lettera a una praticante francese
Grazie Y.,
la tua lettera mi ha fatto veramente piacere.
Mi dici tante cose e vorrei rispondere ad alcune di esse.
Si aprono molti interrogativi e sono contento di
condividerli con voi.
Senza averne la risposta...
Trovo molto interessante l’ultima considerazione di A. che ti ha detto di "aver apprezzato molto le forme di
‘punteggiatura’ introdotte nella seduta, con le respirazioni coordinate e i
cambiamenti di forma. Trova che questo le consenta di ricentrarsi e le
impedisca di cadere in una specie di sonnolenza". Tutto ciò va di pari passo con la sensazione di leggerezza che provavo alla fine delle
sedute a Kyoto. Sebbene fossero un po’ più lunghe di quelle a cui ero abituato,
esse mi sembravano più brevi. Pienamente soddisfacenti ma leggere. Ho
riflettuto molto su questo e ho capito molte cose. La seduta stessa, così come
il movimento rigeneratore, non può irrigidirsi in una forma immutabile. Se ciò
avviene e si cade nell’abitudine (dei ritmi, dei gesti, dei suoni, delle
parole, dei tempi, delle idee ecc.) il ki muore e... si sprofonda in qualcosa
(nella sonnolenza, nella noia, nei pensieri, nell’eccesso di coscienza,
nell’eccesso di sensibilità, nella fatica che non riesce a dissiparsi ecc.).
Il ritmo e la forma nella quale si svolge la seduta mi
sembrano essenziali e colui che l’anima ha un ruolo determinante. Credo, ne
sono certo, che il Signor Tsuda abbia fatto delle scelte sulla forma da
adottare in Francia. Ha scelto di praticare certe cose e di non praticarne
altre. Ne ha poi introdotte altre ancora che riteneva necessarie. Sulla base
delle persone, del paese, della situazione reale e viva in quel preciso momento
e non sulla base di idee preconcette. Credo anche che se egli fosse ancora vivo
oggi questa ‘forma’ si sarebbe certamente evoluta, come è normale che sia
perché lui stesso sarebbe nel contempo evoluto. L’ho detto chiaramente durante
lo stage, il movimento rigeneratore in sé non cambia (seppur cambiando ad ogni
istante...) ma le forme (delle sedute, dei dojo ecc.) possono e... devono
cambiare per restare vive e aderenti alle realtà particolari.
La forma nella quale abbiamo praticato per 25 anni,
fedelmente, senza cambiare neppure un briciolo rispetto a ciò che ci è stato
mostrato, ci ha certamente permesso di non sbandare, di non trasformare la
pratica del movimento rigeneratore in un’altra cosa, di non spezzare un filo
che ci lega al sig. Tsuda, di poter presentare il movimento a nuove persone
appoggiandoci su qualcosa di ‘solido’, di sperimentato, di vissuto e non sulla
base di improvvisazioni dell’ultima ora. Questo è stato molto importante.
Quando, a Kyoto, ho mostrato al Signor Onizuka la forma delle nostre sedute, ha
sorriso e mi ha detto: “Va bene! La conosco. È una delle forme (con qualche elemento particolare
introdotto da Tsuda) che noi praticavamo trent’anni fa! Nel frattempo sono
passati... per l’appunto trent’anni... Il che non ha impedito che il giorno
seguente, nel dojo di Onizuka, abbiamo tutti praticato in questa vecchia forma
di trent’anni fa perché lui voleva che la provassimo tutti. Apprezzo molto
questa condizione di spirito e questa disponibilità, questa voglia di testare,
di provare, di fare (prima del non-fare vale la pena di cominciare a fare...).
Uno spirito infantile e gioioso. Dunque si tratta per me di
accettare il cambiamento e soprattutto non aver ‘paura’ di cambiare. Perché la
paura ci ostacola, ci blocca e blocca tutta la nostra spontaneità e il nostro
movimento rigeneratore. Per anni ho avuto paura del cambiamento, me ne rendo
conto, perché c’era ‘il rischio di deviare dall’autentica Via del Movimento’.
C’era ‘il rischio di allontanarsi dalla Verità’. Era solo ideologia. Il risultato: la
mia pratica del movimento, strumento vivo di cui tutti disponiamo, era arrugginita e
stagnante. La bella idea ‘resisteva’ e scaldava ancora la mia mente ma la mia
capacità di trarre profitto dal movimento involontario - e dalla distensione,
dalla flessibilità e dal benessere che ne derivano - era ormai molto ridotta.
Ho dovuto andare fino in Giappone per ritrovare il piacere (!) della pratica.
Il piacere del corpo e non dell’idea. Il piacere del corpo che si muove senza
preoccupazioni. Il piacere semplice di essere ‘Uno’ con la vita che si manifesta
nel nostro movimento.
Ma ritorniamo indietro. Accettare il cambiamento senza
inutili timori, ed averne voglia, è forse oggi un punto di partenza e, a mio
avviso, una necessità.
Tuttavia questo pone problemi, domande e difficoltà.
Come ogni cosa che si muove e che vive.
Ad ogni praticante, ad ogni dojo, sta la responsabilità di
assumerne le conseguenze.
Da viversi - è possibile! - gioiosamente e semplicemente.
Credo che il Signor Tsuda abbia scelto intenzionalmente una
forma di base, semplice e costante, per lo svolgimento delle sedute.
Credo che abbia fatto un po’ la stessa cosa anche per la
Pratica Respiratoria nell’Aikido.
Insisteva sulla serenità, la semplicità, il Cuore di Cielo
Puro di colui che conduceva le sedute.
Queste rimangono per me condizioni fondamentali.
Una forma semplice che non varia permette a qualsiasi
praticante con un minimo di esperienza, capace di svuotarsi la testa e con un
po’ di respirazione, di condurre e animare una seduta.
A casa propria, in un gruppo, in un dojo.
Introdurre varianti nelle sedute avrebbe complicato un po’
le cose e Tsuda forse non ha voluto stimolare troppo la facilità e la tendenza
degli occidentali alla complicazione...
Per quanto mi riguarda, ritengo che sebbene sia vero e una
buona cosa che ogni praticante possa esser capace di animare una seduta di
movimento rigeneratore in tutta semplicità e senza preoccupazioni di tipo
tecnico, è altrettanto vero che un praticante esperto possa affinare la propria
capacità di condurre ed introdurre così delle ‘varianti’ (nei tempi, nei ritmi,
negli esercizi ecc.).
Tutto questo senza allontanarsi dallo spirito ‘Tenshin’
(Cuore di cielo puro) e cadere nel tecnicismo.
E soprattutto senza lanciarsi in ricerche e improvvisazioni
troppo personali.
Ecco perché oggi sono molto contento. Posso appoggiarmi
sull’esperienza, la conoscenza e la maestria del Signor Onizuka che con grande
generosità mi mostra e mi dice molte cose.
Non improvviso nulla ma...
Tengo a dirvi che il Signor Onizuka spera di poter venire un
giorno a Milano (quando?) non tanto per fare il ‘proprio’ stage, non per
mostrare ‘come si pratica il movimento’, non per dirci quale sia ‘il modo buono
o giusto di fare le cose’ ma piuttosto per ‘vedere quale sia il nostro stile di
pratica’, per conoscere qualcosa di ‘nuovo’ e semplicemente per aiutarci ad
‘unificare un po’ di più il ki del gruppo’... Detto da parte di un uchideshi (allievo interno) di Haruchika Noguchi... Ma questo
non mostra soltanto la sua modestia e la sua calorosa semplicità. Questa è
anche una condizione di spirito molto legata alla pratica e alla filosofia del katsugen
undo (movimento rigeneratore) ed io mi ci
ritrovo pienamente.
Dunque io, qui a Milano, non applico quello che ho appreso a Kyoto. Sarebbe forse la cosa
più facile da fare, ma non porterebbe da nessuna parte.
Sulla base della situazione, delle ‘risposte’ e delle
‘domande’, scelgo, introduco, adatto, faccio, non faccio... Mi sento vicino a
Tsuda in questo, ho l’impressione di pormi delle domande che lui stesso si è
posto...
Mi sento libero e ne sono felice. Se mi sbaglio o se mi
perdo non sono comunque solo... che sollievo!
Però cammino sulle mie gambe in piena autonomia e assumo
completamente la responsabilità delle mie scelte. In questo non ho alcun
sostegno ‘ufficiale’.
Mi sento abbastanza maturo, sereno e motivato per lanciarmi
in un cammino di questo tipo. Mi fa bene. Non ho ambizioni.
Ogni praticante di lunga data si porrà più o meno le stesse
domande cercando dentro di sé le risposte.
Lo stesso vale per ogni dojo, con tutte le complicazioni che
comportano la vita collettiva e di gruppo.
Rispetto a questo, c’è un bel detto africano:
“Se qualcuno viene da te alla ricerca di un frutto e tu
mangi tutta la polpa offrendogli solo il guscio, non riuscirai mai a
venderlo”...
A ciascuno di trovare la propria risposta!
Milano, 11 novembre 2009
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