giovedì 25 marzo 2021

Sotto il Vulcano




Roberto, Giacomo, Lidia e Chiara... In quanti mi avete scritto di non aver ancora letto “Sotto il Vulcano” ! Mi fate venir voglia di dirvi qualcosa in più su questo libro così particolare.

Innanzitutto, che non ero mai riuscito a leggerlo prima. Chissà perché, forse per una questione di maturità? Nella vita pagine che erano rimaste finora chiuse, ermetiche, ad un certo momento si spalancano. E così negli ultimi tempi sono riuscito a leggere con piacere - un piacere fisico, sensoriale, denso - libri complessi (dalla struttura e dalla scrittura complessa) come “Rayuela” di Cortazar, “Conversazioni nella Cattedrale” di Vargas Llosa, “Cent’anni di solitudine” di Marquez e ora, questo capolavoro di Malcom Lowry. In comune hanno tutti che, alla fine della lettura, ti lasciano una sensazione corposa, un notevole peso specifico, una visione multidimensionale e senza tempo del mondo. Forse a breve sarò pronto anche per “L’Ulisse” di Joyce o chissà che altro scritto... Meno male che con gli anni che passano pian piano cresce anche la nostra capacità di trovare gusto nella difficoltà, nel non evidente, nel chiaro scuro. Quanta ricchezza abbiamo da scoprire!

Allora ecco qualche considerazione sparsa su “Sotto al vulcano”, di certo non le più importanti ma quelle che mi vengono ora, a getto...

Messico e le sue atmosfere lente, i suoi vulcani immobili ma eternamente vivi, implacabili testimoni di vita e di morte. Messico e paesaggi onirici, alcolizzati, dolci, selvatici. Dove l’umanità uccide ridendo e ama morendo. Messico e la sua cultura “altra” che stona, stride, si scontra con l’inglesità dei personaggi del libro, così turisti in fondo, così ammaliati da un’irragionevolezza calda che li travolge e così ammalati di un cerebralismo europeo che non consente loro di viverla altro che come decadenza, perdita di sé e annullamento tragico.

L’Amore più intenso, che non sarebbe nemmeno impossibile - anzi il contrario - sfocia nell’incomunicabilità più agghiacciante e spaventosa. Quasi nemmeno una parola ormai tra il Console e Yvonne che, amanti appassionati prima, potrebbero esserlo anche ora però non sanno più dirsi ciò che nel cuore è ancora dolce e caldo. Sconfitti, frustrati, annientati dalla storia e dal passato. Terrificante la loro incapacità di agire nel senso desiderato, di agire “tout court”, di colmare il divario tra paesaggio interiore e realtà concreta.

Il Console va verso la sua rovina totale con autocompiacimento misto a terrore, disgusto misto a passione, edonismo simpatico misto ad apatia insopportabile. Tutta la contraddizione dell’essere umano è descritta così bene. La storia della sua inesorabile caduta non si dipana in modo lineare. Siamo nei meandri di un alcolismo in cui tutto si aggroviglia e la realtà - quale realtà? - non è più una sola bensì un groviglio di sensazioni contorte e lucide, buie e luminose, vere e immaginarie, infantili e vecchie. Paure e illusioni, salvezze possibili e ineluttabile disperazione, sono un tutt’uno in questi universi interiori bagnati, creati e imposti dall’alcol. Birra, ron, gin, whisky, tequila sono tante porte progressive. Il nume nero, il Mescal, la porta valicata la quale non c’è più ritorno, attende irresistibile e silenzioso che crolli ogni futile tentativo di umana resistenza. Poi rimangono solo le voragini di un vulcano impietoso che tutto inghiotte e il baratro nero in cui precipitare vorticosamente. Lasciate ogni speranza o voi che entrate... 




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