mercoledì 29 gennaio 2014

Dakar, diario di un'immersione (1)

 


Primo impatto

Si apre il portellone ed esco dal Boeing Tunisair.
Africa per la prima volta! Un vero e proprio tuffo. Mi trovo immerso in un’aria liquida, densa, avvolgente. Nulla di sgradevole, anzi. In quest’umidità calda mi sento dentro da subito. Niente più incertezze o immaginazioni cariche di dubbi. Ci siamo, ora, nuoto già scendendo dalla scaletta dell’aereo. Per non affogare.
Il presente, con tutta la forza di cui può essere capace, ti sbatte contro e ti scuote. Finito il tempo del prima e del dopo, l’Europa è già lontana anni luce, adesso nuoto per sopravvivere, o per vivere?
Adesso. Se non sai nuotare, qui devi imparare in fretta. Ma tutto te lo insegna, la gente, il clima, gli odori, i suoni, tutto.
Già lo capisco dopo i primi passi dentro quell’aeroporto così insolito. Sembra un mercato. Ogni cosa si muove, ogni essere. Rumorosamente.
Mi lascio trasportare con animo leggero. Sono qui per questo. Voci, voci forti e non contenute, esplodono qua e la. Discussioni, risate, gridi.
Bagagli e persone passano disordinatamente attraverso scanner e controlli, l’impressione è che può passare di tutto. Un anziano europeo viene bloccato da un funzionario che vuole dimostrarsi severo. Senza certificato di vaccinazione contro la febbre gialla non si entra in Senegal! Il turista protesta come può, si giustifica. Il funzionario è inflessibile. Coda ferma per dieci minuti, siamo accalcati e sudati. Poi l’impasse si sblocca, apparentemente senza motivo, tutti passano, anziano turista compreso. A me non chiedono nemmeno il certificato.
Dalla piscina all’interno dell’aeroporto passi in un battibaleno a quella che sta fuori. Trasportato dalla marea umana che cerca sfogo all’esterno. Tutti sembrano attenderti, lì in strada, dietro alle transenne. Taxisti, aiutanti improvvisati, amici di amici. Voci ti chiamano a destra e a sinistra, vuoi cambiare soldi, vuoi andare a Dakar, vuoi mangiare?
Mi siedo sulla valigia rigida, con il muro alle spalle. Guardo affascinato la folla umana che si muove davanti ai miei occhi. Massa dai contorni indefiniti in continuo rimescolamento. Ragazze che vendono banane che portano sul capo, bambini che ti propongono piccoli sacchetti di acqua fresca. Mordi via l’angolino in basso e succhi. Come un seno di plastica.
Scambio qualche parola e qualche sorriso con un giovane francese appena arrivato come me. Entrambi attendiamo qualcuno. Siamo entrati nel regno dell’attesa. Meglio mettersi il cuore in pace.

Arrivo a Guele Tapée

Nel taxi i finestrini sono spalancati. Il vento tiepido che ci accarezza sa di mare perché la strada si snoda parallelamente alla costa. Viaggio con due amici che sono venuti a prendermi, Amadou e Mbarick. È gradevole questo percorso notturno tra Yoff e Dakar, mi posso rilassare e annusare forte gli odori intensi del sud. Poco alla volta, la densità urbana aumenta. Non le luci pubbliche, però, che sembrano scarseggiare (mi dicono che ci sono grandi lavori stradali in corso sulla corniche e che questo causa continui black-out elettrici).
Cresce invece il numero di persone presenti in strada. Le vedi e non le vedi, nella penombra, a volte illuminate dai fari delle auto. Camminano, si muovono o stanno semplicemente ferme sul ciglio della strada. Molti vendono i loro prodotti, spesso frutta o cibarie. E siamo nel pieno della notte. Si capisce subito che qui la vita notturna è intensa.
Impressiona un po’ l’intuire tutta questa vita che si svolge senza però riuscire a vederla chiaramente. Non sono abituato al buio cittadino. Si avverte come un senso di promiscuità e di mistero che all’inizio mi inquieta un po’. Tuttavia mi ci abituerò presto e altrettanto presto sarò consapevole di non correre alcun pericolo. Nell’atmosfera di questi quartieri popolari sembra non esserci tensione o rischio di violenza. Non è cosa da poco.
Il taxi ci lascia di fronte al mercato di Soumbédioune, rue 55 angle 60. Qui sono poche le strade con un nome, e si trovano soprattutto nel centre ville. A Guele Tapée, come a Medina o in altri quartieri popolari le vie hanno solo un numero: quando si indica il proprio indirizzo si comunica l’incrocio delle due strade più prossime alla nostra abitazione. In questo caso la 55 e la 60.
Scendendo dall’auto non puoi non sentirti osservato. Sei un tubaab, un bianco, e in questi quartieri ne girano ancora relativamente pochi. Scoprirò nei giorni seguenti che anche se apparentemente nessuno ti guarda sei comunque sempre visto. In ogni situazione, più occhi interessati ti scrutano e seguono la tua storia. Il quartiere ti accoglie e ti concede uno spazio. Allo stesso tempo ti fa suo e ti mangia. Integrazione inevitabile. Nessuno qui può rimanere osservatore estraneo e oggettivo. Non puoi che far parte di questa realtà, buttarti nella mischia.
Entro in un cortile, passando da un cancelletto di ferro. E’ buio anche qui. E nel buio, sdraiate su delle stuoie, dormono fuori per il gran caldo diverse persone. Incontro Yama finalmente, un grande abbraccio affettuoso mi fa sentire la gioia sincera che prova nell’incontrarmi. Anch’io sono felice, sono venuto fin qui per lei e per la fiducia che mi ispira.
Yama mi porta subito a conoscere le persone che popolano il cortile. Tutte donne. Stringo molte mani, nell’oscurità, saluto anziane signore di cui non vedo il volto e che mi parlano in wolof.
Nan ga def? Come va? Mangi fi rekk! Sono qui! 


Agosto 2007                                                                                                                   ... continua
 

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