giovedì 27 febbraio 2014

Grazie Sotigui (1)

 
Un saluto e qualche pensiero per Sotigui Kouyaté



Ieri sera, il 17 aprile 2010 alle 18.47, sei ritornato alla terra, Sotigui, alla tua terra calda che ti aspettava e ti accoglierà ora con dolcezza.
 Io non so ancora capacitarmi che non sentirò più la tua voce né incrocerò il tuo sguardo o i tuoi sorrisi così pieni di amore per i tuoi figli. Siamo in tanti a piangerti, in tanti che ti porteranno sempre con loro. Ormai dovrò cercarti dentro di me, nella pancia e nei ricordi - che sono per fortuna così tanti - oppure nella natura che hai tanto amato, nella terra concreta e nel vento.
E’ questo un mistero incomprensibile che si ripete da sempre e che mai potrà esser compreso fino in fondo da chi ama un altro che scompare.
Così, all’improvviso, lui va via. Un attimo fa era qui tra noi… adesso non c’è più… non ci sarà mai più. La mente non può capire, può solo accettare, farsene una ragione, ma capire no, non è possibile. Il mistero della morte in tutta la sua grandezza e in tutta la sua semplicità rimane in un altrove dove nessuna parola può giungere. Almeno nella sua essenza, quella che vibra e ci fa vibrare, quella che fa risuonare in noi tutta la musica della vita che ci è stata data e che siamo chiamati a sentire con tutti i nostri sensi.
La vita brucia e si spegne presto, come la candela a fianco del mio letto che ha liberato la sua fiamma e accompagnato in questo nuovo viaggio la tua anima per tutta questa notte. Bruciava insieme agli incensi del Mali che ho conosciuto nella tua casa, Sotigui, e che da lì provengono per dare un profumo alla mia dimora. Passa veloce, una notte, e si consuma in un baleno la bella cera bianca, il suo corpo svanisce nel nulla, il tuo bel corpo magrissimo e secco, pulito fino al midollo, che non teneva dentro di sé nulla d’altro che l’indispensabile per sopravvivere. Il corpo è lo specchio dell’anima e la nobiltà del tuo era il naturale riflesso del tuo spirito così alto.

Pochi mesi fa abbiamo passato due settimane insieme e spesso, in quei lunghi pomeriggi tranquilli, mi arrampicavo sulla tua immensa poltrona, grande come il trono di un re, e seduto sullo schienale ti massaggiavo la schiena. Quanto dovevamo essere buffi da vedere, una specie di altissima scultura africana nel tuo salotto multicolore!
Io bianco, tu nero, le mie mani sul tuo collo che si piegava morbido e sulla tua lunghissima schiena. Ti lasciavi massaggiare come un bambino, senza nessuna resistenza e borbottavi: “In me ci sono ormai solo pelle e ossa…”. Io invece sentivo la tua anima con le mie dita e il tuo corpo asciutto mandava segnali chiari e gradevoli. A te piaceva il mio modo di toccare senza tecnica né conoscenza, io stavo bene e molto a mio agio nel percorrere senza pensieri i tuoi rilievi ossuti ma dolci. Così nel silenzio abbiamo passato qualche ora insieme.

Sono passati in questo modo semplice i giorni trascorsi nella tua calda casa di Parigi, non ci sono state tante parole superflue tra noi ma una tacita intesa, quella sì. Io senza l’ansia di ricevere da te nuovi doni di saggezza, senza il bisogno di scavare nei tuoi tesori, tu aperto com’è un padre con un figlio a cui non deve dare più troppe indicazioni, eri bambino come solo un grande vecchio sa essere.
Rimanevi a lungo in silenzio mentre la vita della famiglia intorno a te continuava a pulsare. Chiedevi senza parole che ci si ricordasse di te, della tua presenza, desideravi un’attenzione semplice, normale, avevi il tuo spazio grande, ampio ma insieme piccolo, sempre più piccolo. Il tuo spazio tra gli altri.
Lasciavi venire la tua morte tra di noi, tranquillamente, silenziosamente, togliendo, togliendo, e togliendo ancora. Toglievi di te per far posto ad altri e lasciar vivere quella tua parte che ora respira in noi. Stavi tra noi ma in certi momenti la sensazione era come se tu non ci fossi più senza tuttavia che ciò divenisse un’assenza. Al contrario, la tua presenza era ancora più netta, più chiara anche se le tue esigenze personali, quelle dell’uomo Sotigui, dell’individuo, giorno per giorno cominciavano a passare in secondo piano rispetto a quelle degli altri, dei “giovani” che ti circondavano.
Il tuo spirito, poco alla volta, cambiava di corpo. Con dolcezza. Senza che tu ti estraniassi, senza che ti ritirassi nelle tue stanze, ti chiudessi in una solitaria fine, eri tra noi che mangiavamo, parlavamo, ridevamo. Ci stavi consapevolmente preparando alla tua partenza. Quanta aderenza al mondo della Natura avverto nel tuo atteggiamento, a quella società di “alberi, animali e persone” che tanto apprezzavi e incarnavi!

Il tuo ascolto, qualcosa che davvero ti appartiene, era tuttavia sempre lì con noi. Almeno finché ho potuto vederti, posso testimoniare che non si è mai affievolito. Quando parlavamo, anche se lo facevamo sottovoce o lontani da te, ci sentivi perfettamente. Con il tuo ascolto partecipavi, suscitavi, condividevi. Parlare ti era penoso ormai e ogni respiro era uno sforzo.
Ma con tutta la tua anima ascoltavi.
Ascoltavi me e Yagaré mentre giocavamo a Monopoli seduti al tavolo e senza pronunciarlo chiedevi con il tuo sorriso ironico e amorevolmente provocatorio: “Qui a gagné?”. Yagaré, la tua bellissima princesse di cui eri giustamente tanto fiero e che è così impregnata del tuo ritmo e della tua grazia.
Ascoltavi, con l’orgoglio del vecchio griot Kouyaté tuo nipote Miguel mentre lui ed io ci divertivamo un mondo: in Miguel vibra tutta l’energia della tua bella famiglia e l’infinita dolcezza dell’altro tuo figlio, il più grande, Dani.
Ascoltavi la parole di Mabo, il fratello maggiore di Yagaré che ha i dread biondi e l’irresistibile bellezza dei vent’anni, pronto per essere uomo, pronto per partire per mari lontani ma anche pronto ad assumersi le responsabilità di chi deve tenere in piedi la tua famiglia.
E ascoltavi - con che gratitudine! - la tua amatissima Esther mentre era di là affaccendata nella sua “sala del tè”: lei che tanto ti è stata vicina e ti ha voluto bene. La notte di questo capodanno, l’ultimo per te in questa vita, Esther l’ha passata nel suo letto, ammalata, e i tuoi pensieri e le tue attenzioni erano tutti per lei.
Quella sera i giovani, a fatica e loro malgrado, ma seguendo l’irresistibile bisogno di vivere, erano andati a cercare delle feste mentre tu ed io siamo rimasti quasi sempre in silenzio nella sala. A tratti anche dormendo, io sul comodo divano ricoperto di tessuto bogolan e tu seduto sull’amata poltrona. Ci siamo ascoltati senza nulla più e il tuo modo di farlo, vigile, attento, umano, rimarrà per me il tuo ultimo insegnamento, quello che vorrei poter approfondire negli anni che mi restano. E’ un ascolto, il tuo, che sente anche i pensieri, i sentimenti, le intenzioni. L’ho sentito bene in te e ora mi farà da guida.  

La tua famiglia, che sento anche mia tanto mi è vicina, è per fortuna forte e unita. “Siamo tutti ben stabili sui nostri piedi”. Sono le parole di Mabo, parole di un ragazzo determinato che è pronto ad agire e a far fronte alla situazione. In lui mi rivedo e rivivo quello che vissi 26 anni fa il giorno in cui mia mamma se ne andò.
Ti hanno accompagnato fino alla fine, Sotigui, e ti hanno tenuto le mani nelle loro anche nelle ultime ore. Mabo mi ha detto che rispondevi così, con piccole strette e pressioni delle dita alle loro domande e parole. C’eri, sentivi, capivi…
Le tue mani speciali con le dita belle e affusolate hanno carezzato e stretto le mie tante volte. Io lasciavo le mie riposare tra le tue e si entrava in un tempo senza tempo. Ora sono triste al pensiero di non poterle più incontrare, di non far più schioccare insieme a te le dita in segno di saluto come mi hai insegnato e come si usa in Burkina. Sono loro, le mani, regine della comunicazione non verbale, che hanno parlato ai tuoi cari quando i tuoi occhi non si aprivano più e le labbra non potevano più pronunciare le parole che avresti voluto.
Adesso, tra poche ore, Esther, Mabo e Yagaré ti porteranno in Burkina nella tua Africa. In questo ultimo viaggio ritornerai a casa e alla tua terra. Come potrebbe essere altrimenti? Quella stessa Africa, quella casa e quelle persone daranno alla tua famiglia tutto l’affetto e il calore di cui hanno bisogno. Moltiplicato per mille, con tutta la generosità che gli africani sanno offrire. La tua “grande” famiglia accoglierà la “piccola” nel suo grembo e ne sono felice anche solo al pensiero. Io verrò a trovarti presto, spero questo inverno, se finalmente sarà per me il momento di intraprendere questo viaggio che insieme dovevamo fare e se a Dio piacerà che ciò avvenga. Cercherò il tuo spirito in qualche grande albero.

(continua...)

Nessun commento:

Posta un commento