sabato 18 gennaio 2014

Come Giona, dormo





Come Giona dormo a me stesso.
Anzi più di lui, poiché la voce
che al proprio cammino chiama non sento
e di averla mai sentita dubito.
Pensavo di conoscerla, quella voce, di averla già ascoltata,
mi illudevano risonanze e situazioni,
ma or che esse più non sono e non c’è suono che qui intorno la canti
mi rimane solo uno stanco senso di vuoto,
sapore dolciastro di un frutto passato,
amarezza per non averlo gustato appieno.

Si lasciò buttare a mare, Giona, morì tra le onde
e sotto, finalmente sotto.
Salvarono la vita gli innocenti marinai,
placarono la tempesta dando all’acqua assetata quel corpo solitario:
corpo d’uomo che ancor non lo era, ché si rifiutava di esporsi al vento.
Affinché gli occhi non vedessero, dormiva,
non del sonno sognante e antico dei fanciulli,
abbandono sorridente nell’ansia di risveglio,
ma di un sonno inquieto popolato di incubi e spettri,
da cui mai ci si vorrebbe destare.

Si salvarono, loro, sopprimendo quel suo mondo chiuso,
furono coraggiosi, non vigliacchi, poiché di chi è più grande
ascoltarono la volontà, seppero rispettarla.
Così alla vita restituirono anche Giona,
resuscitato alla coscienza e all’amore;
e per questo egli si lasciò fare, con gratitudine per l’insperato aiuto:
come resistere ancora e perché?
Accettò che quelle mani rudi e sincere lo stringessero, lo sollevassero, lo gettassero…
Non da solo si sarebbe tuffato,
non senza amore sarebbe finito in bocca al pesce.

Pesce balena dalle fauci immense e spalancate
che attendi paziente appena sott’acqua,
non poi così in profondo bisogna venirti a cercare.
Chiudere gli occhi basta e dalle correnti e dalla grazia lasciarsi trasportare
abbandonando però lo strenuo appiglio di mani e pensieri,
ché non di approdo sicuro bensì di immobile ristagno questi sono garanti.
Direttamente lì ci conduce il nostro destino, tra quei denti acuminati,
cancelli spaventosi,
oltre ai quali non c’è che un buio sempre più buio:
o almeno così crediamo, guardando qui da fuori, all’asciutto.

Eppure sappiamo bene che da nessun’altra parte possiamo finire
quando ci abbandoniamo alla corrente,
che nessuna nave porta alla lontana Tarsis
quando il nostro cuore è chiamato dalla Ninive che è dentro.
Ma guardiamoli bene quei denti e quella gola, non ci sono forse varchi e passaggi?
E quel buio non è forse ombra, silenzio che ristora, riposo d’idee?
Morte temuta morte,
quanto sei osteggiata da noi piccoli e ignari,
ma se poi duri solo tre notti e tre giorni,
perché non accettare il tuo invito? 

                          
Milano, 1 giugno 2005

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