giovedì 14 ottobre 2021

Lavoro e nobiltà dell'esistenza



Senza alcun motivo razionale, morale, etico, sanitario e giuridico che lo giustifichi.
Senza logica (se non perversa) né buonsenso e nemmeno nell’interesse comune.
Senza amore, rispetto altrui, empatia...
Io perdo il mio lavoro.
Così almeno sembra.
Infatti non mi è più concesso svolgerlo né proporlo nelle modalità che mi corrispondono.
Non rientrerebbe in parametri che peraltro non posso riconoscere.
Questa situazione di privazione, di sottrazione indebita, di quello che è un mio diritto costituzionalmente riconosciuto perdura ormai da un anno e mezzo e sarà ancor più vera e tangibile da domani, giorno infelice nella storia italiana.
Eppure...
Stiamo parlando del lavoro per cui mi sono formato, per cui ho studiato, per cui ho sudato.
Del lavoro che mi ha appassionato e che mi coinvolge fino al midollo.
Del lavoro che amo e che nobilita la mia esistenza.
Ho sempre considerato questo lavoro come la possibilità concreta di realizzazione della mia persona.
Sono poi giunto anche alla consapevolezza - me la sono conquistata - che quest’attività, piccola o grande che sia, non solo ha fatto di me una persona migliore e perfino utile alla collettività ma contribuisce - e spero contribuirà - alla crescita, al benessere e finalmente al bene di molte altre persone.
Nutre le loro vite come la mia.
È un lavoro che, cosa che non si può sentire ai nostri giorni, non ha lo scopo di esser produttivo, non farà crescere il Pil nazionale se non in modo insignificante ma che tuttavia, in modo quasi incomprensibile, risulta prezioso sia per me sia per altri.
Perciò, anche se non potrò svolgerlo come sarebbe mio diritto insindacabile fare (in uno stato di diritto, certo) continuerò a coltivarlo, ad approfondirlo, a mantenerlo vivo per giorni migliori di questo. È un impegno personale che devo in primis a me stesso.
Non mi aspetto nulla dallo stato e dalla res publica verso il quale la mia fiducia è ormai ridotta al lumicino. Nemmeno voglio sostegni pubblici e ipocriti.
Dal punto di vista collettivo spererei solo in un risveglio di coscienze, in una presa di responsabilità, nel ritorno di una cultura dell’ascolto e del rispetto.
Resisterò comunque e lo farò anche da solo sulla base delle mie forze, delle mie convinzioni, del mio amore per la vita. Resisterò senza adeguarmi a ciò che non considero giusto. Non so se ciò significhi essere incapace di resilienza ma in fondo non la capisco molto questa parola che mi sa molto di accondiscendente quieto vivere. Anch’io nel mio profondo coltivo la non-resistenza di cui parlava Morihei Ueshiba, ma non-resistenza significa comunque agire, agire con consapevolezza, e ad agire siamo tutti chiamati soprattutto in momenti come quello che attraversiamo.
Più di tutto però sarà una gioia abbracciare, condividere e camminare insieme a compagni, amici e fratelli che - uniti a me - terranno accesa la fiammella della vita libera.

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