Come Giona dormo a me
stesso.
Anzi più di lui, poiché
la voce
che al proprio cammino
chiama non sento
e di averla mai sentita
dubito.
Pensavo di conoscerla,
quella voce, di averla già ascoltata,
mi illudevano risonanze e
situazioni,
ma or che esse più non
sono e non c’è suono che qui intorno la canti
mi rimane solo uno stanco
senso di vuoto,
sapore dolciastro di un
frutto passato,
amarezza per non averlo
gustato appieno.
Si lasciò buttare a mare,
Giona, morì tra le onde
e sotto, finalmente
sotto.
Salvarono la vita gli
innocenti marinai,
placarono la tempesta
dando all’acqua assetata quel corpo solitario:
corpo d’uomo che ancor
non lo era, ché si rifiutava di esporsi al vento.
Affinché gli occhi non
vedessero, dormiva,
non del sonno sognante e
antico dei fanciulli,
abbandono sorridente
nell’ansia di risveglio,
ma di un sonno inquieto
popolato di incubi e spettri,
da cui mai ci si vorrebbe
destare.
Si salvarono, loro,
sopprimendo quel suo mondo chiuso,
furono coraggiosi, non vigliacchi,
poiché di chi è più grande
ascoltarono la volontà,
seppero rispettarla.
Così alla vita
restituirono anche Giona,
resuscitato alla
coscienza e all’amore;
e per questo egli si
lasciò fare, con gratitudine per l’insperato aiuto:
come resistere ancora e
perché?
Accettò che quelle mani
rudi e sincere lo stringessero, lo sollevassero, lo gettassero…
Non da solo si sarebbe
tuffato,
non senza amore sarebbe
finito in bocca al pesce.
Pesce balena dalle fauci
immense e spalancate
che attendi paziente appena
sott’acqua,
non poi così in profondo
bisogna venirti a cercare.
Chiudere gli occhi basta
e dalle correnti e dalla grazia lasciarsi trasportare
abbandonando però lo
strenuo appiglio di mani e pensieri,
ché non di approdo sicuro
bensì di immobile ristagno questi sono garanti.
Direttamente lì ci
conduce il nostro destino, tra quei denti acuminati,
cancelli spaventosi,
oltre ai quali non c’è
che un buio sempre più buio:
o almeno così crediamo,
guardando qui da fuori, all’asciutto.
Eppure sappiamo bene che
da nessun’altra parte possiamo finire
quando ci abbandoniamo
alla corrente,
che nessuna nave porta
alla lontana Tarsis
quando il nostro cuore è
chiamato dalla Ninive che è dentro.
Ma guardiamoli bene quei
denti e quella gola, non ci sono forse varchi e passaggi?
E quel buio non è forse
ombra, silenzio che ristora, riposo d’idee?
Morte temuta morte,
quanto sei osteggiata da
noi piccoli e ignari,
ma se poi duri solo tre
notti e tre giorni,
perché non accettare il
tuo invito?
Milano, 1 giugno 2005
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