mercoledì 5 marzo 2014

Grazie Sotigui (2)

(continua)


 
Del nostro incontro, di come sia avvenuto, dirò pochissimo. Me lo hai fatto raccontare innumerevoli volte ai tuoi ospiti, ai tuoi amici e a chi da te incontravo. E ogni volta mi hai ripreso, hai rettificato, hai corretto le mie parole. “Non prendere delle scorciatoie!” mi dicevi. Volevi che dicessi tutto fino in fondo perché tutto, anche il minimo dettaglio, aveva un senso.
Ogni cosa, poi, un senso lo acquisiva mentre la si diceva. Un senso che andava trasformandosi ogni volta perché questo è quanto succede a ciò che è vivo, nulla è immutabile, tutto si trasforma. Anche la verità vive e si muove. Così il passato non è solo più passato ma vive nel presente. Così la ripetizione non è solo ripetizione sterile ma parola feconda che suscita e risuscita. Mentre parlavo del nostro incontro, della storia che abbiamo condiviso, ormai finivo per ascoltarmi con le tue orecchie… E’ questo l’insegnamento africano, perlomeno quello di Sotigui Kouyaté. Ero io a parlare o eri tu? Che importa, in fondo, parlavamo insieme ed era bello. “Non bisogna aver timore di guardare negli occhi chi ti sta in fronte” dicevi “perché in lui riconoscerai te stesso e finirai anche per accorgerti che le cose che ci separano dagli altri sono molte meno di quelle che ci uniscono”.
Non dirò nulla ora di quel che è accaduto quel giorno sulle rive del Naviglio Ticinese, delle circostanze speciali, dei fatti. Perlomeno non ne scriverò perché le parole scritte rimangono ferme e, una volta scelte, in qualche modo smettono di vivere. Forse mi capiterà di raccontarlo ancora a qualcuno, con le parole vive, e tu salterai fuori dalla terra per dirmi con dolcezza e fermezza: “Mon fils ce n’est pas comme ça que les choses se sont passés, il faut tout dire…”.
Ecco, ora, solo ora mentre scrivo, capisco…
Non è ciò che è accaduto, non sono le circostanze piuttosto speciali in cui esso avvenne a conferire  importanza al nostro incontro. Non per questo insistevi tanto che ripetessi questa storia ogni volta. E’ piuttosto il raccontarlo in sé che ne ha svelato il vero senso. Mi accorgo - comprendo anche - di come attraverso quel racconto tu abbia potuto trasmettermi un insegnamento. Un insegnamento senza forma fissa né punto di arrivo, un insegnamento aperto che lascia dire al tempo cosa sia giusto e cosa non lo sia. Non si arriva al senso delle cose e alla loro comprensione con uno sforzo o precorrendo i tempi. La comprensione, la consapevolezza, la saggezza vengono da sé, emergono quando i tempi sono maturi.
Mi hai insegnato così a non avere fretta: “Figlio mio, non puoi correre e grattarti i piedi allo stesso tempo” e lo hai fatto con ironia, usando tante volte le splendide storie africane così piene di metafore oppure dei semplici proverbi che mi sono rimasti impressi nella memoria.
Una sera, in un ristorante di Milano, eri molto stanco, quasi da non riuscire più a stare in piedi, ed io che in quei giorni ti facevo da assistente volevo correre a cercare l’auto per portarti in albergo. “Vado e torno in cinque minuti” ti ho detto. Tu hai fatto un gran sospiro e mi hai risposto: “Sai, è davvero tempo che tu vada in Africa… Ora stai partendo, è vero e lo puoi dire, ma quando e tra quanto farai ritorno pensi davvero di poterlo sapere?”.
Comunque sia, quel giorno di nove anni fa, alla fiera di Senigallia, insieme a me c’erano Jeanne e Chama e tutto ha fatto sì che ci incontrassimo. Se è vero, come dici tu, che il caso non esiste ma che esistono solo gli incontri, posso solo confermare come il nostro sia stato un vero incontro, uno dei più significativi e preziosi della mia intera esistenza.

Ti devo ringraziare…
Così a caldo, non posso trovare sufficienti parole per esprimere tutta la mia gratitudine ma qualche piccola cosa la vorrei comunque dire. Poi, nei mesi e negli anni a venire saranno molte altre le occasioni di rievocarti in modo più compiuto. Per il momento non mi lascio prendere dalla frenesia di voler dire tutto a lascio venire solo le prime cose che affiorano. Mi gratto i piedi, come se grattassi la lampada di Aladino, il tempo di correre verrà forse in seguito.

Ci siamo ritrovati alla fine del 2004 a Parigi dopo un periodo in cui non ci eravamo più sentiti. Rientravo dal Cammino di Santiago e cominciavo ad uscire dal periodo più difficile e più triste della mia esistenza.
Sono venuto con Costanza alle Bouffes du Nord per “Tierno Bokar” ed eravamo seduti sul suolo di legno del palcoscenico proprio a pochi metri da te. Ti ricordo bene nella tua semplice e maestosa tunica bianca. Tu e il grande saggio di Bandiagara eravate tutt’uno. Quella sera ci siamo riconosciuti - qualche sguardo lo incrociammo già durante lo spettacolo - e da allora non ci siamo più persi.
Venimmo così per la prima volta nella tua casa ai Lilas. Ne conservo un ricordo così vivo! La casa, un po’ africana e un po’ europea, comunicava subito un senso di calda umanità. Era popolata di persone diverse, tutto era in movimento. Nella sala c’erano ospiti diversi: artisti, attori, parenti… Di là, nella misteriosa - e di fatto piccolissima! - cucina stavano tante donne africane che parlavano tra loro. Alcune di loro, in momenti non casuali, di tanto in tanto le chiamavi e potevamo presentarci.
Per ogni persona c’era il tempo di un vero incontro. Questo incontro veniva creato, reso interessante, valorizzato dalla tua presenza. Non c’era nessuna precipitazione e il ritmo rimaneva lento e umano. La cosa mi impressionò molto e partii da quella casa con l’intima sensazione che non avevo incontrato tutti i suoi ospiti, tutte le “presenze” di quel giorno. Come un segreto che si svela poco a poco o un tesoro che lascia intravedere solo parte delle sue ricchezze, così percepivo molte potenzialità in quel pomeriggio e tra queste l’invito ad una vera relazione.
Nel farmi “accompagnare alla porta” come si usa in una vera casa africana mi hai fatto pervenire chiaro il messaggio che un mio ritorno sarebbe stato il benvenuto e perfino necessario. In una comune casa europea quando un ospite si intrattiene troppo a lungo e non da segni di voler andar via lo si accompagna all’uscita per liberarsene. Nella casa di Sotigui bisognava “demander la route trois fois” - chiedere di poter partire tre volte - prima che questo diritto ti fosse concesso! Chiedevi a noi di rispettare questa usanza e io l’ho sempre fatto tutte le volte che ero con te. Non si trattava di una formalità folkloristica. Era come un gioco di relazione e di attenzione reciproca in cui ogni arrivo e ogni uscita veniva preparata “interiormente” e condivisa con l’altro. Così ogni volta il tempo si dilatava e anche l’ospite, in questo modo, non si sentiva d’ingombro bensì apprezzato nella sua presenza. Una maniera molto raffinata di relazionarsi con chi viene a farci visita.
La mia casa è anche la tua casa, questo è quello che percepivo. Negli ultimi tempi non potevi scendere con facilità dalle scale ma ad accompagnare l’ospite o ad accoglierlo per te scendeva Yagaré o Fifi o Mabo o Esther o Miguel o Karel o Isa o Philippe o Giovanni o… qualche altro sorridente membro della tua “grande famiglia”. Accompagnare un amico fino in strada significa anche fargli sentire che la porta d’ingresso per lui rimarrà aperta, mostrargli il cammino da percorrere quando se ne va e la via di un possibile ritorno.

Da solo sono ritornato da te molte volte in quella ultima parte del 2004 e fino a quando abitai a Parigi cioè fino al febbraio 2005. Quegli incontri personali furono la scintilla iniziale e la benedizione, in un certo senso, per una nuova parte della mia esistenza. Lo sapevo già allora, ne sono tanto più consapevole adesso.
Mi hai fatto parlare, parlare, parlare…
“Hai bisogno di parlare e di dire quello che hai da dire, è per te una necessità vitale”.
C’è chi nella vita sente il bisogno di parlare e di essere ascoltato da uno psicoterapeuta, io ho avuto la fortuna di parlare ed essere ascoltato da un vero griot africano.
E attraverso il tuo ascolto ho sentito meglio chi ero, dov’ero e come muovere i miei passi.
Soprattutto ho ritrovato la fiducia nelle mie qualità e nella mia capacità di esprimerle.
Fin da subito mi hai detto che per dire ciò che avevo da dire dovevo avvalermi dell’Aikido e che avrei dovuto proporre molti stages… Quanto ero stupito in quel momento - ma che sollievo anche! - io che non credevo più nella mia capacità di proporre qualcosa di mio agli altri, io che da qualche mese ormai - per la prima volta dopo tanti anni - nemmeno più praticavo l’Aikido… Ma subito sono riecheggiate quelle che forse sono state le ultime parole per me di mia mamma, Susi, prima di morire : “Continua l’Aikido…”.
Ciascuno di noi, nella vita, prima o poi trova e riconosce gli strumenti che gli corrispondono per esprimere ciò che sente e porta dentro di sé: la questione - di vitale importanza - è poi quella di utilizzarli e di realizzarsi attraverso di essi. Per il proprio bene e quello degli altri.

(continua)

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