Ci vado ogni mattina di questo
mese di agosto milanese.
Sono cinque ippocastani che
creano un piccolo cerchio magico, si guardano l’un l’altro piuttosto vicini e
raccolti. Uno è quasi morto, potato quasi radicalmente. Ma gli altri lo tengono
in vita, senza di lui verrebbe a mancare la perfezione del cerchio e le loro
stesse esistenze ne soffrirebbero.
Oggi per la prima volta ho fatto
il mio Taiji all’interno di questo cerchio, dialogando con ognuno dei miei
cinque amici. Fino ad ieri ho praticato fuori, oggi era il momento di entrare.
Attorniato da questi personaggi imponenti mi sono sentito in una situazione
aperta e protetta allo stesso tempo. Cosa non ti comunicano gli alberi… Serve
solo un briciolo di sensibilità.
Ci ho messo un po’ a trovare
questo luogo ma ora so dove andare a praticare quando vado al parco Sempione.
Avevo bisogno di uno spazio così, non troppo esposto, non troppo nascosto.
Quando arrivo lì lascio la mia
bici e prendo subito posizione.
I piedi un po’ divaricati che
sentono la terra, la sensazione viva del centro, del ventre e gli occhi che si
riposano. Sì, basta poco, qui a Milano per riposare gli occhi. Cinque alberi
con una lunga storia, alberi che respirano, un bel prato, qualche cespuglio
fiorito… Per cercare quel riposo e quella calma che solo la natura ti può dare
non è necessario andare alla ricerca in luoghi lontani.
Però, di solito, è proprio quello
che crediamo. Pensiamo che per ottenere un distacco ‘salutare’, un riposo
‘efficace’ delle nostre menti stanche per l’eccessivo sovraccarico a cui le
sottoponiamo, sia necessario andare molto molto lontano. Invece è proprio il
momento in cui dobbiamo andare molto molto vicino, cioè dentro di noi.
Ogni mattina davanti ai miei
amici ippocastani con le foglie che stormiscono lievemente nel vento mi dico la
stessa cosa e provo la stessa sensazione. “Che differenza c’è in fondo tra
questo paesaggio e un tramonto alle Eolie, tra questo cielo e queste piante e
il cielo e le piante della brousse del Burkina Faso, tra un istante di silenzio
vissuto qui e il bel silenzio che si prova in una foresta?”. Le differenze
geografiche, climatiche e anche estetiche sono tante ma, a ben vedere, non c’è
nessuna differenza. Nella sostanza, noi rimaniamo noi, la natura rimane la
natura, la realtà è.
Questa presa di coscienza,
piuttosto recente in questi termini, ha molta rilevanza nella mia vita.
Vedere o non vedere la natura,
vederne la bellezza, sentirne l’anima e il vento che la muove, dipende soltanto
da noi e non da circostanze esteriori. Sappiamo benissimo quanto possa essere
vuota, noiosa e perfino angosciante una vacanza in un paradiso esotico. Un
paradiso immaginario, irraggiungibile. Frutto agognato di un viaggio solo
mentale.
La questione per me, oggi, si
pone diversamente. Ciò che mi chiedo è se respiro o no, se la mia colonna è
sensibile o rigida, se il cuore è sveglio e attento. Cerco questo tipo di
paradiso. Un paradiso terrestre, umano, accessibile.
Spiagge bianche di sabbia
vergine, palme dai datteri raffinati e meraviglioso relax… mi fate sorridere,
non solleticate più il mio desiderio. Ma chi vi vuole?
Il signor Gu Mei Sheng raccontava
in un meraviglioso filmato di come poco a poco scoprì “l’uomo di Ch’i”
all’interno di una prigione maoista dove fu rinchiuso per lungo tempo. A dire
il vero fu piuttosto l’uomo di Ch’i a farsi vivo… Gu praticava costantemente la
sua forma di Tai ji quan nei pochi metri quadri di un’angusta e umida cella
cinese. Lo faceva con totale dedizione e coinvolgimento. Un giorno nacque in
lui l’uomo di Ch’i. Dapprima era piccolo, timido e vulnerabile. Gu non lo
alimentò né vezzeggiò, lo guardò soltanto crescere lasciandogli lo spazio che
chiedeva. Infine, l’uomo di Ch’i poté realizzarsi pienamente, vivere e
manifestarsi in piena autonomia… In Gu vivevano ormai almeno due Gu, un Gu in
carne e ossa e un Gu di Ch’i, libero di muoversi e fluire senza limiti. Gu Mei
Sheng si sentì pervadere da una sensazione di profonda libertà interiore,
insopprimibile e incontenibile, e ciò malgrado le condizioni esteriori in cui
viveva, avverse, rigide e terribili per chiunque.
Con altre parole, Itsuo Tsuda
dice la stessa cosa quando afferma che alcuni “cercano di far irradiare l’anima
attraverso il corpo (…). Per costoro non esistono limiti di età. Perché l’anima
è eterna”.
Dietro la forma e i suoi limiti
c’è l’essere illimitato.
Vogliamo chiamarlo anima, uomo di
Ch’i, spirito? Esistono molte altre definizioni, ognuno scelga quella che gli
corrisponde di più. Quella che meno lo limita… In ogni caso ogni definizione
non è che un vestito che avvolge il contenuto, un nome che lo indica, una
forma, appunto. L’essere sostanziale, in verità, pulsa di una vita non
circoscrivibile.
Il corpo e le sue forme
contengono l’essere, lo incarnano, lo manifestano.
Senza corpo la mia vita non
avrebbe più senso, questo penso ogni giorno. Non potrei più sentirla, sentirmi,
toccarla.
Senza la sua caducità, la
transitorietà e la fragilità di ogni forma, svanirebbe ogni poesia.
E senza poesia verrebbe meno ogni
piacere.
Quando ci si allontana dalla
realtà di quello che ci dicono i piedi, per non perdersi nell’irrealtà dello
squilibrio mentale che è sempre in agguato, io penso che dovremmo ascoltare di
più il nostro corpo e ringraziarlo per tutta la vita che ci offre. Cercare di
coglierla pienamente e non solo in minima parte.
L’anima è luce e i raggi di
questa luce si propagano attraverso il nostro organismo.
Ne siamo davvero consapevoli?
Milano, estate 2012
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