Del nostro incontro, di come sia avvenuto, dirò
pochissimo. Me lo hai fatto raccontare innumerevoli volte ai tuoi ospiti, ai
tuoi amici e a chi da te incontravo. E ogni volta mi hai ripreso, hai
rettificato, hai corretto le mie parole. “Non prendere delle scorciatoie!” mi
dicevi. Volevi che dicessi tutto fino in fondo perché tutto, anche il minimo
dettaglio, aveva un senso.
Ogni cosa, poi, un senso lo acquisiva mentre la si diceva. Un senso che andava trasformandosi
ogni volta perché questo è quanto succede a ciò che è vivo, nulla è immutabile,
tutto si trasforma. Anche la verità vive e si muove. Così il passato non è solo
più passato ma vive nel presente. Così la ripetizione non è solo ripetizione
sterile ma parola feconda che suscita e risuscita. Mentre parlavo del nostro
incontro, della storia che abbiamo condiviso, ormai finivo per ascoltarmi con
le tue orecchie… E’ questo l’insegnamento africano, perlomeno quello di Sotigui
Kouyaté. Ero io a parlare o eri tu? Che importa, in fondo, parlavamo insieme ed
era bello. “Non bisogna aver timore di guardare negli occhi chi ti sta in
fronte” dicevi “perché in lui riconoscerai te stesso e finirai anche per
accorgerti che le cose che ci separano dagli altri sono molte meno di quelle
che ci uniscono”.
Non dirò nulla ora di quel che è accaduto quel giorno
sulle rive del Naviglio Ticinese, delle circostanze speciali, dei fatti.
Perlomeno non ne scriverò perché le parole scritte rimangono ferme e, una volta
scelte, in qualche modo smettono di vivere. Forse mi capiterà di raccontarlo
ancora a qualcuno, con le parole vive, e tu salterai fuori dalla terra per
dirmi con dolcezza e fermezza: “Mon fils ce n’est pas comme ça que les
choses se sont passés, il faut tout dire…”.
Ecco, ora, solo ora mentre scrivo, capisco…
Non è ciò che è accaduto, non sono le circostanze
piuttosto speciali in cui esso avvenne a conferire importanza al nostro incontro. Non per questo insistevi
tanto che ripetessi questa storia ogni volta. E’ piuttosto il raccontarlo in sé
che ne ha svelato il vero senso. Mi accorgo - comprendo anche - di come
attraverso quel racconto tu abbia potuto trasmettermi un insegnamento. Un
insegnamento senza forma fissa né punto di arrivo, un insegnamento aperto che
lascia dire al tempo cosa sia giusto e cosa non lo sia. Non si arriva al senso
delle cose e alla loro comprensione con uno sforzo o precorrendo i tempi. La
comprensione, la consapevolezza, la saggezza vengono da sé, emergono quando i
tempi sono maturi.
Mi hai insegnato così a non avere fretta: “Figlio
mio, non puoi correre e grattarti i piedi allo stesso tempo” e lo hai fatto con
ironia, usando tante volte le splendide storie africane così piene di metafore
oppure dei semplici proverbi che mi sono rimasti impressi nella memoria.
Una sera, in un ristorante di Milano, eri molto
stanco, quasi da non riuscire più a stare in piedi, ed io che in quei giorni ti
facevo da assistente volevo correre a cercare l’auto per portarti in albergo.
“Vado e torno in cinque minuti” ti ho detto. Tu hai fatto un gran sospiro e mi
hai risposto: “Sai, è davvero tempo che tu vada in Africa… Ora stai partendo, è
vero e lo puoi dire, ma quando e tra quanto farai ritorno pensi davvero di
poterlo sapere?”.
Comunque sia, quel giorno di nove anni fa, alla fiera
di Senigallia, insieme a me c’erano Jeanne e Chama e tutto ha fatto sì che ci
incontrassimo. Se è vero, come dici tu, che il caso non esiste ma che esistono
solo gli incontri, posso solo confermare come il nostro sia stato un vero
incontro, uno dei più significativi e preziosi della mia intera esistenza.
Ti devo ringraziare…
Così a caldo, non posso trovare sufficienti parole
per esprimere tutta la mia gratitudine ma qualche piccola cosa la vorrei
comunque dire. Poi, nei mesi e negli anni a venire saranno molte altre le
occasioni di rievocarti in modo più compiuto. Per il momento non mi lascio
prendere dalla frenesia di voler dire tutto a lascio venire solo le prime cose
che affiorano. Mi gratto i piedi, come se grattassi la lampada di Aladino, il
tempo di correre verrà forse in seguito.
Ci siamo ritrovati alla fine del 2004 a Parigi dopo
un periodo in cui non ci eravamo più sentiti. Rientravo dal Cammino di Santiago
e cominciavo ad uscire dal periodo più difficile e più triste della mia
esistenza.
Sono venuto con Costanza alle Bouffes du Nord per
“Tierno Bokar” ed eravamo seduti sul suolo di legno del palcoscenico proprio a
pochi metri da te. Ti ricordo bene nella tua semplice e maestosa tunica bianca.
Tu e il grande saggio di Bandiagara eravate tutt’uno. Quella sera ci siamo
riconosciuti - qualche sguardo lo incrociammo già durante lo spettacolo - e da
allora non ci siamo più persi.
Venimmo così per la prima volta nella tua casa ai
Lilas. Ne conservo un ricordo così vivo! La casa, un po’ africana e un po’
europea, comunicava subito un senso di calda umanità. Era popolata di persone
diverse, tutto era in movimento. Nella sala c’erano ospiti diversi: artisti,
attori, parenti… Di là, nella misteriosa - e di fatto piccolissima! - cucina
stavano tante donne africane che parlavano tra loro. Alcune di loro, in momenti
non casuali, di tanto in tanto le chiamavi e potevamo presentarci.
Per ogni persona c’era il tempo di un vero incontro.
Questo incontro veniva creato, reso interessante, valorizzato dalla tua
presenza. Non c’era nessuna precipitazione e il ritmo rimaneva lento e umano.
La cosa mi impressionò molto e partii da quella casa con l’intima sensazione
che non avevo incontrato tutti i suoi ospiti, tutte le “presenze” di quel
giorno. Come un segreto che si svela poco a poco o un tesoro che lascia
intravedere solo parte delle sue ricchezze, così percepivo molte potenzialità
in quel pomeriggio e tra queste l’invito ad una vera relazione.
Nel farmi “accompagnare alla porta” come si usa in
una vera casa africana mi hai fatto pervenire chiaro il messaggio che un mio
ritorno sarebbe stato il benvenuto e perfino necessario. In una comune casa
europea quando un ospite si intrattiene troppo a lungo e non da segni di voler
andar via lo si accompagna all’uscita per liberarsene. Nella casa di Sotigui
bisognava “demander la route trois fois” - chiedere di poter partire tre volte - prima che questo diritto ti
fosse concesso! Chiedevi a noi di rispettare questa usanza e io l’ho sempre
fatto tutte le volte che ero con te. Non si trattava di una formalità
folkloristica. Era come un gioco di relazione e di attenzione reciproca in cui
ogni arrivo e ogni uscita veniva preparata “interiormente” e condivisa con l’altro.
Così ogni volta il tempo si dilatava e anche l’ospite, in questo modo, non si
sentiva d’ingombro bensì apprezzato nella sua presenza. Una maniera molto
raffinata di relazionarsi con chi viene a farci visita.
La mia casa è anche la tua casa, questo è quello che
percepivo. Negli ultimi tempi non potevi scendere con facilità dalle scale ma
ad accompagnare l’ospite o ad accoglierlo per te scendeva Yagaré o Fifi o Mabo
o Esther o Miguel o Karel o Isa o Philippe o Giovanni o… qualche altro
sorridente membro della tua “grande famiglia”. Accompagnare un amico fino in
strada significa anche fargli sentire che la porta d’ingresso per lui rimarrà
aperta, mostrargli il cammino da percorrere quando se ne va e la via di un
possibile ritorno.
Da solo sono ritornato da te molte volte in quella
ultima parte del 2004 e fino a quando abitai a Parigi cioè fino al febbraio
2005. Quegli incontri personali furono la scintilla iniziale e la benedizione,
in un certo senso, per una nuova parte della mia esistenza. Lo sapevo già
allora, ne sono tanto più consapevole adesso.
Mi hai fatto parlare, parlare, parlare…
“Hai bisogno di parlare e di dire quello che hai da
dire, è per te una necessità vitale”.
C’è chi nella vita sente il bisogno di parlare e di
essere ascoltato da uno psicoterapeuta, io ho avuto la fortuna di parlare ed
essere ascoltato da un vero griot africano.
E attraverso il tuo ascolto ho sentito meglio chi
ero, dov’ero e come muovere i miei passi.
Soprattutto ho ritrovato la fiducia nelle mie qualità
e nella mia capacità di esprimerle.
Fin da subito mi hai detto che per dire ciò che avevo
da dire dovevo avvalermi dell’Aikido e che avrei dovuto proporre molti stages… Quanto ero stupito in quel momento - ma che
sollievo anche! - io che non credevo più nella mia capacità di proporre qualcosa di mio agli altri, io che da qualche mese
ormai - per la prima volta dopo tanti anni - nemmeno più praticavo l’Aikido… Ma
subito sono riecheggiate quelle che forse sono state le ultime parole per me di
mia mamma, Susi, prima di morire : “Continua l’Aikido…”.
Ciascuno di noi, nella vita, prima o poi trova e
riconosce gli strumenti che gli corrispondono per esprimere ciò che sente e
porta dentro di sé: la questione - di vitale importanza - è poi quella di
utilizzarli e di realizzarsi attraverso di essi. Per il proprio bene e quello
degli altri.
(continua)
Nessun commento:
Posta un commento