martedì 28 gennaio 2014

Aikido a Kyoto (4)

(segue)




Ero giunto da poco, qui a Kyoto, e mi avventuravo nella montagna dietro al Nanzenji alla ricerca di Oku no in, un luogo sacro piccolo e appartato, meno visitato del tempio centrale. Sapevo che vi avrei trovato una piccola cascata di acqua gelata dove a volte si recano pellegrini e ricercatori per bagnarsi e purificarsi. Avevo seguito le indicazioni della guida, camminato a lungo parallelamente all’antico acquedotto che porta a Kyoto l’acqua del lago Biwa e poi seguito il sentiero che saliva verso il monte. Ma mi ero perso.
  La cosa non mi dispiaceva. Camminando tra questi fitti boschi, i miei occhi non si stancavano di guardare con stupore le altissime e silenziose criptomerie che si mischiavano sorprendentemente con schiere di immensi bamboo. Personaggi vivissimi di una commedia naturale.
Un santuario shinto era spuntato dal nulla, come un po’ abbandonato in questo paesaggio mattinale. Non c’era nessuno in giro e ho potuto godermi appieno la calma di quel momento e anche fare qualche foto di quelle dimore di legno con tetti di paglia in cui i kami amano soffermarsi.
Ad un certo punto ho incontrato una coppia di giovani. Lei giapponese e molto carina. Lui un occidentale dalla faccia vivace e simpatica. Ho chiesto indicazioni su dove ci trovavamo e la ragazza è stata molto gentile. Ha cercato in tutti i modi di darmi informazioni utili. Lui rimaneva piuttosto silenzioso e sorridente. Il pensiero che potesse praticare l’aikido mi ha sfiorato per un attimo.
Andando via mi sono detto che mi ero allontanato troppo in fretta. Avrei potuto fare amicizia con loro. Ero appena giunto a Kyoto e non conoscevo nessuno. Così è la vita, a volte si perdono le occasioni, non le si coglie.

Una settimana dopo, il 31 dicembre, viaggio spedito sulla mia inseparabile bicicletta e vicino al fiume Kamo incrocio Khalid, anch’egli in bici. “Mi riconosci?” gli dico. “Certo”, mi risponde. Ci salutiamo e parliamo un po’, strada facendo. Mi chiede quale sia il mio lavoro. Gli dico che insegno l’aikido e che sto cercando un luogo dove praticarlo. “Oohh” dice lui, mezzo iracheno e mezzo scozzese, “Anch’io pratico l’aikido!”. Misteri della vita e del ki, avevo visto giusto. E l’amicizia mancata qualche giorno prima può stringersi ora. “Perché non vieni a conoscere la mia maestra? Si chiama Ookamoto. E’ una buona insegnante”. Su internet avevo visto il sito web di Ookamoto sensei. Mi dava l’impressione di un aikido molto energico e sportivo che non è esattamente quello che cerco. “In effetti lei, più che di ki, parla di utilizzare i muscoli interni...” dice Khalid ridendo “ma vale la pena provare!”.

Quindi provo. Alla prima occasione che mi si presenta, rinuncio alla visita programmata e prenotata da mesi alla villa imperiale di Shugakuin e mi reco al Budo Center per incontrare Yoko Ookamoto.



Terza e quarta lezione: Dojo della maestra Yoko Ookamoto
(Aikikai di Kyoto, dojo affiliato all’Hombu Dojo di Tokyo.)

E’ stata allieva di Kisshomaru Ueshiba, poi di Yamaguchi sensei, poi di C. Tissier in Europa e di un altro maestro negli Stati Uniti.

Giungo al Budo center verso le 8:30. La lezione incomincia alle 9 ma so che i primi arrivati hanno tutti i tatami da posizionare (circa 150 mq) e quindi desidero dare una mano. Incontro subito due alti inglesi, all’opera nel trasporto dei tatami. Devono essere padre e figlio. Si assomigliano molto. Saluto semplicemente. Il padre, che desta in me un immediato senso di antipatia, non mi guarda nemmeno e grugnisce qualcosa di incomprensibile. Il figlio, seccamente, mi dice: “First time?” e mi porta da Ookamoto sensei.
In questa grande sala da sport, Yoko Ookamoto mi viene incontro. Mi parla rapidamente, senza formalità e nemmeno una particolare cordialità. Diretta e piuttosto tagliente.
“Lo spogliatoio degli uomini è laggiù...”.
“Ah, grazie”
“Mi avevi scritto un’email?”.
“No”.
“Pratichi già l’aikido?”
“Sì, a Milano, in Italia”
“Con Fujimoto?”
“No”
Non ho tempo di rispondere di più. Le domande si susseguono piuttosto incalzanti mentre ci diamo da fare per piazzare i tatami. Lei lo fa con energia, senza fermarsi.
“Qual’è la tua scuola?”
“La scuola di Itsuo Tsuda”
“A che federazione appartiene?”
“A nessuna federazione, Tsuda praticava in un suo dojo”
“Qui di solito, tutti fanno riferimento ad una federazione, per questo lo chiedevo” si giustifica.
“Tsuda ha praticato per diversi anni con Morihei Ueshiba” rispondo “poi, in Europa, ha voluto percorrere un percorso autonomo. Però gli altri praticanti di quell’epoca lo conoscevano bene. Per esempio Tada...” non mi lascia terminare.
“Ah, era sotto Tada”
“No, non era sotto Tada”.
Per il momento le presentazioni si fermano qui. Ookamoto sensei ha bisogno di situarmi. Mi sembra giusto e mi va bene così. Oltretutto, non avevo nemmeno avvisato della mia venuta né mi ero fatto precedere da una richiesta scritta. E credo che sia comunque sempre meglio e più corretto farlo.
Di certo, non si sforza molto per apparire simpatica, ma qualcosa di lei mi piace e mi attira. Come spesso mi succede con le donne d’azione e dalla decisione rapida.
Arriva Khalid e ci salutiamo con allegria.
“Vi conoscete?” chiede Yoko
“Ci siamo incontrati per strada” risponde Khalid.
Lei ride fragorosamente.

Comincia la lezione. Silenziosamente. La sala è grande e un po’ fredda. Disadorna di qualsivoglia decorazione, immagine, fotografia. Osservo che oltre la metà dei praticanti sono occidentali. Saprò in seguito che in questo corso ci sono inglesi, americani, scozzesi, tedeschi, olandesi, colombiani, francesi, australiani e forse studenti di altri paesi ancora. L’unico italiano, che viene sempre, oggi non c’è. Ci sono io.
Siamo disposti sui lati dei tatami e ognuno fa gli esercizi che desidera per prepararsi, scaldarsi, distendersi. Faccio qualche movimento della pratica respiratoria. Soprattutto gli esercizi a terra, per sciogliere le articolazioni delle anche e delle caviglie. Intanto osservo chi mi sta attorno e soprattutto la maestra che appare molto concentrata.
E’ sicuramente molto forte. Forte dappertutto. Le braccia, il bacino, le gambe. Si muove con agilità e potenza. Una vera guerriera. Ma dall’animo gentile. Dentro, sotto sotto. Credo che negli anni abbia dovuto e voluto dimostrare che anche una donna possa essere forte come un uomo e anche più di un uomo. E penso anche che ci sia riuscita. Di me è più forte e la sua tecnica è sicuramente superiore. Di certo padroneggia egregiamente le forme dell’aikido. Ma la forma non è tutto. Essa è limitata, fatiscente e confinata ad un breve momento della nostra vita. Nella forma non c’è permanenza né durata né infinito. Questi appartengono ad una dimensione dello spirito che qui è assente. Almeno per ora, perché l’aikido di Yoko Ookamoto potrebbe evolvere moltissimo nei prossimi anni. Se lei lo desidera. Ed io glielo auguro.
Comunque, a me la forza fisica piace un sacco. Quando è espressa con eleganza, sincerità e senza brutalità. Quando scaturisce da un corpo vivo e sveglio. Quando è un po’ selvaggia. Tutto questo è presente nell’aikido di questa giovane donna.
Giovane? Apprendo con un certo stupore che ha più di cinquant’anni. Gliene avrei dati al massimo trentacinque anche se in alcuni momenti i lineamenti del suo volto e alcune espressioni rivelano un’età più avanzata. Qualche giorno dopo, mi divertono le parole di Khalid, il mio nuovo amico scozzese (che pratica da sei mesi). Racconta con un umorismo assolutamente anglosassone dello shock che ha provato incontrando Yoko Ookamoto in bicicletta. Lui che era abituato a vederla sui tatami, energica e tuonante, si è ritrovato di fronte ad una matura signora, vestita come una qualunque normale, quieta, cinquantenne. La bici di Khalid ha sbandato per un attimo.
La lezione entra nel vivo. Uno dietro l’altro percorriamo il tatami avanti e indietro con cadute all’indietro, cadute all’indietro laterali (Che qualcuno me le insegni, faccio così fatica!), cadute in avanti, camminata sulle ginocchia. Ci sarà da sudare, è evidente. Mi piace però essere chiamato a dare il massimo.
Ookamoto ha una pedagogia molto chiara ed evidente. Sviluppa gradualmente, passo per passo, i movimenti e le tecniche che propone. Mostra con grande precisione lo spostamento dei piedi, la rotazione del bacino, i punti di contatto e di... impatto. Posso imparare molto e comunque oggi ho un’esperienza sufficiente per cogliere quello che vedo di buono e tralasciare ciò che mi pare meno interessante. E’ molto gradevole questo dono della maturità. E’ in un certo qual modo come se, in modo naturale e involontario, si economizzassero le energie. Forse perché istintivamente il corpo sa di averne meno da spendere. Forse perché un equilibrio generale è oggi più presente in me e gli eccessi hanno meno ragion d’essere.
Lei gira tra i praticanti e dice alcune cose. Più che dire, però, le fa sentire. Senza perdite di tempo. Quindi, nel suo insegnamento, c’è come un mix di coerenza logica – la gradualità nell’apprendimento e nell’esecuzione di movimenti non semplici che richiedono capacità di osservazione e di comprensione – e di azione immediata e determinata. Piacerebbe molto al mio amico Mimmo Lombezzi!
Dopo che mi sono preso un’involontaria capocciata con il mio vicino, lei passa da me e mi fa sentire alcune cose. Ora non le ricordo più con esattezza. Ricordo però che dopo di me ha fatto lo stesso con la mia partner mentre io osservavo attento, ma in piedi... “Seduto!” ha intimato imperativa facendo segno con la mano di abbassarmi. Agli ordini, sensei!!!
Passata un’ora e un quarto della lezione ho cominciato involontariamente a immaginarne la fine. Non per noia ma per fatica. Qui si pratica con molta intensità fisica e al corpo viene richiesto molto. La stanchezza che sopraggiunge è però una bella stanchezza. Questa è una delle considerazioni che mi ha spinto, dopo questa prima esperienza, a desiderare di farne un’altra con la stessa insegnante. Infatti ero provato, alla fine, ma con una sensazione di generale benessere. Prima di cominciare avevo un fastidioso indolenzimento tra la scapola sinistra e il collo, dopo più nulla. Questi sono segni che ci parlano. Perlomeno che parlano a me.
Le tecniche che abbiamo fatto durante la lezione sono state piuttosto belle. Per terminare, prima di kokyu ho (anche qui si conclude la lezione con questo!), una forma di kokyu nage, quella del “lazo”, in cui si fa roteare il braccio e il partner dietro le spalle per poi accompagnarlo, proiettarlo... invitarlo a volare davanti a te.
Un thé semplice con qualche dolcetto sembrano non mancare mai nei luoghi di pratica ed è una bella usanza. Sono stati l’occasione per conoscere meglio Yoko, per scambiare due parole con lei ed incontrarne il sorriso, per intuire in lei una dolcezza e una femminilità nascoste da qualche parte, laggiù in fondo...


Kyoto 14 e 15 gennaio 2008                                                                      (continua...)

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