Assan M’Baye, angelo custode
Fa
parte della vecchia generazione, Assan, di quelli che danno e non chiedono
nulla in cambio. Soprattutto non chiedono soldi. Credo siano rimasti in pochi.
Percussionista eccelso, tutti lo conoscono a Guele Tapée e alla Medina. E’ un
accompagnatore nelle formazioni di sabar (non un tambour-majeur) ed è stato il mio accompagnatore durante la mia
permanenza a Dakar. Con amicizia e affetto sincero. “Yaay sama xarit”, tu sei mio amico. Non ha mai smesso di
dirmelo.
Oggi,
primo giorno senegalese, è con lui che esco e muovo i primi passi per le strade
del mio quartiere. Compro una scheda telefonica locale per il mio cellulare.
Qui costano pochissimo, 2500 franchi cfa, circa 3 euro. Tutto, tranne l’acqua
in bottiglia e poche altre cose, per noi risulta davvero economico. Ora potrò
ricevere telefonate e farne senza dipendere dalle cabine. Soprattutto potrò
prestare il telefono a tutti quelli che, pur muniti di cellulare, hanno il
credito immancabilmente scaduto.
I
negozi che danno sulla strada sono quasi tutti piccolissimi. Cosa li
differenzia? Alcuni sono pieni di merce altri ne scarseggiano. Qualche scaffale
desolato con poche scatolette e prodotti contati sta alle spalle di un
venditore dall’aria triste. Il suo vicino ha invece successo e lo si vede:
troneggia fiero nella sua boutique stracolma di tutto. I negozi sono aperti e
non hanno vetrine, quindi non si entra dentro. Hanno tutti un bancone di
vendita che da sul marciapiede. Sono disposti in continuità, uno a fianco
dell’altro. Fuori ci sono panchine e sedili, comunque quasi sempre uomini
seduti. Le donne passano e acquistano senza fermarsi troppo. Loro hanno da
fare, a differenza degli uomini. In ogni negozio si mercanteggia il prezzo che,
come tutto il resto qui, è flessibile e soggetto a mutamenti continui. E poi si
parla, si scherza e si fa conoscenza.
Dall’altra
parte della strada c’è il mercato di Soumbédioune, di dimensioni medie.
All’esterno l’abituale schiera di negozi di strada, all’interno un dedalo di
spazi e sottospazi dove si vende di tutto e si fatica anche solo a passare.
Sarti e stoffe ovunque, poi spezie e incensi, verdure e frutta, carne, pesce e
un’infinità di mosche.
Se
devi acquistare devi farti avanti. Nel senso che se anche si formano delle
piccole code di clienti non per questo i turni vengono rispettati. In genere
acquista per primo colui che coglie il momento giusto per accaparrare
l’attenzione del commerciante per chiedere quello di cui ha bisogno. Se non ti
fai valere puoi anche essere superato da cinque, sei persone, una dopo l’altra,
e rischi di aspettare tempi lunghissimi. Superare o essere superati non è
sconveniente né riprovevole. A differenza di quello che succederebbe da noi,
nessuno si incazza se viene bruciato sul più bello da un altro più rapido.
“C’est la vie…”.
Questo
lo capisco anch’io da subito, la gente sembra più paziente e meno nervosa.
Forse sono soltanto meno stressati degli europei e quindi meno inclini ad
incollerirsi per motivi futili e di principio. Non saprei dire. Eppure se penso
alle code agli sportelli delle poste in Italia o in Francia e alla fredda e
silenziosa noia che vi regna, ovviamente interrotte di tanto in tanto da
inviperiti cittadini che protestano contro le mancanze dello Stato o
dell’amministrazione pubblica… e se confronto tutto questo con analoghe
situazioni di attesa vissute in mezzo agli africani e ai senegalesi dove,
nell’attesa, le persone ridono, scherzano e soprattutto comunicano tra loro… Sì
credo davvero che la capacità di attesa paziente sia nel DNA di ogni africano.
Paziente non significa per forza succube. Vedi gente che attende senza farne un
dramma, tutto qui. Forse anche perché non c’è alcun rischio di arrivare in
ritardo da qualche parte. Qui il ritardo non esiste, o meglio è semplicemente
parte integrante della realtà di ogni istante. Si è sempre in ritardo quindi
non lo si è mai, quindi non c’è motivo di stressarsi. L’ora dell’orologio
davvero non sembra contare più di tanto. E’ rispettata, è un segno di civiltà e
di modernità, ma a ben vedere fondamentalmente superflua. Il mondo avanza per
conto suo indipendentemente dalle lancette dell’orologio.
Rispetto
alla pazienza ho molto altro da dire. Lo farò in seguito. Credo che si possa
dire che la pazienza sia uno dei principali insegnamenti che possiamo trarre
dall’Africa. Pazienza significa anche respirare profondamente.
Lasciamo
Soumbédioune alle nostre spalle e ci dirigiamo verso il mare. Non è lontano e
conto di andare in spiaggia la mattina presto per praticare il taiji. Prima
delusione… Solo per arrivarci, a questa spiaggia, si devono superare zone
talmente maleodoranti che devo tapparmi il naso. Attraversiamo un ponticello su
un canale che è una vera e propria cloaca a cielo aperto. Mare? Luogo dove
tutto si scarica e che tutto non può assorbire. Le belle barche colorate mi
lasciano piuttosto indifferente perché le immagino galleggiare sulla merda
liquida. Cercherò altre spiagge per il taiji. Amul problème, nessun problema…
Continuo
a camminare a fianco di Assan. Il suo passo è lento e dinoccolato. Mi rimarrà
impresso quel suo modo di ciondolare un po’ indolente ma per nulla sgraziato.
Mentre cammina, non credo che pensi ad altro. Credo che cammini e basta.
Semplicemente. Mi piace stare con lui e i lunghi silenzi sono gradevoli.
Lasciano spazio per eventuali incontri. E consentono ai miei occhi di
impregnarsi poco alla volta, senza fretta, di questo nuovo mondo, di questa
luce così intensa, di una città che non conosco ancora. Sento che Assan
rispetta il mio ritmo. Questa qualità me la offrirà anche nelle lezioni di
percussioni con il sabar che già dall’indomani gli propongo di darmi.
Apprezzerò molto il suo insegnamento silenzioso e mite.
Per strada
E’
bello camminare in queste strade. Tutto è in movimento e rumorosamente vivo.
Nei primi giorni ho l’impressione di essere osservato. Poi la sensazione cambia
e comincio a sentire che il quartiere ormai mi conosce, sa chi sono: il tubaab
che balla e suona il sabar (fecc ak tëgge). I bambini verranno ogni volta a darmi la mano e a far risuonare
la pelle tesa del tamburo che mi sono fatto costruire da Assan. Mi vengono alle
spalle e ci battono su allegramente. Da lontano mimano il gesto di chi suona il
sabar. Tra i tanti giochi che fanno per strada, l’attività musicale ha il suo
spazio privilegiato. Ogni tanto li vedi correre con taniche di plastica e
bacchette di legno tra le mani. Si affrettano per raggiungere altri coetanei
dotati di simili strumenti rudimentali. Insieme, formano veri e propri ensemble
di percussioni. Poco importa se gli strumenti sono improvvisati, la musica che
producono è viva e riconosco i ritmi. E’ solo un’imitazione degli adulti che
hanno continuamente l’occasione di ascoltare o l’espressione di una musica che
hanno nel sangue fin dalla nascita? Poco importa, è bello vederli compresi e
contenti di battere sulle loro ghirbe colorate. Molti di loro imparano così a
suonare. Sicuramente sognano i veri sabar che un giorno lontano potranno forse
permettersi. Potessero i bambini di Milano suonare per strada o semplicemente
giocare come fanno qui.
Giochi
semplici. Adoro quello del bastone a cui è appeso uno spago con dei pezzettini
di carta colorata o di stoffa che vengono sventolati a destra e sinistra. Il
bambino corre trascinando dietro di lui questi mini aquiloni. Lo spago diventa
invisibile e si vedono soltanto questi esseri luminosi e svolazzanti che
descrivono circonvoluzioni morbide e leggere. In genere le carte volanti
dell’uno si incrociano e sfiorano quelle dell’altro. Un gioco che evoca qualcosa
di assolutamente poetico, che sorprende e ti lascia incantato per la sua
semplicità. Scaturisce dalla sola fantasia dei bambini e credo esista qui da
tempi lontani (io stesso lo avevo già visto nei film). Non si avverte il
bisogno di case produttrici di giocattoli.
A
calcio giocano in tanti. In mezzo alla strada, spesso in spazi ristretti.
Abilmente vengono evitate le auto che passano di continuo. Gli autisti suonano
il clacson per segnalare che stanno arrivando anche se poi mica frenano. Il
pallone vola, non di rado sbatte contro le macchine o finisce tra i piedi di
passanti che non fanno una piega. Incredibilmente nessuno protesta, nessuno si
incazza per le pallonate ricevute. Nessuno si rivolge ai bambini per
rimproverarli o scarica contro di loro la sua rabbia. In molti casi c’è
un’assoluta indifferenza, una non reazione dovuta forse ad un’elevata capacità
di sopportazione. Fa parte della normalità ricevere pallonate mentre si cammina
per queste vie, così come lo spostarsi con rapidità mentre i taxi ti sfrecciano
accanto senza rallentare. Qualche grande rilancia la palla cercando il colpo ad
effetto, ricordandosi di esser stato anche lui bambino e di aver giocato nelle
stesse condizioni.
In
ogni caso, qui puoi sederti sul lato della strada e rimanerci a lungo senza
annoiarti. Guardi la vita che scorre davanti ai tuoi occhi. Si passa molto
tempo a guardare, forse perché i momenti “produttivi” non occupano tutta la
giornata ma sono intervallati da tanti momenti vuoti. Guardare senza scopo però
non è affatto privo di interesse: si imparano molte cose, si partecipa a tante
avventure senza molto sforzo. Gli occhi lavorano mentre il cervello riposa.
Qui,
tante cose avvengono fuori, in mezzo agli altri. I falegnami e gli artigiani
lavorano davanti a tutti, i meccanici smontano e rimontano da cima a fondo le
auto, perfino le preghiere sono per strada: un ragazzo ogni giorno all’ora
indicata stende il suo tappeto proprio davanti alla casa in cui abito e si
concentra sulle sue invocazioni. Ancora, il venerdì pomeriggio, alla preghiera
delle 14.00, centinaia di persone pregano sulle stuoie di paglia stese sui
marciapiedi. Per mezzora la via è bloccata e non si può passare.
Ecco,
forse mi sento di dire questo. Da noi, in Europa, c’è il dentro – la casa,
l’appartamento, l’ufficio, il negozio – e il fuori – la strada. A Milano,
quando si esce per strada è il più delle volte per spostarsi da un “dentro” ad
un altro “dentro”. Circolare per le nostre vie si limita essenzialmente ad uno
spostamento. Ogni tanto si fa una sosta al bar, c’è bisogno di pausa. Comunque
per strada, di giorno, ci si muove: non ci si ferma più di tanto, non si sta,
non si è. Il percorso per strada ci separa da un prima e ci porta ad un dopo.
Il prima e il dopo ci appaiono importanti – produttivi – il trasferimento
dall’uno all’altro, tempo sostanzialmente perso – improduttivo. A parte i
clochard o chi chiede l’elemosina, chi altro sta seduto sul marciapiede solo
per essere lì, per vedere, per esser visto?
A
Guele Tapée quando sei per strada sei ”dentro”: dentro al mondo sociale, al
mondo del lavoro al mondo della condivisione. E’ molto forte la sensazione che
provi arrivando in strada e difficile da spiegare: più che di uscire senti
forte il fatto di “entrare” in qualcosa. Tutto o quasi si svolge lì. Se devi
percorrere a piedi una via di duecento metri ti fermi almeno dieci volte a
salutare qualcuno o a rispondere a chi ti chiama. Ovviamente poi tutti sanno
tutto di tutti. Vivere in incognito credo sia assolutamente impossibile.
Qualunque cosa tu faccia, c’è sempre qualcuno che ti vede e ti osserva. Non si
possono scattare foto alla leggera. Ogni foto è per così dire un atto di
coraggio e segue a una decisione presa. Certi giorni non mi sentivo abbastanza
forte per farne. Perché immancabilmente ogni foto fa scaturire un commento, una
proposta di dialogo o di scambio verbale. Questa società ti ingloba rapidamente
nel suo complesso tessuto di relazioni sociali, la vita solitaria non credo sia
nemmeno immaginabile. Fare foto viene letto come un’immediata richiesta di
comunicazione, subito i senegalesi ti rispondono, ospitali e curiosi come sono!
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