Un saluto e qualche pensiero per Sotigui Kouyaté
Ieri sera, il 17 aprile 2010 alle 18.47, sei
ritornato alla terra, Sotigui, alla tua terra calda che ti aspettava e ti
accoglierà ora con dolcezza.
Io non
so ancora capacitarmi che non sentirò più la tua voce né incrocerò il tuo
sguardo o i tuoi sorrisi così pieni di amore per i tuoi figli. Siamo in tanti a
piangerti, in tanti che ti porteranno sempre con loro. Ormai dovrò cercarti
dentro di me, nella pancia e nei ricordi - che sono per fortuna così tanti -
oppure nella natura che hai tanto amato, nella terra concreta e nel vento.
E’ questo un mistero incomprensibile che si ripete da
sempre e che mai potrà esser compreso fino in fondo da chi ama un altro che
scompare.
Così, all’improvviso, lui va via. Un attimo fa era
qui tra noi… adesso non c’è più… non ci sarà mai più. La mente non può capire,
può solo accettare, farsene una ragione, ma capire no, non è possibile. Il
mistero della morte in tutta la sua grandezza e in tutta la sua semplicità
rimane in un altrove dove nessuna parola può giungere. Almeno nella sua
essenza, quella che vibra e ci fa vibrare, quella che fa risuonare in noi tutta
la musica della vita che ci è stata data e che siamo chiamati a sentire con
tutti i nostri sensi.
La vita brucia e si spegne presto, come la candela a
fianco del mio letto che ha liberato la sua fiamma e accompagnato in questo
nuovo viaggio la tua anima per tutta questa notte. Bruciava insieme agli
incensi del Mali che ho conosciuto nella tua casa, Sotigui, e che da lì
provengono per dare un profumo alla mia dimora. Passa veloce, una notte, e si
consuma in un baleno la bella cera bianca, il suo corpo svanisce nel nulla, il
tuo bel corpo magrissimo e secco, pulito fino al midollo, che non teneva dentro
di sé nulla d’altro che l’indispensabile per sopravvivere. Il corpo è lo
specchio dell’anima e la nobiltà del tuo era il naturale riflesso del tuo
spirito così alto.
Pochi mesi fa abbiamo passato due settimane insieme e
spesso, in quei lunghi pomeriggi tranquilli, mi arrampicavo sulla tua immensa
poltrona, grande come il trono di un re, e seduto sullo schienale ti
massaggiavo la schiena. Quanto dovevamo essere buffi da vedere, una specie di
altissima scultura africana nel tuo salotto multicolore!
Io bianco, tu nero, le mie mani sul tuo collo che si
piegava morbido e sulla tua lunghissima schiena. Ti lasciavi massaggiare come
un bambino, senza nessuna resistenza e borbottavi: “In me ci sono ormai solo
pelle e ossa…”. Io invece sentivo la tua anima con le mie dita e il tuo corpo
asciutto mandava segnali chiari e gradevoli. A te piaceva il mio modo di
toccare senza tecnica né conoscenza, io stavo bene e molto a mio agio nel
percorrere senza pensieri i tuoi rilievi ossuti ma dolci. Così nel silenzio
abbiamo passato qualche ora insieme.
Sono passati in questo modo semplice i giorni
trascorsi nella tua calda casa di Parigi, non ci sono state tante parole
superflue tra noi ma una tacita intesa, quella sì. Io senza l’ansia di ricevere
da te nuovi doni di saggezza, senza il bisogno di scavare nei tuoi tesori, tu
aperto com’è un padre con un figlio a cui non deve dare più troppe indicazioni,
eri bambino come solo un grande vecchio sa essere.
Rimanevi a lungo in silenzio mentre la vita della
famiglia intorno a te continuava a pulsare. Chiedevi senza parole che ci si
ricordasse di te, della tua presenza, desideravi un’attenzione semplice,
normale, avevi il tuo spazio grande, ampio ma insieme piccolo, sempre più
piccolo. Il tuo spazio tra gli altri.
Lasciavi venire la tua morte tra di noi,
tranquillamente, silenziosamente, togliendo, togliendo, e togliendo ancora.
Toglievi di te per far posto ad altri e lasciar vivere quella tua parte che ora
respira in noi. Stavi tra noi ma in certi momenti la sensazione era come se tu
non ci fossi più senza tuttavia che ciò divenisse un’assenza. Al contrario, la
tua presenza era ancora più netta, più chiara anche se le tue esigenze
personali, quelle dell’uomo Sotigui, dell’individuo, giorno per giorno
cominciavano a passare in secondo piano rispetto a quelle degli altri, dei
“giovani” che ti circondavano.
Il tuo spirito, poco alla volta, cambiava di corpo.
Con dolcezza. Senza che tu ti estraniassi, senza che ti ritirassi nelle tue
stanze, ti chiudessi in una solitaria fine, eri tra noi che mangiavamo,
parlavamo, ridevamo. Ci stavi consapevolmente preparando alla tua partenza.
Quanta aderenza al mondo della Natura avverto nel tuo atteggiamento, a quella
società di “alberi, animali e persone” che tanto apprezzavi e incarnavi!
Il tuo ascolto, qualcosa che davvero ti appartiene,
era tuttavia sempre lì con noi. Almeno finché ho potuto vederti, posso
testimoniare che non si è mai affievolito. Quando parlavamo, anche se lo
facevamo sottovoce o lontani da te, ci sentivi perfettamente. Con il tuo
ascolto partecipavi, suscitavi, condividevi. Parlare ti era penoso ormai e ogni
respiro era uno sforzo.
Ma con tutta la tua anima ascoltavi.
Ascoltavi me e Yagaré mentre giocavamo a Monopoli
seduti al tavolo e senza pronunciarlo chiedevi con il tuo sorriso ironico e
amorevolmente provocatorio: “Qui a gagné?”. Yagaré, la tua bellissima princesse di cui eri giustamente tanto fiero e che è così
impregnata del tuo ritmo e della tua grazia.
Ascoltavi, con l’orgoglio del vecchio griot Kouyaté tuo nipote Miguel mentre lui ed io ci
divertivamo un mondo: in Miguel vibra tutta l’energia della tua bella famiglia
e l’infinita dolcezza dell’altro tuo figlio, il più grande, Dani.
Ascoltavi la parole di Mabo, il fratello maggiore di
Yagaré che ha i dread biondi e
l’irresistibile bellezza dei vent’anni, pronto per essere uomo, pronto per partire
per mari lontani ma anche pronto ad assumersi le responsabilità di chi deve
tenere in piedi la tua famiglia.
E ascoltavi - con che gratitudine! - la tua
amatissima Esther mentre era di là affaccendata nella sua “sala del tè”: lei
che tanto ti è stata vicina e ti ha voluto bene. La notte di questo capodanno,
l’ultimo per te in questa vita, Esther l’ha passata nel suo letto, ammalata, e
i tuoi pensieri e le tue attenzioni erano tutti per lei.
Quella sera i giovani, a fatica e loro malgrado, ma
seguendo l’irresistibile bisogno di vivere, erano andati a cercare delle feste
mentre tu ed io siamo rimasti quasi sempre in silenzio nella sala. A tratti
anche dormendo, io sul comodo divano ricoperto di tessuto bogolan e tu seduto sull’amata poltrona. Ci siamo ascoltati
senza nulla più e il tuo modo di farlo, vigile, attento, umano, rimarrà per me
il tuo ultimo insegnamento, quello che vorrei poter approfondire negli anni che
mi restano. E’ un ascolto, il tuo, che sente anche i pensieri, i sentimenti, le
intenzioni. L’ho sentito bene in te e ora mi farà da guida.
La tua famiglia, che sento anche mia tanto mi è
vicina, è per fortuna forte e unita. “Siamo tutti ben stabili sui nostri
piedi”. Sono le parole di Mabo, parole di un ragazzo determinato che è pronto
ad agire e a far fronte alla situazione. In lui mi rivedo e rivivo quello che
vissi 26 anni fa il giorno in cui mia mamma se ne andò.
Ti hanno accompagnato fino alla fine, Sotigui, e ti
hanno tenuto le mani nelle loro anche nelle ultime ore. Mabo mi ha detto che
rispondevi così, con piccole strette e pressioni delle dita alle loro domande e
parole. C’eri, sentivi, capivi…
Le tue mani speciali con le dita belle e affusolate
hanno carezzato e stretto le mie tante volte. Io lasciavo le mie riposare tra
le tue e si entrava in un tempo senza tempo. Ora sono triste al pensiero di non
poterle più incontrare, di non far più schioccare insieme a te le dita in segno
di saluto come mi hai insegnato e come si usa in Burkina. Sono loro, le mani,
regine della comunicazione non verbale, che hanno parlato ai tuoi cari quando i
tuoi occhi non si aprivano più e le labbra non potevano più pronunciare le
parole che avresti voluto.
Adesso, tra poche ore, Esther, Mabo e Yagaré ti
porteranno in Burkina nella tua Africa. In questo ultimo viaggio ritornerai a
casa e alla tua terra. Come potrebbe essere altrimenti? Quella stessa Africa,
quella casa e quelle persone daranno alla tua famiglia tutto l’affetto e il
calore di cui hanno bisogno. Moltiplicato per mille, con tutta la generosità che
gli africani sanno offrire. La tua “grande” famiglia accoglierà la “piccola”
nel suo grembo e ne sono felice anche solo al pensiero. Io verrò a trovarti
presto, spero questo inverno, se finalmente sarà per me il momento di
intraprendere questo viaggio che insieme dovevamo fare e se a Dio piacerà che
ciò avvenga. Cercherò il tuo spirito in qualche grande albero.
(continua...)
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