mercoledì 22 aprile 2015

Il mio Cammino di Santiago (4)



                                     

                                                       Chi di noi due è l’albero secco? E chi vive?

16 ottobre

Sto scrivendo da Ruesta e sono le 6.09 del pomeriggio. Non so perché ma ho voglia di annotare l’ora. Stamattina ho lasciato Arres insieme ad Antonio, un catalano di Barcellona nato però a Caracas. È una persona mite e gentile che desidera camminare tranquillamente e senza fretta. Parliamo in spagnolo, lui me lo insegna ed io vorrei impararlo almeno un po’. Marciamo con la pioggia in un paesaggio collinoso ma quasi desertico con un lungo sentiero che si snoda davanti a noi a perdita di vista. Questi sono i primi giorni di cammino di Antonio, ha le gambe - las piernas - che gli fanno male. È quindi inutile forzare e procediamo senza pensare troppo all’orario di arrivo. Lui si fermerà ad Artieda (dopo 18 km) mentre io dopo un leggero pranzo continuerò nel pomeriggio fino a Ruesta (28,5 km). Il barro, fango argilloso, si attacca alle scarpe raddoppiando il peso dei nostri piedi e lo sforzo per alzarli. Ridiamo evocando gli evasi che fuggono con le catene ai piedi. Il paesaggio ed il clima si addicono ad uno scenario di questo genere. Dune di sabbia grigia e scura, ondulate e rotonde, scavate ed erose dall’acqua. Incontriamo una volpe, el sarro. 
Ad Artieda ci accoglie Raquel, giovane e allegra che parla veloce veloce ma con un bel accento. Non è molto bella ma attira molto e in modo naturale. Mi sembra di piacerle e anche lei mi piace ma non tardo ad accorgermi che in fondo alla stanza c’è anche un giovane ombroso e un po’ strano che mi guarda. Ha i riccioli bruni e il corpo ben piantato e robusto. Credo che sia il ragazzo di Raquel, ci manca solo di scatenare la gelosia di uno spagnolo del genere… Meglio proseguire per il mio cammino! Prima di partire però lei mi chiama: “Giovanni!”. Dice che un italiano che ha conosciuto le ha insegnato questa frase, che pronuncia in italiano: “Sii te stessa e nessuno potrà mai dirti che sbagli nel farlo”. Penso che le spedirò una cartolina nei prossimi giorni scrivendole: “Sii te stessa e Dio continuerà a risplendere gioiosamente nel tuo cuore”.
Insieme ad Antonio, prima di lasciarci, siamo stati nel piccolo fumoso bar di Artieda, pieno di giovani con orecchini e capelli lunghi. Ci siamo stati un’ora e questo è l’unico ritrovo del villaggio. Si entra da un portoncino di legno e fuori non  c’è nemmeno un’insegna. Gli abitanti di qui sembrano un po’ montanari e sospettosi ma non sono antipatici. L’atmosfera è strana e particolare, niente a che vedere con la Francia o l’Italia, un po’ esotica per me. Sono contento di essere qui. Il villaggio conta poche case. I villaggi, in questa regione sono tutti in altura e dominano delle valli solitarie, selvatiche e quasi spoglie. C’è il senso dello spazio.
Lascio Artieda alle 15 e cammino molto speditamente sotto alla pioggia battente che ormai non mi spaventa più. Intorno alle 17 arrivo in un luogo sacro e mistico. Il luogo che finora, da questo punto di vista, mi ha colpito di più. È l’Ermita de San Juan Bautista. Una chiesetta antica di pietre di cui rimane intatto solo l’abside e i muri perimetrali. È circondata da i pini che diffondono un profumo tipico che mi fa pensare a Saint Michel du Var. Al posto del tetto, crollato chissà quando, è stata posta una provvisoria (?) tettoia metallica che protegge dalla pioggia chi entra nell’Ermita. L’ingresso è costituito da uno splendido portale ad arco. All’interno tutto è quasi magico anche se da fuori proprio non si direbbe. I pellegrini e i passanti hanno impilato tanti sassi grandi, piccoli e piccolissimi. In fondo, sotto l’abside, sta una solida croce costruita con tre grandi pietre, poi ci sono piccoli altari e, sul suolo, un crocefisso commovente tutti costruiti di sassi e di pietre. Gesù ha delle lunghe braccia molto accoglienti. Le piccole pietre colorate mettono in risalto tanti dettagli del suo corpo. Che bello tutto questo! Cammino tra i sassi incantato. Anch’io cerco delle pietre fuori e in mezz’oretta ne porto dentro diverse. Costruisco per terra nel centro della chiesa, a sinistra dell’ingresso, una grande croce ortodossa che oltre al tratto verticale e quello orizzontale delle croci comuni ha un altro tratto orizzontale più piccolo in basso che ha la caratteristica di pendere verso destra (destra per chi l’osserva). Pende verso il cuore verso cui tutto finisce per tendere. Lì ho posizionato una pietra rossa.
Ora scopriamo l’Albergue di Ruesta. C’è del mistero, qui…



                                Il portale d’ingresso dell’Ermita de San Juan Bautista con la mia croce ortodossa.


17 ottobre

Me ne sono accorto questa mattina mezzora dopo la partenza da Ruesta…
Ho lasciato sul letto a castello la mia conchiglia! Non l’avevo da molto ma è stato immediato il senso di mancanza e di perdita che è ho provato. Chissà, forse Antonio la riconoscerà e potrà prenderla. L’idea che la potrà tenere lui mi consola un po’. Come ci si affeziona alle cose e agli oggetti… io ne so qualcosa perché ho passato la vita a caricarli di simboli, di ki e di valore affettivo. Per fortuna poi le cose si rompono e si perdono, sgravandoci così di un peso eccessivo. Questa conchiglia è la prima cosa che perdo in questo cammino e come simbolo non è male. Ne cercherò un’altra da appendere allo zaino?
Ora voglio parlare subito del piccolo miracolo di ieri. Sembra proprio che i miracoli si ripetano senza sosta. O forse è soltanto che si impara a dare un altro valore alle cose e agli incontri? Che si è un po’ più aperti rispetto alle cose che ci accadono e che si finisce per apprezzarle di più?
Avevo appena finito di scrivere e riposto il mio piccolo quaderno nello zaino. Stavo in una stanza spoglia con i muri di pietra gialla, una panca e un tavolo di pietra. Una specie di anticamera di attesa per chi come me arriva troppo presto e trova ancora chiuso l’ostello dove deve passare la notte. Nessun segno di persona, un silenzio di tomba rotto solo dal suono della pioggia che continuava a cadere incessante. Mi sono guardato intorno per ingannare il tempo e ho visto una piccola porta di legno in fondo alla stanza. L’ho aperta, dava su un’altra stanzetta che conteneva solo due cose. Una sedia di legno e sulla sedia un rotolo di fogli di carta vetrata! Proprio quella che cercavo per levigare la mia pietra… Ne ho presi tre fogli senza nessun senso di colpa per il fatto che mi impossessavo di qualcosa che non mi apparteneva. Ero stupito, quasi non ci potevo credere che in quel posto dove non c’era quasi nulla trovavo proprio quello che cercavo. Tuttavia qualcosa in me mi diceva che in fondo non c’era proprio nulla di strano e che quei fogli di carta abrasiva non erano lì per caso e aspettavano proprio me. Qualcuno pensa a noi… bella sensazione.
 
Ruesta è un paese diroccato che sembra sulle prime abitato da fantasmi. Poi si scopre che è abitato da una comunità di sindacalisti anarchici che, con l’aiuto di giovani volontari, lo stanno restaurando. È tutto sommato un luogo strano, popolato da persone piuttosto chiuse e talvolta sgradevoli. Penso per esempio a un grasso signore dalla tosse invadente e ostentata che ho incrociato stanotte nei bagni che già di per sé sono stretti e poco accoglienti. Ha fatto i suoi bisogni evacuando di tutto e da tutte le parti in modo rumoroso e volgare proprio a fianco di me che cercavo di fare una doccia tranquillo. Era l’una di notte. Stamattina, alle 6.30, mi sono rifugiato nel bagno delle donne per evitare di incontrarlo.
Ieri sera ho incontrato due amanti lesbiche basche e ho cenato insieme a loro. Sono qui per qualche giorno di vacanza e hanno nomi baschi difficili da ricordare. Una si chiama qualcosa come Estivalis che abbreviato suona Esti, ha un profumo che conosco bene, gli occhi vivi e molto sentimento. L’altra del cui nome ricordo solo che comincia con la G. è più dura e maschile ma comunque aperta e curiosa. Tra di noi la corrente è passata forte e mi hanno chiesto molte cose del mio viaggio. Così, bevendo rhum e fumando marijuana, abbiamo parlato di cose semplici e complicate in modo molto piacevole. Tema centrale della serata: el corazon. Da qualche parte sapevo che a Ruesta avrei incontrato delle donne, ne sentivo già da prima il profumo… E infatti…
Nella notte, sul letto su cui ho lasciato poi la conchiglia, ho fatto uno di quei sogni che non si dimenticano. C’erano grandi donne africane nere, grasse e ridenti. Con una di loro ho fatto l’amore ma soprattutto sono rimasto incantato a guardarle la vagina che in realtà era una specie di possente cratere vulcanico. Che eruttava con tanto di lapilli, lava e lingue di fuoco!

Ora sono a Sanguesa in Navarra.
Sedute davanti a me ci sono tre belle ragazze giovani e intelligenti che consumano la loro cena parlando animatamente. Non ci conosciamo ancora, ascolto i loro discorsi in inglese e tra poco faremo amicizia. È così facile qui!
Cammineremo insieme domani?

Due di loro sono svizzere, Silvia e Andrea, l’altra è un’olandese con i capelli rossi e le lentiggini.
Non posso capacitarmi di quanto sia bello incontrare tante persone diverse.
Questo cammino è contrassegnato da picchi di entusiasmo, come ieri sera, a cui fanno poi seguito delle discese che però non sono mai brutali. C’è sempre spazio per il nuovo, che si ripresenta continuamente, e il tempo si adatta ai nostri bisogni non noi ai bisogni del tempo. Tutto scorre in modo vitale.

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