mercoledì 12 marzo 2014

Dakar, diario di un'immersione (3)

 
Assan M’Baye, angelo custode

Fa parte della vecchia generazione, Assan, di quelli che danno e non chiedono nulla in cambio. Soprattutto non chiedono soldi. Credo siano rimasti in pochi. Percussionista eccelso, tutti lo conoscono a Guele Tapée e alla Medina. E’ un accompagnatore nelle formazioni di sabar (non un tambour-majeur) ed è stato il mio accompagnatore durante la mia permanenza a Dakar. Con amicizia e affetto sincero. “Yaay sama xarit”, tu sei mio amico. Non ha mai smesso di dirmelo.
Oggi, primo giorno senegalese, è con lui che esco e muovo i primi passi per le strade del mio quartiere. Compro una scheda telefonica locale per il mio cellulare. Qui costano pochissimo, 2500 franchi cfa, circa 3 euro. Tutto, tranne l’acqua in bottiglia e poche altre cose, per noi risulta davvero economico. Ora potrò ricevere telefonate e farne senza dipendere dalle cabine. Soprattutto potrò prestare il telefono a tutti quelli che, pur muniti di cellulare, hanno il credito immancabilmente scaduto.
I negozi che danno sulla strada sono quasi tutti piccolissimi. Cosa li differenzia? Alcuni sono pieni di merce altri ne scarseggiano. Qualche scaffale desolato con poche scatolette e prodotti contati sta alle spalle di un venditore dall’aria triste. Il suo vicino ha invece successo e lo si vede: troneggia fiero nella sua boutique stracolma di tutto. I negozi sono aperti e non hanno vetrine, quindi non si entra dentro. Hanno tutti un bancone di vendita che da sul marciapiede. Sono disposti in continuità, uno a fianco dell’altro. Fuori ci sono panchine e sedili, comunque quasi sempre uomini seduti. Le donne passano e acquistano senza fermarsi troppo. Loro hanno da fare, a differenza degli uomini. In ogni negozio si mercanteggia il prezzo che, come tutto il resto qui, è flessibile e soggetto a mutamenti continui. E poi si parla, si scherza e si fa conoscenza.
Dall’altra parte della strada c’è il mercato di Soumbédioune, di dimensioni medie. All’esterno l’abituale schiera di negozi di strada, all’interno un dedalo di spazi e sottospazi dove si vende di tutto e si fatica anche solo a passare. Sarti e stoffe ovunque, poi spezie e incensi, verdure e frutta, carne, pesce e un’infinità di mosche.
Se devi acquistare devi farti avanti. Nel senso che se anche si formano delle piccole code di clienti non per questo i turni vengono rispettati. In genere acquista per primo colui che coglie il momento giusto per accaparrare l’attenzione del commerciante per chiedere quello di cui ha bisogno. Se non ti fai valere puoi anche essere superato da cinque, sei persone, una dopo l’altra, e rischi di aspettare tempi lunghissimi. Superare o essere superati non è sconveniente né riprovevole. A differenza di quello che succederebbe da noi, nessuno si incazza se viene bruciato sul più bello da un altro più rapido. “C’est la vie…”.
Questo lo capisco anch’io da subito, la gente sembra più paziente e meno nervosa. Forse sono soltanto meno stressati degli europei e quindi meno inclini ad incollerirsi per motivi futili e di principio. Non saprei dire. Eppure se penso alle code agli sportelli delle poste in Italia o in Francia e alla fredda e silenziosa noia che vi regna, ovviamente interrotte di tanto in tanto da inviperiti cittadini che protestano contro le mancanze dello Stato o dell’amministrazione pubblica… e se confronto tutto questo con analoghe situazioni di attesa vissute in mezzo agli africani e ai senegalesi dove, nell’attesa, le persone ridono, scherzano e soprattutto comunicano tra loro… Sì credo davvero che la capacità di attesa paziente sia nel DNA di ogni africano. Paziente non significa per forza succube. Vedi gente che attende senza farne un dramma, tutto qui. Forse anche perché non c’è alcun rischio di arrivare in ritardo da qualche parte. Qui il ritardo non esiste, o meglio è semplicemente parte integrante della realtà di ogni istante. Si è sempre in ritardo quindi non lo si è mai, quindi non c’è motivo di stressarsi. L’ora dell’orologio davvero non sembra contare più di tanto. E’ rispettata, è un segno di civiltà e di modernità, ma a ben vedere fondamentalmente superflua. Il mondo avanza per conto suo indipendentemente dalle lancette dell’orologio.
Rispetto alla pazienza ho molto altro da dire. Lo farò in seguito. Credo che si possa dire che la pazienza sia uno dei principali insegnamenti che possiamo trarre dall’Africa. Pazienza significa anche respirare profondamente.

Lasciamo Soumbédioune alle nostre spalle e ci dirigiamo verso il mare. Non è lontano e conto di andare in spiaggia la mattina presto per praticare il taiji. Prima delusione… Solo per arrivarci, a questa spiaggia, si devono superare zone talmente maleodoranti che devo tapparmi il naso. Attraversiamo un ponticello su un canale che è una vera e propria cloaca a cielo aperto. Mare? Luogo dove tutto si scarica e che tutto non può assorbire. Le belle barche colorate mi lasciano piuttosto indifferente perché le immagino galleggiare sulla merda liquida. Cercherò altre spiagge per il taiji. Amul problème, nessun problema…
            Continuo a camminare a fianco di Assan. Il suo passo è lento e dinoccolato. Mi rimarrà impresso quel suo modo di ciondolare un po’ indolente ma per nulla sgraziato. Mentre cammina, non credo che pensi ad altro. Credo che cammini e basta. Semplicemente. Mi piace stare con lui e i lunghi silenzi sono gradevoli. Lasciano spazio per eventuali incontri. E consentono ai miei occhi di impregnarsi poco alla volta, senza fretta, di questo nuovo mondo, di questa luce così intensa, di una città che non conosco ancora. Sento che Assan rispetta il mio ritmo. Questa qualità me la offrirà anche nelle lezioni di percussioni con il sabar che già dall’indomani gli propongo di darmi. Apprezzerò molto il suo insegnamento silenzioso e mite.


 Per strada

E’ bello camminare in queste strade. Tutto è in movimento e rumorosamente vivo. Nei primi giorni ho l’impressione di essere osservato. Poi la sensazione cambia e comincio a sentire che il quartiere ormai mi conosce, sa chi sono: il tubaab che balla e suona il sabar (fecc ak tëgge). I bambini verranno ogni volta a darmi la mano e a far risuonare la pelle tesa del tamburo che mi sono fatto costruire da Assan. Mi vengono alle spalle e ci battono su allegramente. Da lontano mimano il gesto di chi suona il sabar. Tra i tanti giochi che fanno per strada, l’attività musicale ha il suo spazio privilegiato. Ogni tanto li vedi correre con taniche di plastica e bacchette di legno tra le mani. Si affrettano per raggiungere altri coetanei dotati di simili strumenti rudimentali. Insieme, formano veri e propri ensemble di percussioni. Poco importa se gli strumenti sono improvvisati, la musica che producono è viva e riconosco i ritmi. E’ solo un’imitazione degli adulti che hanno continuamente l’occasione di ascoltare o l’espressione di una musica che hanno nel sangue fin dalla nascita? Poco importa, è bello vederli compresi e contenti di battere sulle loro ghirbe colorate. Molti di loro imparano così a suonare. Sicuramente sognano i veri sabar che un giorno lontano potranno forse permettersi. Potessero i bambini di Milano suonare per strada o semplicemente giocare come fanno qui.
Giochi semplici. Adoro quello del bastone a cui è appeso uno spago con dei pezzettini di carta colorata o di stoffa che vengono sventolati a destra e sinistra. Il bambino corre trascinando dietro di lui questi mini aquiloni. Lo spago diventa invisibile e si vedono soltanto questi esseri luminosi e svolazzanti che descrivono circonvoluzioni morbide e leggere. In genere le carte volanti dell’uno si incrociano e sfiorano quelle dell’altro. Un gioco che evoca qualcosa di assolutamente poetico, che sorprende e ti lascia incantato per la sua semplicità. Scaturisce dalla sola fantasia dei bambini e credo esista qui da tempi lontani (io stesso lo avevo già visto nei film). Non si avverte il bisogno di case produttrici di giocattoli.
A calcio giocano in tanti. In mezzo alla strada, spesso in spazi ristretti. Abilmente vengono evitate le auto che passano di continuo. Gli autisti suonano il clacson per segnalare che stanno arrivando anche se poi mica frenano. Il pallone vola, non di rado sbatte contro le macchine o finisce tra i piedi di passanti che non fanno una piega. Incredibilmente nessuno protesta, nessuno si incazza per le pallonate ricevute. Nessuno si rivolge ai bambini per rimproverarli o scarica contro di loro la sua rabbia. In molti casi c’è un’assoluta indifferenza, una non reazione dovuta forse ad un’elevata capacità di sopportazione. Fa parte della normalità ricevere pallonate mentre si cammina per queste vie, così come lo spostarsi con rapidità mentre i taxi ti sfrecciano accanto senza rallentare. Qualche grande rilancia la palla cercando il colpo ad effetto, ricordandosi di esser stato anche lui bambino e di aver giocato nelle stesse condizioni.
In ogni caso, qui puoi sederti sul lato della strada e rimanerci a lungo senza annoiarti. Guardi la vita che scorre davanti ai tuoi occhi. Si passa molto tempo a guardare, forse perché i momenti “produttivi” non occupano tutta la giornata ma sono intervallati da tanti momenti vuoti. Guardare senza scopo però non è affatto privo di interesse: si imparano molte cose, si partecipa a tante avventure senza molto sforzo. Gli occhi lavorano mentre il cervello riposa.
Qui, tante cose avvengono fuori, in mezzo agli altri. I falegnami e gli artigiani lavorano davanti a tutti, i meccanici smontano e rimontano da cima a fondo le auto, perfino le preghiere sono per strada: un ragazzo ogni giorno all’ora indicata stende il suo tappeto proprio davanti alla casa in cui abito e si concentra sulle sue invocazioni. Ancora, il venerdì pomeriggio, alla preghiera delle 14.00, centinaia di persone pregano sulle stuoie di paglia stese sui marciapiedi. Per mezzora la via è bloccata e non si può passare.
Ecco, forse mi sento di dire questo. Da noi, in Europa, c’è il dentro – la casa, l’appartamento, l’ufficio, il negozio – e il fuori – la strada. A Milano, quando si esce per strada è il più delle volte per spostarsi da un “dentro” ad un altro “dentro”. Circolare per le nostre vie si limita essenzialmente ad uno spostamento. Ogni tanto si fa una sosta al bar, c’è bisogno di pausa. Comunque per strada, di giorno, ci si muove: non ci si ferma più di tanto, non si sta, non si è. Il percorso per strada ci separa da un prima e ci porta ad un dopo. Il prima e il dopo ci appaiono importanti – produttivi – il trasferimento dall’uno all’altro, tempo sostanzialmente perso – improduttivo. A parte i clochard o chi chiede l’elemosina, chi altro sta seduto sul marciapiede solo per essere lì, per vedere, per esser visto?
A Guele Tapée quando sei per strada sei ”dentro”: dentro al mondo sociale, al mondo del lavoro al mondo della condivisione. E’ molto forte la sensazione che provi arrivando in strada e difficile da spiegare: più che di uscire senti forte il fatto di “entrare” in qualcosa. Tutto o quasi si svolge lì. Se devi percorrere a piedi una via di duecento metri ti fermi almeno dieci volte a salutare qualcuno o a rispondere a chi ti chiama. Ovviamente poi tutti sanno tutto di tutti. Vivere in incognito credo sia assolutamente impossibile. Qualunque cosa tu faccia, c’è sempre qualcuno che ti vede e ti osserva. Non si possono scattare foto alla leggera. Ogni foto è per così dire un atto di coraggio e segue a una decisione presa. Certi giorni non mi sentivo abbastanza forte per farne. Perché immancabilmente ogni foto fa scaturire un commento, una proposta di dialogo o di scambio verbale. Questa società ti ingloba rapidamente nel suo complesso tessuto di relazioni sociali, la vita solitaria non credo sia nemmeno immaginabile. Fare foto viene letto come un’immediata richiesta di comunicazione, subito i senegalesi ti rispondono, ospitali e curiosi come sono!

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