Prima lezione: Dojo del Maestro Higuchi Takanori, Takemusu aiki (Iwama ryu)
Higuchi sensei è stato allievo di Saito Morihiro e
di Tanaka Bansen. Ha ricevuto il 3° dan da Ueshiba Morihei e molti notevoli
riconoscimenti dagli altri maestri.
Il Dojo si trova in una viuzza nel centro di
Kyoto. Avevo spedito un’email qualche settimana prima di partire per il
Giappone, senza ricevere risposta. Giunto qui, Sayoko, una cordiale signora
giapponese che mi ha molto aiutato durante questo soggiorno, gli ha telefonato
per chiedere se potevo partecipare ad una lezione. Lui ha risposto di sì ma che
dovevo confermare la mia presenza e venire con un’interprete giapponese. Sul
momento ho dunque deciso: non era consentito esitare. L’indomani, in orario
serale, Sayoko ed io ci siamo presentati al dojo. Un allievo ci ha cortesemente
mostrato dove potevamo parcheggiare la bici e poi ci ha condotto su per le
scale fino ad una piccola stanza al primo piano. Lì, ci ha accolto il sig.
Higuchi che, fin dal primo istante, mi ha dato l’impressione di voler mantenere
le distanze. Forse la formalità del suo sorriso, forse la sua postura
ostentatamente dritta da vero maestro giapponese (seduto in seiza, un po’impettito) facevano sì che non mi sentissi
completamente a mio agio. Lui stava là, noi stavamo qui. Inchini, saluti,
presentazioni, tutto molto nipponico. Si è scusato per non aver risposto alla
mia email, dicendo che ne riceve centinaia dall’estero e che le cestina tutte
senza nemmeno leggerle (sic!). Poi mi ha chiesto per quale motivo ero in
Giappone e gli ho risposto che sono qui per studiare il Seitai con Onizuka sensei.
“Umm...”.
Dove pratico l’aikido e in quale scuola? Pratico
l’aikido del Maestro Tsuda. Smorfia un po’ stupita. Non deve aver mai sentito
questo nome (Higuchi, ad occhio e croce, avrà 55 anni). Gli dico che Tsuda ha
praticato con Morihei Ueshiba tra il 1955 e il 1969, anno in cui si è
trasferito in Francia.
- O.k, lei può assistere alla lezione.
- Vorrei praticare, se possibile.
Mi squadra severo e un po’ sorpreso, poi a
bruciapelo spara:
- Lei è davvero pronto?
Dentro di me mi sono detto: “mamma mia...” ma ho
risposto immediatamente:
- Hai!
Sì! Sono qui per questo.
Allora lui ha risposto che di solito non accetta
MAI persone che si presentano così come ho fatto io, con una sola telefonata,
ma che siccome mi sono dimostrato molto deciso e desideroso, posso partecipare.
Contento ringrazio e mi preparo. Ci si cambia velocissimi sul posto, non c’é
spogliatoio, le ragazze, due, dietro ad una tenda. Poi veloci su per la scala
di ferro ed eccoci nel dojo... Sorpresa... è minuscolo! Forse 12 mq... E siamo
una decina di praticanti. Saluti iniziali e l’allievo più anziano pratica con
me una forma di tai sabaki come
riscaldamento. Tanti movimenti uno dopo l’altro, ritmo sostenuto. Prima di ogni
movimento ci si inchina rispettosamente esprimendo un reciproco apprezzamento
con le parole “onegai shimasu”,
alla fine si ringrazia “arigatoo gozaimashita”. Questo anche nelle altre scuole in cui ho
praticato. Se non viene fatto per sola formalità, è una bella consuetudine.
All’inizio, come di solito mi succede, mi sento un
po’ impacciato e principiante, poi man mano che la seduta avanza ritrovo il mio
centro e la sicurezza. Pratichiamo in due gruppi. Cerco di eseguire i movimenti
esattamente come li praticano loro. Non è facile farlo senza indurirsi e
diventare un po’ brutali. Spesso ho riscontrato, qui e altrove, un uso
eccessivo dei muscoli e della forza delle braccia. Mi pare inutile ed
inappropriato.
Ad un certo punto comincio a respirare
profondamente. Semplicemente respirando, tutto cambia. Le resistenze si
sciolgono e gli altri praticanti cominciano a guardarmi con occhi diversi. Ho
qualcosa da “dire”.
Higuchi mostra le tecniche tre, o al massimo,
quattro volte. Sempre con lo stesso uke (il più avanzato) che è grande e piuttosto gentile. Il sensei, uomo di piccola statura e piuttosto asciutto. è
molto forte ed efficace. Almeno, questo è quanto gli preme mostrare. Tuttavia
la sua pedagogia, a parte il rigore e gli sguardi severi, mi sfugge. Si siede
e, immobile, guarda. Non mi corregge e nemmeno mi rivolge la parola. Sento però
che mi osserva continuamente. Mi chiedo anche se il suo atteggiamento così
protetto non nasconda una forma di insicurezza. Umanamente non credo che
imparerò nulla da lui anche se le tecniche sono interessanti. Nell’insieme,
percepisco una certa durezza e un’atmosfera che stenta a scaldarsi nonostante
il gran movimento a cui ci siamo chiamati. In questa scuola l’aikido praticato
viene definito “tradizionale”. Di certo una lezione è davvero insufficiente per
valutare appieno ma resta il fatto che alla domanda “Perché definirlo
tradizionale?” non ho saputo dare né trovare risposta. L’aikido di Morirei
Ueshiba o di Noriaki Inoue mi sembra così distante da quello che ho visto qui…
La seduta continua incessante. Tanto lavoro e
spostamenti in suwari waza,
sulle ginocchia. Ne uscirò dolorante e con il braccio sinistro un po’ malconcio
per uno stritolamento ricevuto al polso durante un’immobilizzazione a terra. In
ogni caso, ho potuto constatare che se si rimane distesi, svegli e con la testa
vuota si può far fronte ad ogni durezza senza farsi male. Ma non c’é tempo per
pensare.
Un giovane praticante, molto sicuro di sé e della
sua tecnica, cerca in continuazione di mettermi in difficoltà. Ad un certo
punto mi girano un po’ le scatole e, con molta determinazione, gli faccio
sentire che senza sforzo posso fare quello che voglio di lui. Il suo
atteggiamento cambia completamente.
Sembra che nessuno inspiri mai, in nessun
frangente. E’ tutto un continuo espirare: “ei! ei! ei! ei!…”, un’ininterrotta tensione che si esprime in questi
suoni gutturali e ripetitivi (lo sono tanto che finiscono per svuotarsi di ogni
senso). Io, pur nella rapidità e nei tempi brevi che mi sono concessi, inspiro
il più possibile. Cerco di dilatare l’inspirazione.
Durante kokyu ho, alla fine, l’allievo anziano mi blocca con forza
ma “entro” senza difficoltà seguendo la respirazione. Lui cede come una pasta
tenera. Non ha l’animo aggressivo. In certi momenti, ultimamente, mi sorprendo
di me stesso e della facilità con cui riesco a fare alcune cose. Ma non è sempre così e, dopo una seduta
come questa, so che molto può ancora approfondirsi. Ho anche la consapevolezza
che, ancora, in certi frangenti, mi lascio prendere da una sorta di agitazione
interiore di cui potrei benissimo fare a meno.
A seduta terminata, tutti gli allievi sono gentili
e mi ringraziano dicendo di aver imparato molte nuove cose da me. C’è molta
cordialità e li invito a passare a Milano, nel nostro dojo.
Anche Higuchi, giù in basso, mi dice di esser
contento che io sia venuto. Aggiunge che posso tornare a praticare se lo
desidero. Mi dice anche con una certa fierezza che Morihei Ueshiba ha dormito
nella stanza a fianco, in occasione di un suo passaggio a Kyoto.
Per questa “iniziazione” sono invitato, anche se
di solito, precisa, non è così. Dalla prossima lezione ovviamente dovrò pagare.
Io so però che non tornerò da lui, ma lo ringrazio sinceramente di avermi
accettato alla sua lezione.
Kyoto, 10 gennaio 2008
(continua...)
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