mercoledì 22 gennaio 2014

Aikido a Kyoto (3)


(segue)




 
Scrivere richiede molto tempo. Ma non riesco ad essere sintetico e ho un certo desiderio di mettere per iscritto il più possibile del mio vissuto qui a Kyoto. E di condividerlo con voi.
Un mese piuttosto incredibile, questo, di una densità spaventosa. Mi sembra di aver accumulato nutrimento per mesi, forse per anni.
Qui nel dojo di Onizuka mi chiamano “il terremoto italiano”, the italian earthquake : la cosa mi fa sorridere pensando che solo pochi mesi fa mi sentivo come un deserto inaridito. Ma c’è il tempo del deserto e quello dei terremoti e... sono belli e fecondi entrambi.
Continuo ora con la mia esperienza nell’ambito dell’aikido. Spero di non tediarvi. Mi piace pensare che non sia così.

Seconda lezione: Dojo del Maestro Takahashi (Mitsumame Institute)

E’ stato allievo di Tanaka Bansen che, a sua volta frequentò il dojo di Morihei Ueshiba negli stessi anni in cui vi praticava anche Itsuo Tsuda.

E’ sera. Ci arrivo con Yoshiko Nishimura, una donna generosissima a cui devo molto in questi giorni. E’ lei che mi traduce le parole di Onizuka in inglese e che mi aiuta in mille modi. Penso che sia molto contenta del “super” lavoro che sta facendo. A volte siamo stanchissimi entrambi. But happy.
Siamo attesi alla lezione. Raccomandati da una praticante di iaido che partecipa anche alle sedute di katsugen undo nel dojo di Onizuka.
Sta finendo una lezione per bambini e ragazzi. Ne vedo un pochino. Atmosfera simpatica e piuttosto rumorosa. Un po’ sportiva.
Mi cambio sulle scale (qui gli spogliatoi sembrano non aver dimora, forse li si considera spazio inutilmente sprecato e quindi se ne fa a meno. Non hanno poi tutti i torti).
Uno, due, tre e ... via! Il ricambio è immediato, fuori i piccoli e dentro i grandi che spuntano da tutte le parti come per miracolo (non li ho visti cambiarsi).
Saremo circa 25 praticanti. Il dojo è piuttosto grande, un centinaio di metri quadri.
Davanti coloro che portano l’hakama, dietro gli altri. Mi metto in seconda fila.
All’arrivo mi sentivo stanco e un po’ infreddolito. E forse per questo anche un po’ teso. Allora ho cominciato a fare quello che in questi giorni faccio sempre: la respirazione lungo la spina dorsale, giù fino all’addome che aspira. Mi concentro sull’inspirazione che va indifferentemente su e giù per la colonna e espiro senza porvi troppa attenzione. Mi fa un gran bene, mi aiuta a concentrarmi e a distendermi. Provate...
Il maestro Takahashi l’ho incontrato sulle scale. Ci siamo dati la mano cordialmente. Mi sembra un tipo gentile, non più giovanissimo (settant’anni?), un po’ stanco forse, di poche parole.
Quattro battiti di mano e l’inchino verso il tokonoma dove stanno la calligrafia e le foto di Ueshiba e di Tanaka Bansen. Poi facciamo una serie di movimenti di riscaldamento. Alcuni sono gli stessi che abbiamo anche nella nostra Pratica Respiratoria. Non c’è però alcuna particolare attenzione posta sulla respirazione. Né sul ritmo. Qualche flessione e piegamento: senza esagerare...
Si comincia. Vengo affidato alle cure di un certo Honda che si presenta. Anch’io vengo a mia volta presentato dal maestro Takahashi: “Itaria no sensei”, maestro italiano... bene, non devo sfigurare. Ma Honda, gentile e bendisposto, è quadrato e massiccio, del genere “piuttosto che mi piegarmi mi spezzo”. “Watakushi karate!”, io karate, me lo dice lui ma l’avevo già capito dal suo corpo. Con Honda ci scaldiamo con spostamenti vari e scivolamenti di piedi poi siamo raggiunti da altri quattro, tra i quali una ragazza. Anche qui si pratica in gruppo, uno dopo l’altro senza interruzione. Ogni tecnica dura abbastanza a lungo, c’è il tempo di farla ciascuno diverse volte. Non ci sono tempi morti.
Iriminage… shihonage… yonkyo… Mi muovo con una certa scioltezza perché in questi giorni mi sento molto bene fisicamente. Cado anche morbidamente, in un modo un po’ diverso dagli altri che tendono a cadere pesantemente a terra, tipo judo, sbattendo forte le braccia sul suolo. Yoshiko mi confermerà dopo che il mio modo di muovermi era molto diverso dagli altri e che, per lei che assisteva all’aikido per la prima volta, si trattava come di due mondi differenti.
 Takahashi si avvicina allora a Yoshiko e parlando di me dice: “Lui è un sensei. Digli però di non essere così gentile con i miei allievi” e mi fa segno di essere più deciso, di non esitare, di non risparmiarmi. In realtà non mi sto risparmiando affatto ma so benissimo che forzando i ritmi o l’intensità dei miei movimenti finirei soltanto per impormi maggiormente. Utilizzerei più forza senza senso né giovamento per nessuno di noi. Non ne ho voglia, non mi interessa, non ne ho bisogno. Honda è gentile, molto forte ma un po’ ottuso. Molto difficile che qualcosa passi. Più facile con la ragazza che è molto più morbida. Peccato che si sforzi tanto di rafforzarsi e di indurire le braccia. Non le farà bene.
Dopo un po’ Takahashi torna da Yoshiko e mi dice di avvicinarmi. Deve chiedersi: “Ma che razza di aikido pratica questo qui?”. Allora mi sorprende chiedendomi se sono disposto a mostrare, nella mezzora rimanente, lo stile della mia scuola. Certo che sì, rispondo, eccomi alla prova. “Cosa mostri?” mi chiede. “Non lo so... vedrò...”. Ed è vero, non ho nessuna idea e non è un contesto semplice in cui mostrare qualcosa. Senza parlare il giapponese per giunta. Ma sono felice e onorato della sua proposta, significativa e generosa. E’ l’occasione per dire qualcosa. Mi tuffo.
Il maestro mi chiama fuori e mi chiede di presentarmi. Qual’è il nome del mio dojo e che aikido pratico? L’Aikido di Tsuda, dico, e il mio dojo si chiama “A ke lei naa” un nome africano (...) che vuol dire “grazie”. Ahh, sooo.... Poi vado a ruota libera. Takahashi chiama fuori Honda come uke. Honda arriva velocissimo in seiza, pronto all’azione. E’ il mio turno di spiazzarli tutti e lo faccio velocemente, senza esitare. Uno schiaffo all’etichetta ma al diavolo l’etichetta, il mio obiettivo è riuscire a mostrare qualcosa dell’aikido di Tsuda, del mio aikido, e con Honda non ci riuscirei.
“Posso cambiare uke?” chiedo a Yoshiko di tradurre le mie parole. Sgomento generale e un po’ di stupore. “Vorrei LEI” e indico la ragazza che praticava nel mio gruppo. La risata esplode fragorosa. Tutti credono forse che scelga una ragazza per faticare di meno o per aver vita facile. O forse ridono e basta.
Io comunque voglio mostrare nikyo sull’attacco shomen uchi ed è quello che faccio. Voglio mostrare che la respirazione nell’aikido è importante. Che quando inspiri il partner lo inviti ad un’avventura gioiosa. Che se hai di fronte una ragazza non per questo devi brutalizzarla o dimostrarti più forte (vale anche per gli uomini...). Ka - mi, il respiro passa e ottengo l’attenzione che cerco. Senza tensione.
Poi tutti provano questo modo di fare così nuovo per loro. Piace. Uno mi chiede “please please, show it again”. Corro a destra e sinistra a correggere un po’ tutti senza ritegno alcuno né rispetto per i gradi. Lo faccio simpaticamente e con decisione. Mi diverto un sacco. Kokyu (respirazione)... Ki no nagare (il ki scorre)... Maru, maru, okii maru (cerchio, grande cerchio)... sono le parole che uso di più.
Ecco che questa serata ha acquisito un senso tutto particolare. Honda alla fine mi dice di aver imparato tantissimo. Anch’io. Si brinda con il sake all’inizio dell’anno nuovo. E i piccoli dolci di riso sono deliziosi.

Kyoto, 11 gennaio 2008                                                                                         (continua...)

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