordo del sentiero.
Ho scritto anche un messaggio: “Hi Stéph”.
Ora che non ci vediamo più voglio incoraggiarla nel suo cammino che forse è solitario.