mercoledì 26 febbraio 2014

Aikido - intervista (2005)


Intervista sull’Aikido

 di Mimmo Lombezzi a Giovanni Frova


(Apparsa in versione ridotta su “il manifesto” del 30 ottobre 2005)



Di che cosa si tratta e in che cosa differisce dalle altre arti marziali ?
Ho praticato aikido per più di 20 anni, l’aikido che ha presentato in Europa il maestro Itsuo Tsuda.
Oggi si pensa che l’aikido sia un’arte marziale come le altre, ma a me aveva interessato proprio perché c’era una differenza e questa differenza stava nel fatto che non si cercava di proporre un’arte che sviluppasse la forza, la capacità di combattere con gli altri ma veniva proposta  una pratica che poteva diventare uno strumento di ricerca dentro di sé, una pratica che ci avvicini man mano a quella che è la nostra verità interiore e che ci permetta ello stesso tempo di incontrare altre persone diverse da noi. Questa è la prima cosa che mi ha interessato. Personalmente le arti marziali in sé non hanno mai attirato la mia attenzione mentre la possibilità di scoprire chi siamo realmente questo sì mi interessava.

Com’è possibile scoprire la propria realtà interiore attraverso un’attività fisica che per quello che “appare” richiama lo scenario delle arti marziali: ci sono prese attacchi immobilizzazioni…
Diciamo che quando uno cerca dentro di sé può fare un percorso strettamente intellettuale oppure può andare a cercare attraverso un risveglio della sensibilità, un ritrovare un contatto con il proprio corpo, un contatto con quello che sentiamo. L’aikido è la possibilità di risvegliare questa sensibilità. E’ quindi qualche cosa di estremamente concreto, non un percorso astratto: ci si  trova davanti a un’altra persona, a dei ritmi biologici diversi dal nostro.

Tu parli di contatto ma oggi si sente parlare soprattutto di “full contact”, il “contatto” che viene proposto in realtà è un “impatto”, uno scontro.
I contatti tra le persone possono essere di natura molto diversa. Effettivamente in un’arte di combattimento si privilegia l’aspetto dell’”efficacia”, e di “potenziamento” per potersi imporre sugli altri. E’ una logica comune non solo al mondo delle arti marziali di oggi ma a tutta questa società in cui per farsi spazio, per poter sopravvivere, per poter respirare, per poter dire “io esisto” c’è bisogno di imporsi sugli altri, di dimostrare di essere più forti, più capaci, più colti. In ogni ambito, c’è sempre un “più” che emerge. Questo fa sì che la logica prevalente sia quella dello scontro, del confronto, ma perché ci sia un reale incontro fra le persone bisogna fare un passo indietro, in qualche maniera mettere a tacere l’io che siamo, per poter  ascoltare l’altro: in questo senso anche il movimento non diventa di impatto ma piuttosto un movimento che accoglie, che ascolta, un movimento che potremmo definire di “unione”: che non significa negare o annullare se stessi bensì lasciare più spazio all’altro. Tutto ciò passa attraverso un’attenzione portata alla persona che abbiamo di fronte – che può piacerci o no – al suo ritmo, alla sua respirazione.
L’aikido è un’arte della respirazione e attraverso la respirazione ci si  puo’ incontrare, unire e poi anche separare. Attraverso la scoperta del diverso da noi possiamo scoprire anche una pienezza che altrimenti non sentiamo più, sentirci partecipi di una realtà molto più grande di noi.

Nell’aikido ci sono delle forme, dei “kata”. Come è possibile trovare la “fusione” di cui stai parlando attraverso dei kata ?
In ogni arte giapponese il “kata” è la base, è la forma che le dà una struttura e anche nell’aikido ci sono delle forme, delle regole…E’ però interessante sapere che le forme si possono superare, che non sono fini a se stesse. Utilizziamo la tecnica non come uno scopo ma come uno strumento, uno strumento di contatto.
Nel mondo dei marzialisti è piuttosto comune il discorso che sostiene che un’arte marziale per essere considerata vera o sincera dev’essere anche efficace e verificabile in un contesto di combattimento. Se c’è troppa intesa o armonia tra i praticanti facilmente essa viene bollata come “finta” ed inefficace, come se fosse soltanto una specie di “accordo” fra i partner a conferirle un’apparente validità. A me l’efficacia non interessa ma non per questo la mia pratica mi sembra meno veritiera. Forse è una verità d’altro tipo quella che cerco e non la cerco da solo ma “insieme” alla persona con cui pratico, una verità più profonda che mi invita a scavare dentro di me con tutta la sincerità di cui sono capace. Non tento di mascherare, con le mie conoscenze tecniche o la mia esperienza, la persona che sono, l’umanità che sono, qui, ora, in questo istante. 
Quindi le tecniche, le prese, gli attacchi sono solo lo strumento attraverso il quale può succedere qualcosa, il mezzo attraverso cui accedere al patrimonio umano che esiste in tutti noi. L’aspetto più importante dell’aikido per me è proprio l’incontro di umanità diverse, l’incontro di due persone che altrimenti forse non riuscirebbero a dialogare. Anche questo è interessante: quando incontriamo una persona proviamo subito un’attrazione o qualche cosa che ci respinge. Attraverso l’aikido può nascere un contatto anche con persone con cui a priori non avremmo alcun desiderio di approfondire un rapporto. Attraverso qualcosa che non sono parole ma che, fondamentalmente, è “attenzione” c’è la possibilità di scoprire che “qualcosa passa”, che un dialogo è possibile.

Ma moltissime persone si avvicinano alla arti marziali cercando un’efficacia, un mezzo per reagire per esempio ad un’aggressione. Che rapporto c’è fra questa esigenza e quello che fate voi ?
Credo che in situazioni di emergenza,  quando corriamo un pericolo, quando veniamo aggrediti da qualcuno, quello che fa sì che riusciamo a  liberarci, a trarci d’impaccio, a salvarci la vita, difficilmente sia qualcosa che si possa ricondurre a una tecnica appresa; è piuttosto un istinto, un istinto di sopravvivenza, un desiderio di vita, una vitalità… e anche una decisione interiore che uno può avere o no.
Di fronte a una situazione pericolosa, una persona decisa, sveglia e fisicamente presente saprà reagire molto meglio di qualcuno che magari è diventato cintura nera di una tecnica piuttosto che di un’altra. Non mancano i casi di cronaca che ci parlano di grandi esperti nel campo delle arti marziali che di fronte a una situazione di reale pericolo si dimostrano assolutamente incapaci di agire.

C’è chi definisce l’aikido come una sintesi di diverse arti marziali, quasi un punto di arrivo per chi ricerca in questo ambito.
Non penso che l’aikido sia un’arte marziale superiore ad altre. E’ una via, un cammino tra tanti altri, con le proprie caratteristiche, la propria filosofia. Ogni altra arte ha anch’essa le proprie specificità, la propria filosofia. Ogni praticante, comunque, sceglie un’ arte sulla base dei propri bisogni e della ricerca che sta facendo.
Si parlava di “accordo” tra i praticanti, bene, penso che anche dove si pratichi il taichi chuan, il kung fu o il kendo ecc., ci sia sempre un terreno di accordo, un terreno nel quale le persone sono accomunate da un certo tipo di ricerca, hanno un interesse comune. Questo non significa che quando uno attacca debba attaccare in modo falso, coreografico; ci deve essere una realtà in quello che si fa. Nell’aikido che pratichiamo c’è questa realtà ma non per questo c’è aggressività; non c’è il desiderio di mettere in difficoltà il nostro partner. C’è piuttosto il desiderio fare delle scoperte, noi in prima persona, ma anche di permettere all’altro di scoprire qualcosa. L’accordo è piuttosto una comunanza di intenti, un desiderio di approfondire qualcosa insieme piuttosto che rimanere soli nel nostro piccolo mondo; senza di questo, possiamo ritrovarci soli anche in un contesto in cui siamo circondati da molte altre persone. L’aikido, per me, consente di uscire da questa solitudine.
Ed è interessante perché questo vuol dire accettare i propri limiti.
Mi ritornano spesso in mente le parole del Maestro Tsuda quando diceva “per me l’aikido è la possibilita di fare ogni giorno i conti con quelli che sono i miei limiti”. Occasione quotidiana di vederci così come siamo, lasciando cadere l’immagine presentabile che abbiamo cercato di costruire di noi stessi e constatare fino a che punto quest’ultima ci impedisce di vivere pienamente.
Per farlo non possiamo essere soli. Abbiamo bisogno di avere qualcuno di fronte che, come uno specchio, ci mette di fronte ai nostri limiti.Il desiderio di andare in questa direzione è anche un desiderio di sincerità nei propri confronti.
E il senso della mia ricerca  oggi è andare verso qualcosa che mi riporta a una sincerità interiore e mi rendo conto pian piano attraverso l’aikido di quante cose inutili in qualche modo offuscano questa sincerità e di come lasciando cadere man mano delle cose e accettandoci per quelli che siamo e non per quelli che vorremmo essere, è come se qualcosa si ripulisse. Per usare un’immagine molto nota è come uno specchio pieno di polvere che non riflette più nulla e man mano che togliamo questa polvere che è assolutamente inutile lo specchio torna di nuovo a riflettere un po’.
Ed è gradevole lasciar cadere poco per volta quello che è fondamentalmente inutile.

Puoi fare un esempio di questo “lasciar cadere” ?
Per esempio, io per anni avevo una difficoltà nel contatto fisico con le persone.
Nel senso che o si trattava di un contatto intimo con una compagna oppure il contatto era praticamente inesistente e la possibilità di ritrovare un contatto fisico semplice, non finalizzato a qualcosa è stata estremamente importante. Non entro nel merito dei motivi che causavano questa difficoltà, di fatto ad un certo momento l’ho avvertita come una forma di protezione inutile, che mi limitava. Ed il desiderio di liberarmene ha creato già da solo le condizioni perché qualcosa cadesse, se ne andasse, poco per volta. 
Siamo abituati ad agire sempre con uno scopo, nell’aikido è possibile ritrovare la possibilità di agire senza una finalità quindi anche il contatto con un’altra  persona non ha necessariamente uno scopo ma diventa una senzazione “pura”, una sensazione importante in sé e per sé.
E’ un po’ ritrovare la condizione del bambino che sta giocando, il fatto di essere pienamente  dentro al gioco senza che questo gioco abbia una finalità che vada oltre al gioco stesso. Anche il contatto fisico può essere di questa natura, tanto più forte in quanto privo di interpretazione, di significato. E tutto ciò ci pone davanti a noi stessi nella misura in cui per esempio una persona scopre di avere un lato di aggressività interiore che non ha mai espresso e che paradossalmente le rende molto difficile il fatto di “attaccare” un’altra persona. Proprio in quel momento, scopre che non riesce ad attaccarla non tanto perché manca di questa  aggressività ma perché dentro di sé  sente di averne anche più di altri e teme che da se stessa possa uscire qualcosa di incontrollabile. La difficoltà di imparare ad attaccare in certi casi deriva da questo.
Un’altra pratica che facciamo è il “kiai”, un esercizio respiratorio in sui si comprime la respirazione prima di lasciarla distendere emettendo un suono che è espressione di qualcosa di molto profondo in noi. Dopo alcuni anni di pratica questo suono non parte più dalla gola ma da zone più basse, più ventrali.Bene, molte persone all’inizio si sentono intimorite anche alla sola idea di lasciar uscire un suono profondo, e magari anche potente, ma il fatto di scoprire che puoi lasciar uscire liberamente e senza timori la voce ha in certi casi il sapore di una conquista.

Perché Tsuda chiamava l’aikido via della spoliazione?
Un‘ idea molto diffusa è quella che per vivere meglio, per sentirsi meglio nella propria pelle abbiamo bisogno di crescere ma l’idea di crescere è associata al fatto di diventare qualche cosa “di più”, cioè di diventare più ricchi, avere un maggior bagaglio di conoscenze ecc, il tutto in un’ottica di accumulazione e partendo dal presupposto che si cominci da poco o niente per diventare qualche cosa di più… presentabile.
Per Tsuda, al contrario, si trattava di un cammino di spoliazione nel senso che occorre prendere coscienza che siamo già fin troppo carichi di tutto, di nozioni, di conoscenze, di idee ecc. e che tutto questo carico essendo al 99% inutile ci impedisce di sentirci liberi. La sensazione di libertà infatti aumenta man mano che abbandoniamo dei pesi, che lasciamo la presa su tutta una serie di cose che sostanzialmente restringono il campo della nostra vita.

Delle difese?
Anche delle difese, ma attenzione non tutte! Sin da piccoli siamo obbligati a difenderci da aggressioni di ogni tipo e abbiamo accumulato difese che sono diventate vere e proprie corazze. Era una necessità per poter sopravvivere.
Alcune di queste difese, però, a un certo punto diventano inutili e se lasciamo agire la saggezza inconscia del nostro corpo, pian piano esso si libera di ciò che non è più necessario. Vuol dire che una parte interiore di noi è diventata più forte e che non abbiamo più bisogno di “bastioni protettivi”perché il nostro corpo ha ritrovato una vitalità, un asse centrale e una fiducia che aveva smarrito.

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