Intervista sull’Aikido
di Mimmo Lombezzi a Giovanni Frova
(Apparsa in versione ridotta su “il manifesto” del
30 ottobre 2005)
Di che cosa si tratta
e in che cosa differisce dalle altre arti marziali ?
Ho praticato aikido per più di 20
anni, l’aikido che ha presentato in Europa il maestro Itsuo Tsuda.
Oggi si pensa che l’aikido sia
un’arte marziale come le altre, ma a me aveva interessato proprio perché c’era
una differenza e questa differenza stava nel fatto che non si cercava di
proporre un’arte che sviluppasse la forza, la capacità di combattere con gli
altri ma veniva proposta una
pratica che poteva diventare uno strumento di ricerca dentro di sé, una pratica
che ci avvicini man mano a quella che è la nostra verità interiore e che ci
permetta ello stesso tempo di incontrare altre persone diverse da noi. Questa è
la prima cosa che mi ha interessato. Personalmente le arti marziali in sé non
hanno mai attirato la mia attenzione mentre la possibilità di scoprire chi
siamo realmente questo sì mi interessava.
Com’è possibile scoprire la
propria realtà interiore attraverso un’attività fisica che per quello che
“appare” richiama lo scenario delle arti marziali: ci sono prese attacchi
immobilizzazioni…
Diciamo che quando uno cerca
dentro di sé può fare un percorso strettamente intellettuale oppure può andare
a cercare attraverso un risveglio della sensibilità, un ritrovare un contatto
con il proprio corpo, un contatto con quello che sentiamo. L’aikido è la
possibilità di risvegliare questa sensibilità. E’ quindi qualche cosa di
estremamente concreto, non un percorso astratto: ci si trova davanti a un’altra persona, a dei
ritmi biologici diversi dal nostro.
Tu parli di contatto ma oggi
si sente parlare soprattutto di “full contact”, il “contatto” che viene proposto
in realtà è un “impatto”, uno scontro.
I contatti tra le persone possono
essere di natura molto diversa. Effettivamente in un’arte di combattimento si
privilegia l’aspetto dell’”efficacia”, e di “potenziamento” per potersi imporre
sugli altri. E’ una logica comune non solo al mondo delle arti marziali di oggi
ma a tutta questa società in cui per farsi spazio, per poter sopravvivere, per
poter respirare, per poter dire “io esisto” c’è bisogno di imporsi sugli altri,
di dimostrare di essere più forti, più capaci, più colti. In ogni ambito, c’è
sempre un “più” che emerge. Questo fa sì che la logica prevalente sia quella
dello scontro, del confronto, ma perché ci sia un reale incontro fra le persone
bisogna fare un passo indietro, in qualche maniera mettere a tacere l’io che
siamo, per poter ascoltare
l’altro: in questo senso anche il movimento non diventa di impatto ma piuttosto
un movimento che accoglie, che ascolta, un movimento che potremmo definire di
“unione”: che non significa negare o annullare se stessi bensì lasciare più
spazio all’altro. Tutto ciò passa attraverso un’attenzione portata alla persona
che abbiamo di fronte – che può piacerci o no – al suo ritmo, alla sua
respirazione.
L’aikido è un’arte della
respirazione e attraverso la respirazione ci si puo’ incontrare, unire e poi anche separare. Attraverso la
scoperta del diverso da noi possiamo scoprire anche una pienezza che altrimenti
non sentiamo più, sentirci partecipi di una realtà molto più grande di noi.
Nell’aikido ci sono delle
forme, dei “kata”. Come è possibile trovare la “fusione” di cui stai parlando
attraverso dei kata ?
In ogni arte giapponese il “kata”
è la base, è la forma che le dà una struttura e anche nell’aikido ci sono delle
forme, delle regole…E’ però interessante sapere che le forme si possono
superare, che non sono fini a se stesse. Utilizziamo la tecnica non come uno
scopo ma come uno strumento, uno strumento di contatto.
Nel mondo dei marzialisti è
piuttosto comune il discorso che sostiene che un’arte marziale per essere
considerata vera o sincera dev’essere anche efficace e verificabile in un
contesto di combattimento. Se c’è troppa intesa o armonia tra i praticanti
facilmente essa viene bollata come “finta” ed inefficace, come se fosse
soltanto una specie di “accordo” fra i partner a conferirle un’apparente
validità. A me l’efficacia non interessa ma non per questo la mia pratica mi
sembra meno veritiera. Forse è una verità d’altro tipo quella che cerco e non
la cerco da solo ma “insieme” alla persona con cui pratico, una verità più
profonda che mi invita a scavare dentro di me con tutta la sincerità di cui
sono capace. Non tento di mascherare, con le mie conoscenze tecniche o la mia
esperienza, la persona che sono, l’umanità che sono, qui, ora, in questo
istante.
Quindi le tecniche, le prese, gli
attacchi sono solo lo strumento attraverso il quale può succedere qualcosa, il
mezzo attraverso cui accedere al patrimonio umano che esiste in tutti noi.
L’aspetto più importante dell’aikido per me è proprio l’incontro di umanità
diverse, l’incontro di due persone che altrimenti forse non riuscirebbero a
dialogare. Anche questo è interessante: quando incontriamo una persona proviamo
subito un’attrazione o qualche cosa che ci respinge. Attraverso l’aikido può
nascere un contatto anche con persone con cui a priori non avremmo alcun
desiderio di approfondire un rapporto. Attraverso qualcosa che non sono parole
ma che, fondamentalmente, è “attenzione” c’è la possibilità di scoprire che
“qualcosa passa”, che un dialogo è possibile.
Ma moltissime persone si
avvicinano alla arti marziali cercando un’efficacia, un mezzo per reagire per
esempio ad un’aggressione. Che rapporto c’è fra questa esigenza e quello che
fate voi ?
Credo che in situazioni di
emergenza, quando corriamo un pericolo,
quando veniamo aggrediti da qualcuno, quello che fa sì che riusciamo a liberarci, a trarci d’impaccio, a
salvarci la vita, difficilmente sia qualcosa che si possa ricondurre a una
tecnica appresa; è piuttosto un istinto, un istinto di sopravvivenza, un
desiderio di vita, una vitalità… e anche una decisione interiore che uno può
avere o no.
Di fronte a una situazione
pericolosa, una persona decisa, sveglia e fisicamente presente saprà reagire
molto meglio di qualcuno che magari è diventato cintura nera di una tecnica
piuttosto che di un’altra. Non mancano i casi di cronaca che ci parlano di
grandi esperti nel campo delle arti marziali che di fronte a una situazione di
reale pericolo si dimostrano assolutamente incapaci di agire.
C’è chi definisce l’aikido
come una sintesi di diverse arti marziali, quasi un punto di arrivo per chi
ricerca in questo ambito.
Non penso che l’aikido sia
un’arte marziale superiore ad altre. E’ una via, un cammino tra tanti altri,
con le proprie caratteristiche, la propria filosofia. Ogni altra arte ha
anch’essa le proprie specificità, la propria filosofia. Ogni praticante,
comunque, sceglie un’ arte sulla base dei propri bisogni e della ricerca che
sta facendo.
Si parlava di “accordo” tra i
praticanti, bene, penso che anche dove si pratichi il taichi chuan, il kung fu
o il kendo ecc., ci sia sempre un terreno di accordo, un terreno nel quale le
persone sono accomunate da un certo tipo di ricerca, hanno un interesse comune.
Questo non significa che quando uno attacca debba attaccare in modo falso,
coreografico; ci deve essere una realtà in quello che si fa. Nell’aikido che
pratichiamo c’è questa realtà ma non per questo c’è aggressività; non c’è il
desiderio di mettere in difficoltà il nostro partner. C’è piuttosto il desiderio
fare delle scoperte, noi in prima persona, ma anche di permettere all’altro di
scoprire qualcosa. L’accordo è piuttosto una comunanza di intenti, un desiderio
di approfondire qualcosa insieme piuttosto che rimanere soli nel nostro piccolo
mondo; senza di questo, possiamo ritrovarci soli anche in un contesto in cui
siamo circondati da molte altre persone. L’aikido, per me, consente di uscire
da questa solitudine.
Ed è interessante perché questo
vuol dire accettare i propri limiti.
Mi ritornano spesso in mente le
parole del Maestro Tsuda quando diceva “per me l’aikido è la possibilita di
fare ogni giorno i conti con quelli che sono i miei limiti”. Occasione
quotidiana di vederci così come siamo, lasciando cadere l’immagine presentabile
che abbiamo cercato di costruire di noi stessi e constatare fino a che punto
quest’ultima ci impedisce di vivere pienamente.
Per farlo non possiamo essere soli. Abbiamo
bisogno di avere qualcuno di fronte che, come uno specchio, ci mette di fronte
ai nostri limiti.Il desiderio di andare in questa direzione è anche un
desiderio di sincerità nei propri confronti.
E il senso della mia ricerca oggi è andare verso qualcosa che mi
riporta a una sincerità interiore e mi rendo conto pian piano attraverso
l’aikido di quante cose inutili in qualche modo offuscano questa sincerità e di
come lasciando cadere man mano delle cose e accettandoci per quelli che siamo e
non per quelli che vorremmo essere, è come se qualcosa si ripulisse. Per usare
un’immagine molto nota è come uno specchio pieno di polvere che non riflette
più nulla e man mano che togliamo questa polvere che è assolutamente inutile lo
specchio torna di nuovo a riflettere un po’.
Ed è gradevole lasciar cadere poco per volta
quello che è fondamentalmente inutile.
Puoi fare un esempio
di questo “lasciar cadere” ?
Per esempio, io per anni avevo una difficoltà nel
contatto fisico con le persone.
Nel senso che o si trattava di un contatto intimo
con una compagna oppure il contatto era praticamente inesistente e la
possibilità di ritrovare un contatto fisico semplice, non finalizzato a
qualcosa è stata estremamente importante. Non entro nel merito dei motivi che
causavano questa difficoltà, di fatto ad un certo momento l’ho avvertita come
una forma di protezione inutile, che mi limitava. Ed il desiderio di
liberarmene ha creato già da solo le condizioni perché qualcosa cadesse, se ne
andasse, poco per volta.
Siamo abituati ad agire sempre con uno scopo,
nell’aikido è possibile ritrovare la possibilità di agire senza una finalità
quindi anche il contatto con un’altra
persona non ha necessariamente uno scopo ma diventa una senzazione
“pura”, una sensazione importante in sé e per sé.
E’ un po’ ritrovare la condizione del bambino che
sta giocando, il fatto di essere pienamente dentro al gioco senza che questo gioco abbia una finalità
che vada oltre al gioco stesso. Anche il contatto fisico può essere di questa
natura, tanto più forte in quanto privo di interpretazione, di significato. E
tutto ciò ci pone davanti a noi stessi nella misura in cui per esempio una
persona scopre di avere un lato di aggressività interiore che non ha mai
espresso e che paradossalmente le rende molto difficile il fatto di “attaccare”
un’altra persona. Proprio in quel momento, scopre che non riesce ad attaccarla
non tanto perché manca di questa
aggressività ma perché dentro di sé sente di averne anche più di altri e teme che da se stessa
possa uscire qualcosa di incontrollabile. La difficoltà di imparare ad
attaccare in certi casi deriva da questo.
Un’altra pratica che facciamo è il “kiai”, un
esercizio respiratorio in sui si comprime la respirazione prima di lasciarla
distendere emettendo un suono che è espressione di qualcosa di molto profondo
in noi. Dopo alcuni anni di pratica questo suono non parte più dalla gola ma da
zone più basse, più ventrali.Bene, molte persone all’inizio si sentono
intimorite anche alla sola idea di lasciar uscire un suono profondo, e magari
anche potente, ma il fatto di scoprire che puoi lasciar uscire liberamente e
senza timori la voce ha in certi casi il sapore di una conquista.
Perché Tsuda chiamava
l’aikido via della spoliazione?
Un‘ idea molto diffusa è quella che per vivere
meglio, per sentirsi meglio nella propria pelle abbiamo bisogno di crescere ma
l’idea di crescere è associata al fatto di diventare qualche cosa “di più”,
cioè di diventare più ricchi, avere un maggior bagaglio di conoscenze ecc, il
tutto in un’ottica di accumulazione e partendo dal presupposto che si cominci
da poco o niente per diventare qualche cosa di più… presentabile.
Per Tsuda, al contrario, si trattava di un cammino
di spoliazione nel senso che occorre prendere coscienza che siamo già fin
troppo carichi di tutto, di nozioni, di conoscenze, di idee ecc. e che tutto
questo carico essendo al 99% inutile ci impedisce di sentirci liberi. La
sensazione di libertà infatti aumenta man mano che abbandoniamo dei pesi, che
lasciamo la presa su tutta una serie di cose che sostanzialmente restringono il
campo della nostra vita.
Delle difese?
Anche delle difese, ma attenzione non tutte! Sin
da piccoli siamo obbligati a difenderci da aggressioni di ogni tipo e abbiamo
accumulato difese che sono diventate vere e proprie corazze. Era una necessità
per poter sopravvivere.
Alcune di queste difese, però, a un certo punto
diventano inutili e se lasciamo agire la saggezza inconscia del nostro corpo,
pian piano esso si libera di ciò che non è più necessario. Vuol dire che una
parte interiore di noi è diventata più forte e che non abbiamo più bisogno di
“bastioni protettivi”perché il nostro corpo ha ritrovato una vitalità, un asse
centrale e una fiducia che aveva smarrito.
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