venerdì 26 marzo 2021

Un nuovo Dojo

 



Un nuovo Dojo, la ripartenza

Cari amici di Akeleinaa Dojo, vi scrivo per comunicarvi in breve i cambiamenti che introdurrò nel funzionamento e nella concezione del Dojo a partire dal mese di settembre 2020.

Sono lieto di comunicarvi la decisione a cui finalmente sono giunto: essa è il frutto di una riflessione non soltanto dei mesi appena trascorsi ma di un periodo più lungo, più o meno riferibile agli ultimi due anni che ho sentito più complicati dei precedenti. In sostanza, avverto la necessità di un cambiamento di rotta, personale e collettivo, affinché la pratica che condividiamo ritorni ad essere vivace e possibilmente allegra come è stata in altri periodi e non perduri una fase che definirei di ristagno nella quale si rischia di perdere di vista aspetti che ritengo essenziali quali la libertà, il piacere, la spontaneità, l’entusiasmo, il desiderio, l’impegno.

In questa lettera, vorrei motivare almeno in parte le variazioni di carattere pratico che intendo proporre, affinché non siate troppo sorpresi quando riprenderanno le attività dopo la pausa estiva. Rinvio ogni approfondimento a quando ci ritroveremo insieme. Certo, parlare del Dojo e del suo funzionamento è un tema che mi appassiona e su cui potrei soffermarmi senza stancarmi (in fondo gli ho dedicato quarant’anni della mia vita) ma sono perfettamente consapevole che ciascuno di noi ha il proprio vissuto e priorità diverse perciò non intendo dilungarmi.

La direzione che ho deciso di intraprendere quando ho fondato Akeleinaa nel 2005 era un tentativo di dare una risposta a una domanda non scontata: può davvero esistere un Dojo libero, flessibile e aperto (non troppo strutturato e direttivo) oppure si tratta solo di un ideale astratto?

Quindici anni dopo non ho ancora risposte né certezze ma la direzione interiore rimane invariata. Credo tuttavia che sia man mano maturata in me una concezione di Dojo fondamentalmente diversa da quella che avevo allora.

Il mio percorso, in estrema sintesi, è stato questo:
Per due anni (dal 1982 al 1984) ho vissuto l’appassionante scoperta della pratica del Katsugen undo e dell’Aikido.
Per vent’anni (dal 1984 al 2004) ho praticato con un maestro e il suo gruppo (microcosmo) di allievi.
Per quindici anni (dal 2005 al 2020) ho praticato, senza esserne abbastanza consapevole, in reazione a quel maestro. Ho creato un Dojo personale, ho cercato e trovato la mia strada, il mio stile e la mia parola per comunicare ciò che avevo da dire. In tutto questo tempo ho tuttavia continuato a credere e riconoscermi in un’ideale di gruppo e di pratica collettiva che, seppur antitetici e fondati su principi diversi rispetto a quelli vissuti (e subiti) negli anni della mia “formazione”, in realtà ne perpetravano un aspetto fondamentale: l’idea di Dojo inteso come espressione di un gruppo coeso, possibilmente permanente. Ho lavorato moltissimo per dare una struttura “stabile” a una realtà che, ora ne sono convinto, non può che essere mutevole e dunque sostanzialmente instabile. Realizzazione individuale e appartenenza ad un gruppo possono convivere solo per un tempo determinato.

Oggi, in un certo senso sciogliendolo, decido di uscire dall’idea di gruppo/dojo e dalla responsabilità di guidarlo (o di non-guidarlo). Nel farlo, commisurando i fatti alle parole, intendo liberarmi dalle contraddizioni insite in ogni gruppo: gerarchie, ruoli, dipendenza, struttura che tende man mano a irrigidirsi. Anche se nostro malgrado, esse finiscono per instaurarsi e imprigionarci, portando disagio, profondo malessere e conflitto.

Ho finito per convincermi, tuttavia, che l’idea stessa di gruppo, semplice o strutturato che sia, è una causa di sofferenza. Mi sono accorto del rischio che essa diventi un vero e proprio ostacolo a quella libertà interiore a cui aspiro e che considero essenziale nella pratica che mi sono scelto. Non ho più il desiderio di sostenere e perpetuare quest’idea e ne assumo le conseguenze.

Con il cuore più leggero posso finalmente sognare di avventurarmi in un terreno di nuovo aperto e ignoto, seguendo il profumo invitante della libertà incondizionata e di una conoscenza che si rinnova costantemente. Sui tatami del Dojo, ancor più di prima, l’oggi sarà il reale mentre il domani sarà il possibile. In sostanza, quando praticheremo insieme - mi auguro con ritrovato piacere - proveremo forse il desiderio di ripetere altre volte quell’esperienza e ciò accadrà se ce ne saranno le condizioni. Nulla però sarà scontato o dovuto: ci conquisteremo la pratica giorno dopo giorno. Nel comunicarvi questi pensieri, sento un nodo che si scioglie dentro di me e un senso di cammino che ritorna ad essere chiaro. L’orizzonte ritorna ad aprirsi davanti ai miei occhi.

La pratica è generosa ma non è gratuita. Essa ci restituisce in misura di quanto le diamo. Vorrei soffermarmi un attimo sul valore dell’impegno. Esso porta con sé fiori e frutti. Quando invece esso manca, viene meno ogni qualità, ogni dono inatteso, ogni luce. Possiamo interrogarci se questo impegno sia dovuto a qualcuno o qualcosa. Prima di tutto lo dobbiamo a noi stessi e alla vita che ci anima. Impegnarsi con se stessi significa offrirsi una rosa ogni giorno e nobilitare la nostra esistenza. Ci terrei che ciò fosse ben chiaro per chi intende continuare a praticare ad Akeleinaa dojo.

Secondariamente, l’impegno può avere una valenza collettiva, possiamo cioè desiderare che il nostro luogo di pratica possa continuare ad esistere, che possa diventare più accogliente, più vivo, più bello. Ci adoperiamo allora concretamente affinché tutto ciò possa accadere.
Esiste, tuttavia, una forma più insidiosa e complessa d’impegno ed è quella dell’impegno personale reciproco. Una relazione nata per essere spontanea e libera finisce per trasformarsi in un legame, un dovere, un’abitudine. Mi chiedo, per lo specifico contesto di un Dojo e per una sua esistenza sana, se questi siano necessari e auspicabili. La conclusione a cui giungo è che no, essi non lo sono. Allora penso anche che, almeno in questo luogo di pratica autentica, possiamo ridurre i compromessi sociali, abolendo matrimoni e contratti, e lasciare che ogni affetto eventuale si manifesti solo nella sua spontaneità. Mi sento assai più leggero nel rendermi conto che sto uscendo da questa forma di vincolo: mi sto liberando di voi e vi sto liberando di me. Possiamo finalmente cominciare un nuovo cammino insieme, più sincero e semplice, meno carico di aspettative reciproche. Ognuno facendo affidamento sulle proprie gambe e sul proprio slancio vitale.

Perché tenere aperto un Dojo?

La pratica Zensei è la pratica della Vita Integrale. Essa si propone di offrire a ciascuno gli strumenti e le chiavi che consentano di condurre un’esistenza piena e soddisfacente, nel rispetto dell’integrità individuale, delle sensibilità diverse e dell’autonomia personale.
Il Dojo è il luogo sereno e tranquillo che accoglie le pratiche del Non-Fare. Queste pratiche, in sé, non tendono ad alcuno scopo né all’ottenimento di qualsiasi risultato, non poggiano su una conoscenza pregressa né trasformano la vita e le sue manifestazioni in tecnica insegnabile o trasmissibile.

Ad Akeleinaa dojo, lo spirito Zensei si esprime attraverso quattro pratiche, diverse per origine e forma, ma unite da un Ki (spirito vitale) che le attraversa tutte e le armonizza: il Katsugen Undo (movimento rigeneratore), l’Aikido (unione attraverso il respiro), lo Zazen (meditazione zen) e il Gioco del Dipingere (espressione della traccia naturale).

Queste pratiche, ognuna attraverso le proprie specificità, conferiscono valore e nobiltà ad un atto spontaneo che non è dettato dalla ragione ma che sorge incondizionato come risposta dell’organismo ad un bisogno interiore inconscio. Esse risvegliano dunque la vitalità, la sensibilità e la creatività di ogni persona invitando all’ascolto della Vita che scorre in noi e ci anima.

In un Dojo Zensei, guide, maestri e mediatori non sono perciò necessari, soprattutto se favoriscono un fraintendimento controproducente e dannoso: che sia cioè buona cosa seguire qualcuno che ci indichi il sentiero su cui procedere. Come diceva Jiddu Krishnamurti non esiste un sentiero che porti alla verità mentre Itsuo Tsuda, con altre parole, esprimeva lo stesso pensiero: la Via non è un’autostrada verso il paradiso. Il risveglio autentico, l’autonomia e la libertà personale - e tutta la gioia che ne consegue - possono solo essere il frutto di un cammino individuale, a volte anche difficile e tortuoso, orientato verso il dentro, verso il centro del nostro essere.

Se intraprendere o meno questo cammino è una decisione personale. Nessuno può suscitare in noi il desiderio di muoverci e di effettuare il primo passo né quelli successivi. Un’altra persona, ben disposta nei nostri confronti, potrà forse soffiare sulle braci affinché il fuoco non si spenga del tutto ma la responsabilità, il merito, la fierezza e la gioia piena per aver (ri)scoperto che la Luce è dentro ognuno di noi saranno assolutamente nostri, solo nostri.

Non siamo soli in questo mondo, a meno che non ci si sia ritirati in qualche caverna lontana e irraggiungibile. Per le persone come me che hanno deciso di passare, almeno per il momento, la propria esistenza in una grande città dai ritmi spesso innaturali, dai rumori frastornanti e da consuetudini di vita collettiva faticose da sostenere, è gradevole sapere che esiste un Dojo, luogo dove il tempo si ferma o perlomeno rallenta, dove posso ritrovare e rispettare la parte più vera di me stesso. E soprattutto oggi, in cui le forme di condizionamento e di alienazione collettiva diventano sempre più subdole, insidiose e invadenti sono davvero grato a questi spazi vuoti e semplici che ci proteggono e consentono di esprimere l’intimità e la verità di ciascuno. Non più rinchiusi, soli e non-comunicanti fra le quattro mura dei nostri appartamenti, persi di fronte ad un grande o piccolo schermo. Ma uniti dal piacere di sentirsi insieme, di farsi Yuki, di toccare con mano il movimento che esprime la vibrazione del vivente. Un Dojo non è spazio virtuale né immaginario, è terreno in cui può nascere, crescere e rigenerarsi la Vita. Officina di fiducia e di speranza, crogiuolo di respiro libero, esso è uno spazio interiore ma anche fisico che nessuno potrà mai togliermi. Per questo voglio continuare a tenerlo aperto e a proporlo a chi mi circonda, a chi si avvicina, a chi ne è attirato. Un dojo autentico è un’isola preziosa in cui la bio-diversità continuerà ad aver diritto di esistere e di replicarsi. Coltiviamolo senza colonizzarlo, questo è il mio sogno.

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