La seconda lezione con Yoko Ookamoto a
cui ho potuto assistere si è svolta, sempre di mattina, in un dojo di Fushimi
(in un centro per l’azione giovanile, Youth Action Center, nome appropriato per la maestra!). Fushimi è a
pochi minuti di treno da Kyoto. Di fatto però l’agglomerato urbano non subisce
interruzioni e se non lo avessi saputo in precedenza avrei creduto di trovarmi
ancora in Kyoto. Scendo dal treno con Paul, un giovane colombiano alto e magro
che vive qui con sua moglie, anch’essa praticante di aikido. Lui pratica da una
decina di anni e mi accompagna gentilmente alla lezione. Arriviamo con un
leggero ritardo… sudamericano. A dire il vero io lo ho atteso a lungo nel luogo
dell’appuntamento e ad un certo punto credevo che non venisse più. La lezione
sta iniziando e ho giusto il tempo di cambiarmi rapidamente. I ritardi non mi
piacciono molto. Quando posso faccio in modo di avere sempre un certo margine
di anticipo su tutto quello che faccio. E’ una questione di respirazione. Mi
piace entrare nelle cose con un ritmo calmo senza sentirmi pressato dagli
eventi. Questo mi consente anche di apprezzarli con maggiore pienezza.
Ovviamente ciò comporta delle scelte e, a volte, si tratta di rinunciare a
qualcosa per poter vivere a fondo qualcos’altro.
Come in questa occasione però, può
succedere che le circostanze siano diverse da come si vorrebbe e bisogna saper
agire in fretta. Senza peraltro perdere per strada la respirazione tranquilla…
Il dojo è più piccolo della sala del
Budo Center e siamo in tanti. Molti di più dell’altra volta. Probabilmente
perché oggi è sabato e le persone sono più libere dagli impegni lavorativi.
Anche in questo caso, a occhio e croce, il numero di europei corrisponde al
numero dei giapponesi. Ci sono però molte più ragazze giapponesi rispetto alla
prima lezione.
Proprio in rapporto alla nazionalità
dei presenti avviene un fenomeno curioso. Avevo avuto la stessa impressione
durante la prima lezione. E’ come se gli europei cercassero di divenire e
atteggiarsi in modo più giapponese dei giapponesi. Senza voler mettere in
dubbio il sincero trasporto e la serietà di intenti che li motiva, ciò che ne
risulta è un atteggiamento piuttosto ridicolo e a volte grottesco. E quasi
sempre lontano da una spontanea naturalezza. Sembra quasi che la serietà sia
considerare come sinonimo di un rigore austero e rispettoso. Eppure Yoko più di
una volta ride e quando fa una battuta spiritosa solo una giovane giapponese si
mette a ridere (mi confesserà in seguito di essersi zittita subito essendosi
sentita l’unica a farlo…). C’è anche una giovane occidentale serissima che gode
certamente della stima e dell’appoggio della maestra. E’ tutta compresa nel suo
ruolo di ottima e responsabile allieva, osserva gli altri con un certo
distacco, a volte da fuori, come un’assistente della maestra incaricata di una
missione importantissima. Rido. Anch’io sono stato così! Almeno per un po’… Ma
oggi so che non è necessario
passare per di lì. In ogni caso non per tutti.
Ho praticato con lei una delle
tecniche che ci sono state proposte. Non ha mai sorriso… Neanche una volta! “E
ridi!” mi dicevo e facevo di tutto per strapparle un po’ di emozione. Niente,
nulla che trasparisse, nessuna faglia, nessuna vulnerabilità. Solo, ogni tanto,
qualche sospiro intrattenibile e una leggera agitazione respiratoria la
tradivano vigliaccamente.
Perché? Perché ci incanaliamo in
sentieri che ci fanno perdere tanto tempo prezioso?
Ho lasciato cadere ogni ulteriore
tentativo di sciogliere quel grazioso ghiacciolo con cintura nera dicendomi che
ognuno di noi deve comunque fare i conti con i propri limiti e le proprie
durezze. E che, se non li ascoltiamo, gli altri che ci stanno attorno possono
ben poco. Sebbene, con costanza, ci bombardino di informazioni e indicazioni
interessanti. Tuttavia, ne sono convinto, il cambiamento è possibile per tutti
e a qualunque età. Questione di apertura e di desiderio… E di speranza.
Non tutti gli occidentali presenti
erano altrettanto ingabbiati in un’etichetta “nipponically correct”. Con alcuni di loro ho avuto scambi e contatti
anche piuttosto calorosi e nell’insieme mi è piaciuto partecipare ad una classe
così eterogenea e mista. Mi ha riportato indietro ai tempi dell’infanzia, a
quando andavo all’ International school of Milan. Lingue diverse che si incrociano, corpi e volti
dai tratti e dalla storia geograficamente lontana. E’ bello in queste
situazioni perché ci si sente un po’ unici, rappresentanti di un paese, di una
cultura, di una lingua. Eppure, siamo unici, anche se spesso lo dimentichiamo. Un contesto culturalmente
variegato, dove ogni cosa ha il sapore della diversità, ci ricorda questa
unicità e ci invita a coltivarla. E’ il bello dei viaggi non troppo
organizzati, nei quali si corre il rischio dello spaesamento e ci si espone al
cambiamento. Paradossalmente, proprio in queste occasioni, abbiamo l’occasione
di riappropriarci o almeno di riavvicinarci alle nostre radici. Di ritrovare la
nostra casa e di amarla.
E i giapponesi in questo contesto che
fanno? Si comportano in modo molto diverso dagli altri giapponesi che avevo
incontrato nelle lezioni precedenti (quelle di Higuchi e di Takahashi). Lì,
dopo avermi osservato e “misurato”, si erano tutti dimostrati aperti e curiosi
rispetto al mio aikido, in un certo qual modo desiderosi di apprendere del
nuovo e dell’esotico. Qui invece… si difendono. Difendono la loro unicità nipponica, sembra che si sentano tenuti a farlo, a
dimostrare che loro sì sono veri
giapponesi e non questa massa invadente di gaigin, di cittadini stranieri. Praticano quindi
silenziosamente e ostentando sicurezza. A volte anche con una certa durezza.
Riflettono l’immagine di colui che crede di detenere una conoscenza e un “know
how” irraggiungibile per lo straniero. L’immagine classica del giovane budoka giapponese a volte un po’ rigido e presuntuoso.
L’immagine che Itsuo Tsuda ha messo
in discussione e ribaltato, con il suo lavoro e i suoi scritti che tanto ci
hanno parlato di una cultura e di una pratica accessibile per tutti (anche per
noi occidentali, sì, ma prima di tutto uomini). In questo, Itsuo Tsuda è stato
un grande precursore ed ha aperto una strada che pochi altri giapponesi hanno
saputo percorrere finora.
Per le giapponesi il discorso è
diverso. Ah, donne, quanto siete, come sempre, più aperte, più curiose, più
vive, più sensibili, più simpatiche! Con le praticanti che ho incontrato qui a
Fushimi il ki passa molto di
più che con gli uomini. In alcuni casi “bevono a grandi sorsi” il mio aikido
così diverso da quello a cui sono abituate. Lo fanno con semplicità e allegria.
Sento che ne hanno sete e mi piacerebbe avere il tempo di insegnare loro
qualcosa. Ma anche il poco che può passare in questi brevi frangenti di pratica
forse lascerà qualche traccia viva e avrà un senso nel loro percorso e nelle
loro ricerche.
Sulla lezione di Yoko Ookamoto non ho
molto altro da aggiungere. Si svolge un po’ come la prima a cui ho partecipato,
con lo stesso slancio, la stessa metodicità, lo stesso impegno. Siamo in molti
per cui, in certi frangenti, ci divide in due gruppi. Bisogna saper
padroneggiare bene le cadute e i tempi perché gli spazi sono piccoli e non c’è
molto tempo per riflettere. Ad un certo punto, mentre la metà del gruppo sta
praticando kokyu nage (tecnica
che prevede una caduta in avanti) lei prende ad uno ad uno tutti quelli che
stanno seduti in fila ad assistere e li proietta a destra e sinistra, in uno
spazio esiguo. Quattro cadute per ciascuno, energiche ma rilassate, senza
esitazione possibile. Perché sprecare tempo in un’attesa inutile? C’è fluidità
nel suo movimento ed è un piacere vederla. Lo farò anch’io, prima o poi. Quando
saremo in tanti.
Alla fine del corso mi fermo a parlare
con un francese e perdo di vista Yoko Ookamoto. Quando la cerco è troppo tardi
e lei se ne è già andata. Non ho quindi avuto il tempo di salutarla. Chiedo a
Paul di farmi la cortesia di ringraziarla da parte mia, di farle avere i 1000
yen (circa 6 euro, quota prevista per i praticanti in visita) che le devo e di
farle sapere che quando tornerò a Kyoto in agosto intendo praticare ancora con
lei.
è un piacere leggerti. bello quello che scrivi.
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